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Umanistiche: BENJAMIN ED HEIDEGGER:IL LINGUAGGIO POETICO IN HOLDERLIN

Rassegna stampa

Benjamin e Heidegger: dalla cesura al nuovo inizio

Un confronto sul linguaggio poetico e l’esperienza del divino in Hölderlin.

 

Nell’affrontare la riflessione benjaminiana Sul concetto di critica nel romanticismo tedesco, ripensando la nozione stessa di critica, irrompe prepotentemente il riferimento alla poesia di Hölderlin. L’interesse di Benjamin nei confronti di Hölderlin, maturato all’interno del circolo George-Kreis, è teso a individuare la linea di demarcazione tra mito e verità, stigmatizzando l’idea illusoria della vita come opera d’arte e sottraendo al poeta l’aura di “mitico eroe”, di depositario di un genio creativo. Per comprendere il modo in cui Benjamin intende affrontare la lettura di Hölderlin è necessario introdurre il concetto di ‘privo d’espressione’ – centrale nell’interpretazione benjaminiana de Le affinità elettive di Goethe –con cui Benjamin definisce la potenza critica che, pur non separando nell’opera d’arte l’apparenza dall’essenza, vieta loro di  fondersi:

 

L’inespresso è la potenza critica, che se non può separare, nell’arte, l’apparenza dall’essenza, vieta loro però di mescolarsi […] Esso spezza, cioè, quello che resta in ogni bella apparenza, come eredità del caos: la totalità falsa e aberrante, la totalità assoluta. Esso compie l’opera riducendola ad un «pezzo», a un frammento del vero mondo, al torso di un simbolo.

 

Il privo d’espressione (Ausdrucklose) si rivela essere il concetto in grado di portare alla luce il contenuto di verità di un’opera: interrompendo la sua assoluta e ‘falsa totalità’, consente di portare a compimento l’opera arrestandone l’espressione armonica, la sua «bella apparenza» – come affermerà Benjamin a proposito dell’occidua, tramontante e cadaverica bellezza dell’Ottilia goethiana – frammentandone il contenuto reale e riducendola ad un «torso di simbolo». Il ruolo della potenza critica dell’inespresso (Ausdrucklose) è, dunque, quello di evitare che la bella apparenza dell’opera si assolutizzi, imponendosi nella sua ‘aberrante totalità’, e di condurre a compimento l’opera attraverso il suo processo di interruzione e frammentazione. Il privo d’espressione è l’elemento critico che individua la sua genesi all’interno dell’opera stessa, e che ha il compito di rendere consapevole l’opera del suo immanente carattere d’incompletezza sottolineandone il modo in cui il contenuto di verità che le appartiene non coincide affatto con la completezza della sua «bella apparenza». In questo modo Benjamin intende delineare un confine netto tra arte e vita ponendo l’urgenza di individuare un principio o un’istanza critica in grado di fissare, in primo luogo, i limiti dell’opera per far emergere il suo fondamento di verità: eternando il suo valore ed equilibrando, attraverso l’effetto limitante della sua bellezza e della sua apparenza, Benjamin giunge a ricavare il «contenuto formale» dell’opera.

 

Il tentativo benjaminiano di ribadire e di definire la finitezza dell’opera necessita, dunque, della potenza critica dell’inespresso che segnala una differenza interna all’opera stessa, permettendo di evitare una possibile assolutizzazione del suo aspetto apparente-contingente. Nell’istante in cui la ‘criticità’ immanente all’opera permette a quest’ultima di riconoscere la propria finitezza e la propria mancanza di autosufficienza, si istituisce un legame con un’alterità – un’istanza di assenza di espressione – che non si configura nella pienezza di una dimensione assoluta, bensì come qualcosa che arrestando la bellezza, l’ apparenza e l’espressione, fa sì che possa emergere il suo «contenuto formale».

 

Il discorso benjaminiano sul carattere critico del ‘privo d’espressione’ arriva a definirsi compiutamente  attraverso l’esplicito riferimento a Hölderlin: solamente soffermandoci sulla rilevanza profonda di questo incontro sarà possibile delineare il significato dirompente del concetto benjaminiano di critica. Benjamin, innanzitutto, analizza rigorosamente la teoria hölderliniana del tragico, rivolgendo la sua attenzione, in modo particolare, alle annotazioni di Hölderlin all’Edipo. In questi frammenti Hölderlin afferma che, nella successione ritmica delle immagini in cui si sviluppa il trasporto tragico, diviene necessaria quella che ‘metricamente’ viene definita la cesura la – «parola pura» –, una sorta di forma d’interruzione antiritmica che, nell’avvicendarsi incalzante della recitazione, permette alla rappresentazione tragica di fuoriuscire dal vortice di sfrenatezza in cui inevitabilmente è trascinata, acquietandosi in una singola parola. Dunque la «cesura» e la «sobrietà occidentale» di cui parla Benjamin a proposito della poesia di Hölderlin, non sono che sinonimi per definire il venir meno, attraverso l’instaurazione di un regime ‘ritmico-armonico’, di qualsivoglia forma di trasporto espressivo, per fare posto a una forza priva di espressione: tale forza, come Benjamin afferma nel suo saggio su Le affinità elettive, «è percettibile nella tragedia greca come ammutolire dell’eroe e, negli inni hölderliniani come arresto del ritmo».

