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Umanistiche: L'ATTIVITA' LEGISLATIVA DI FEDERICO II:PERCORSO DIDATTICO

Rassegna stampa

In una classe seconda del biennio è possibile proporre una riflessione sull’opera legislativa compiuta per volere di Federico II partendo da alcuni testi molto noti che verranno però presentati come fonti piuttosto che analizzati, come accade solitamente nel triennio, nell’ambito di una trattazione diacronica della letteratura italiana; tali testi offrono spunti suggestivi per approfondire e vivacizzare l’approccio a temi che potrebbero essere percepiti come noiosi

 

Dante e Pier delle Vigne

Il primo che può essere sottoposto agli allievi è il celebre passo della Commedia in cui Dante incontra Pier delle Vigne nella selva dei suicidi (Inf. XIII). Pier delle Vigne racconta di sé (vv. 55-78): prima di evocare – facendo un uso di moduli retorici che ha suggestionato per secoli la critica – il gesto disperato che rese lui, “giusto”, “ingiusto” contro se stesso, egli ricorda a Dante di avere in vita con delicatezza tenuto “ambo le chiavi” del cuore dell’Imperatore, quella per aprirlo e quella per chiuderlo, e di essere stato oggetto della sua fiducia tanto da escludere quasi ogni altro. L’alto funzionario della Magna curia definisce Federico “Cesare” (v. 65) e “Augusto” (v. 68) e chiama quello che ha svolto per l’imperatore un “glorioso offizio” (v. 64).

Una prima riflessione che verrà proposta sarà proprio sull’”offizio” svolto da Pier delle Vigne a corte. Poeta, come molti dei funzionari di cui Federico si era circondato per rafforzare la burocrazia e riprendere così il controllo del Regno, Petrus de Vinea – Pier della Vigna o “delle Vigne” – fu prima di tutto un cultore dell’oratoria e un solerte dignitario. Massimo esponente della tecnica scrittoria considerata già dai contemporanei uno dei motivi peculiari di eccellenza della corte di Federico – e che è comunque da taluni inquadrata nell’ambito di un più generale ritorno allo studio dell’oratoria agli inizi del XIII secolo – egli fu anche insigne giurista. La tradizione, infatti, lo vuole primo estensore del testo delle Costituzioni Melfitane. Il delle Vigne maestro dell’ars dictandi è uno dei pochi membri della curia federiciana del quale si conoscano alcune note biografiche; una riflessione su di lui può servire a fare luce su quel gruppo di validi funzionari che il sovrano volle porre al centro della sua opera di riorganizzazione dell’Impero: erano laici, avevano una preparazione specifica, erano sollecitati a partecipare alla vita culturale di quella Università di Napoli che Federico aveva voluto fondare e contrapporre alle scuole di Bologna e Montecassino, prestigiose ma legate alla Chiesa.

Utile a sottolineare l’importanza della figura di Federico sarà pure rilevare il ricorso nel testo dantesco agli appellativi “Cesare” e “Augusto”, che gli allievi riconosceranno come espliciti richiami alla romanità e alla dignità imperiale.

 

Non solo imperatore

Per volontà di Federico – e di chi per lui si era occupato di riordinare le leggi del suo Stato – quegli appellativi comparivano anche nel testo delle Constitutiones che, concepite soltanto per il regno di Sicilia, pure riportavano in apertura, a richiamare le prerogative imperiali del sovrano, tutti i titoli dei quali il figlio di Enrico VI e di Costanza d’Altavilla si fregiava:

Imperator Friedericus Secundus

Romanorum Caesar Semper Augustus

Italicus Siculus Hierosolymitanus Arleatenis

Felix Victor ac Triumphator.

Il sovrano poté gloriarsi della propria romanità anche con l’augustale, la nuova moneta in oro coniata, a partire dal 1231, dalle zecche di Messina e di Brindisi. Si trattava di una emissione di prestigio, dall’alto valore intrinseco; anche se la sua circolazione doveva essere limitata al solo Regno di Sicilia, pure Federico volle che veicolasse la sua immagine di imperatore del Sacro Romano Impero: sul verso si leggeva, infatti, CAESAUGU IMPROM (Caesar Augustus Imperator Romanorum), sul recto egli era rappresentato alla maniera classica, di profilo e inghirlandato.

 

Rosa fresca aulentissima

Proprio gli augustali vengono esplicitamente menzionati nel secondo dei testi che si propone di utilizzare. Si tratta del celeberrimo contrasto “Rosa fresca aulentissima”, testo che in trentadue strofe riporta, come è noto, le schermaglie amorose tra un giovanotto e una fanciulla, dapprima assai ritrosa, poi via via sempre più disposta ad accettare le profferte amorose che le vengono rivolte. Poco si sa dell’autore del componimento dialogato, Cielo o “Ciullo” d’Alcamo, personaggio comunque con tutta probabilità legato alla corte di Federico, che con chiaro intento parodistico mescolò nel testo il ricorso a formule auliche – per esempio il “rosa fresca aulentissima” con cui viene apostrofata la fanciulla nel primo verso – con l’uso di un linguaggio popolaresco. Agli allievi si sottoporranno soltanto alcuni versi utili a ricordare la vicenda; senz’altro il fondamentale scambio di battute della quarta e quinta strofa: la fanciulla teme che suo padre – pàremo – e i suoi parenti si accorgano dell’insistente corteggiamento del giovane e che finiscano per aggredirlo:

«Che 'l nostro amore ajúngasi, non boglio m'atalenti:

se ci ti trova pàremo cogli altri miei parenti,

guarda non t'ar[i]golgano questi forti cor[r]enti […]»

(“non voglio che mi piaccia che il nostro amore si congiunga: se ti ci trovano mio padre e gli altri miei parenti attento che non ti raggiungano quei forti corridori”, vv. 17-19). Il corteggiatore della fanciulla, per nulla intimorito, si trova a ricordare una delle disposizioni introdotte da Federico con le Costituzioni di Melfi, la difensa. La norma, per evitare il ricorso alla vendetta privata, stabiliva che chi fosse in procinto di essere aggredito avrebbe potuto difendersi invocando il nome dell’Imperatore; egli stesso poi avrebbe potuto stabilire l’ammontare della sanzione per chi avesse ignorato tale invocazione. Il protagonista del contrasto dunque dichiara:

«Se i tuoi parenti trova[n]mi, e che mi pozzon fare?

Una difensa mèt[t]onci di dumili' agostari:

non mi toc[c]ara pàdreto per quanto avere ha 'n Bari.

  Viva lo 'mperadore, graz[i'] a Deo!

  Intendi, bella, quel che ti dico eo?»

(Se i tuoi parenti mi trovano cosa mi possono fare? Ci metto una difesa di duemila augustali: tuo padre non mi toccherà per tutte le ricchezze di Bari. Intendi, bella, ciò che ti dico?, vv. 21-25).

La fanciulla “intende” e, dopo che il suo spasimante sarà arrivato a giurarle amore eterno sul libro dei Vangeli sottratto in un monastero, cederà: «[…] eo tut[t]a quanta incenno./Sono a la tua presenz[ï]a, da voi non mi difendo […] A lo letto ne gimo a la bon'ora,/ché chissa cosa n'è data in ventura» (vv. 157-161).

Le fama delle leggi di Federico si era dunque rapidamente diffusa e l’esistenza di una multa a protezione dell’aggredito poteva essere utilizzata come utile argomentazione per conquistare la donna amata. Conoscerle, dunque, aiutava a difendersi. Allora come oggi.

 

 

 









Postato il Sabato, 17 gennaio 2009 ore 15:06:22 CET di Salvina Torrisi
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