 

Si tratta, a questo punto, di problematizzare l’introduzione del concetto di privo d’espressione in collegamento con la cesura tragica a cui Hölderlin fa riferimento. Il discorso benjaminiano, a partire dal saggio Le due poesie di Hölderlin – tradotti in italiano e raccolti in Metafisica della gioventù – istituisce un nesso tra la cesura tragica e l’arrestarsi del ritmo dell’inno affermando che, a fondo dell’opera tragica, come suo elemento costitutivo rintracciabile nel nesso oppositivo tra il succedersi dell’espressione armonica dell’andamento ritmico e l’incalzante dispiegarsi del trasporto tragico, giace una spinta ‘controritmica’ che opera come elemento di equilibrio. Secondo Benjamin, al fondo di questa concezione hölderliniana del tragico, risiede l’auspicio che la poesia sia elevata al grado di mechané degli antichi e acquisisca sicurezza in base a un calcolo regolato da leggi. Benjamin avverte l’esigenza di Hölderlin d’individuare all’interno della poesia «principi e limiti sicuri», atti a controbilanciare quell’irrefrenabile rapimento che, nella tragedia greca tende a trascinare l’uomo verso una mortifera dimensione di avvicinamento e intimità con il divino. A questo proposito deve intervenire la cesura: essa deve agire come forma di equilibrio e di auto-distanziamento in base al quale, ‘l’eccesso d’intimità’ con il divino – di cui il tragico è espressione – subisce un contraccolpo, una sospensione del suo ritmo dissolutore. Secondo Benjamin, Hölderlin intervenendo con gli strumenti del linguaggio poetico, risale dall’interno dell’opera tragica verso la sua condizione originaria: verso la «pura parola», la «rappresentazione stessa», traducibile nei termini di un principio in grado di ristabilire i limiti dell’espressione attraverso un arresto del ritmo che impedisca al linguaggio umano di farsi divino.

 

Hölderlin, in tal modo, organizza una vera e propria logica poetica attraverso la quale  realizza, nell’orizzonte di quell’esperienza estremamente pericolosa e rischiosa quale la poesia si dimostra essere, un criterio di misura ed equilibrio precario, ossia una forma di assicurazione dal ritmo dissolutore del divino. Secondo Hölderlin il linguaggio poetico non può dirsi tale se non nell’incontro con il divino, ma questo ‘fatale’ avvicinamento non può che essere la fonte di «massimo pericolo».

 

Anche Heidegger, in Hölderlin e l’essenza della poesia, si pone la questione di quale sia il senso di un linguaggio inteso come il più pericoloso dei beni. Linguaggio come luogo manifesto dell’errare e della minaccia dell’essere, luogo in cui si dà la possibilità della perdita stessa dell’essere. La parola essenziale si configura come «rischiosa primizia» che appartiene agli dèi, fonte di creatività poetica che non offre garanzie immediate. Solamente correndo questo rischio, secondo Heidegger, si può accedere alla possibilità di stare in mezzoall’apertura dell’ente, di ‘stare nel mondo’ e di ‘essere storicamente’: in ciò il linguaggio dimostra di essere il bene più originario.

Tornando all’interpretazione benjaminiana del linguaggio poetico hölderliniano, si può constatare come l’intera produzione innica di Hölderlin si ponga la questione  del rapporto tra la totalità, la pienezza e l’eternità del divino verso la quale la transitorietà dell’uomo, inevitabilmente, sempre si rivolge. In assenza di tale riferimento, infatti, il linguaggio umano verrebbe a manifestarsi come una forma di autosufficienza veicolante una ‘falsa infinità’, la quale tenderebbe a oscurare la sua naturale e inalienabile finitezza. Solamente rivolgendosi al divino l’uomo può osservare nitidamente quei limiti dettati dalla sua condizione di mortale e scorgere, in questo modo, l’inesauribile distanza che lo separa da esso.

 

Hölderlin  osserva nel linguaggio poetico il luogo dell’incontro tra il divino ed l’umano, al quale inerisce la tensione insopprimibile tra una vicinanza che uccide, e una lontananza che priva l’uomo del proprio fondamento di senso. La poesia ha, dunque, l’arduo compito di sopportare questa situazione e di tentare di contrapporre alla spinta travolgente, illimitata, indistinta del divino, quel principio armonico in grado di orientare ‘sobriamente’ l’uomo verso se stesso e verso la propria natura finita. La poesia di Hölderlin, stando all’interpretazione benjaminiana, muove da questo fondamento tragico e se ne alimenta incessantemente: si annuncia come tentativo di bilanciare il legame contrastante tra la forma e l’informe, l’umano e il divino, la riflessione armonica e il ritmo vorticoso dell’illimitato.

 

Se, invocando la logica e il calcolo, il linguaggio poetico hölderliniano affida alla cesura la possibilità di arrestare l’irruenza dionisiaca, per impedire l’assolutizzarsi e al contempo il divinizzarsi del linguaggio umano, Hölderlin affida questo compito ‘delimitante’ al divino stesso. Per questo Benjamin parla di scambi e oscillazioni, ricercando nel tragico e nella poesia una forma di equilibrio tra i due aspetti dell’umano e del divino, assunti entrambi in un legame necessario che non si attua nei termini di una mediazione reciproca, bensì di un’oscillazione e di un’alternanza, di una tensione irrisolvibile che il poeta è costretto ad ‘abitare’. Cesurae sobrietà, dunque, illustrano il legame tra una necessaria istanza d’interruzione – di intervento di una «regola sicura», di una «chiarezza rappresentativa» – con il bisogno ineliminabile di esporsi al divino, pur rimanendo sempre nel proprio universo finito, e di ‘colloquiare’ con quest’ultimo pur non abbandonando mai il linguaggio umano. Tra il «fuoco celeste» e la «sobrietà occidentale», secondo Benjamin, grazie al linguaggio poetico si apre un legame di unità-distinzione che mette in luce il limite di ciò che si può rappresentare, limite che richiede un legame con il suo ‘oltre’ per poter essere rappresentato. Se infatti l’uomo si fa identico al divino rendendo tale incontro troppo ravvicinato, o altrimenti se si smarrisce in un oblìo totale del divino rinchiudendosi in se stesso, in entrambe le circostanze il linguaggio umano tenderebbe ad assolutizzarsi senza alcuna consapevolezza dei propri limiti, ricadendo e dissolvendo la propria espressione in un irrigidimento e in un’inevitabile caduta nell’informe.

 

In Hölderlin il superamento del principio greco della forma armonica avviene, secondo Benjamin, sul piano linguistico nella ‘sobrietà’ del dettato poetico, equilibrato dall’idea illimitata e incommensurabile del «principio orientale» che irrompe nella trama del poetato «creando un effetto di estraneità estrema», delimitandolo e determinandone il contenuto formale. Il caos dell’incantamento artistico subisce da parte della potenza critica del privo d’espressione, che agisce immanentemente al contenuto interno dell’opera, un irrigidimento e un’inevitabile sospensione. L’inno hölderliniano, interrompendosi, «riprende fiato» e, rinunciando alla pienezza del bello, ricade nella fluida e informe dimensione della vita. Allo stesso modo in cui l’eroe tragico è costretto ad ammutolire per affermare l’intraducibilità del linguaggio umano in quello divino, così la poesia di Hölderlin rimarca il limite della sua potenzialità espressiva, ricercando nel suo oltre una regola sicura per mantenere il proprio stato d’equilibrio, in perpetua tensione tra l’illimitata ‘inespressione’ divina e la finitezza del linguaggio umano.

 

Benjamin, nel commento a Due poesie di Friedrich Hölderlin,introduce una nozione decisiva: la «forma interna» (Gehalt) o «poetato», attraverso la quale viene a configurarsi una costellazione composta da tre termini che si istituiscono in un regime di simultaneità  reciproca: il commento estetico, l’opera poetica e la sua forma interna. Il compito della critica è individuabile nel movimento di ‘anabasi’ che, dalla forma interna dell’oggetto poetico, risale in superficie per manifestare il proprio «prodotto e oggetto della ricerca»: il poetato.

 

Il carattere soggettivo dell’artista – la creatività del genio – e il contesto di realtà nel quale la poesia viene concepita, non rientrano nel procedimento ermeneutico benjaminiano, che restringe la sua indagine sull’opera poetica ai due elementi che la originano: il commento critico e la forma interna dell’opera stessa. L’energia informe sprigionata dalla forza critica necessita un bilanciamento, un effetto riequilibrante, affinché possa modellarsi armonicamente nella forma poetica. L’elemento che adempie a questo ruolo deve poter trascendere l’immediata rappresentazione dell’opera e, al contempo, deve decidere del suo limite: Benjamin ricorre, dunque, all’effetto organizzativo e rigorosamente determinante del «principio orientale di sobrietà». Attraverso tale procedimento la forma interna dell’opera viene proiettata nell’idea, estendendo incommensurabilmente il suo limite, che mai viene oltrepassato. Ritorna il motivo che Benjamin affronterà ampiamente nella premessa gnoseologica al Dramma barocco tedesco, della salvazione dei fenomeni nell’idea e non della loro raccolta, che è «incombenza dei concetti», ma della determinazione della loro reciproca appartenenza.

 

Nella realizzazione formale e nell’oggettivazione del cosmo poetico, l’idea si manifesta in tutta la sua sovranità, permettendo al poeta di superare la differenza tra forma e informe, e di dettare la legge ultima del mondo poetico: la connessione, nella quale imperiosamente governa l’unità del poetato come momento di reciproco intreccio e d’interpenetrazione delle singole forme intuitive nel momento intellettuale, come giuntura tra poli interdipendenti – tra un’assoluta pienezza e una labile incompiutezza –  in cui viene esercitata la sovranità del suo potere relazionante. A questo proposito, nel commento critico al frammento hölderliniano Il coraggio dei poeti, richiamandosi alla potenza plastica e ‘vivificante’ del centauro Chirone – suggestionato dalla lettura del frammento di Hölderlin Das Belebende (Il vivificante) –, Benjamin scrive nel 1917 Der Centaur (Il centauro), richiamandosi proprio alla figura che rappresenta la forza mediatrice ed equilibrante tra la dimensione informe, acquatica, stagnante e caotica dell’originaria conoscenza mitica, e la determinazione della struttura formale del vivente. A questo proposito Benjamin, commentando il frammento hölderliniano Il coraggio dei poeti, afferma:

 

Lo stesso rapporto che qui, nel senso intensivo, porta alla plasticità temporale della figura, nel senso estensivo deve condurre a una figura infinita, a una plasticità come chiusa in una bara, in cui la figura, la forma viene a identificarsi con l’informe. L’oggettivazione della forma nell’idea significa insieme: il suo ampliarsi sempre più illimitato ed infinito, l’unificazione delle forme in quella forma assoluta che gli dei diventano. Con essa è dato l’oggetto con cui il destino poetico delimita se stesso.

 

Nella dissertazione sul Concetto di critica nel romanticismo tedesco Benjamin, confrontandosi con Schlegel e Novalis nel solco del loro legame filosofico con Hölderlin, esplicita il concetto di critica in flagrante contiguità con quello di riflessione.La critica non si configura come un provvisorio interludio tra il soggetto e l’oggetto dell’opera, ma come suo costante principio generatore, potenza immanente al nucleo di riflessione racchiuso nell’opera: «la conoscenza dell’arte nel medium della riflessione è il compito della critica». La critica compie un inesausto scavo nell’opera e ridesta la riflessione conducendo l’opera alla conoscenza di se stessa. Il lavoro della critica si esplica in due direzioni: in primo luogo nel campo dell’autoconoscenza dell’opera e, successivamente, in quello della sua autovalutazione.

 

Il potenziamento infinito del centro della riflessione si scontra con il carattere effimero della singola opera poetica, la quale necessita di una dimensione ‘mediale’ che la ponga in rapporto con il carattere assoluto verso cui la poesia tende: «la critica è dunque il medium in cui la limitatezza della singola opera si rapporta metodicamente all’infinità dell’arte». Se l’opera rende possibile la sua critica immanente e se questa sviluppa, assolutizza e dissolve nell’intervento della critica il suo centro di riflessione, secondo Benjamin, può arrogarsi il diritto di definire se stessa ‘opera d’arte’.

 

Un ulteriore elemento che interviene ad arricchire l’analisi del concetto di critica è la nozione d’ironia– secondo Benjamin fondamentale nella critica romantica e in modo peculiare in Schlegel – che, analogamente a quello di critica, è inscindibile dalla riflessione: «l’ironica riflessione» agisce sulla materia della singola opera annientandola e scatenando un moto di disillusione nei confronti dell’integrità formale della singola opera, sancendo in questo modo la distruzione dell’opera stessa, già precedentemente avviata dal lavoro della critica. Il paradosso dell’ironia viene in tal modo esplicitato da Benjamin:

Essa rappresenta il paradossale tentativo di costruire nel prodotto, sia pure attraverso una demolizione: di dimostrare nell’opera stessa una relazione con l’idea.

La singola opera, nel venire assimilata all’assoluto, giunge a compimento solamente a prezzo della sua stessa fine e, in questo modo, è ribadita la sua intrinseca limitatezza.

 

Benjamin, rileggendo i romantici, trattiene la loro idea del compito infinito delle opere d’arte entro il perimetro dell’indeterminazione formale, mantenendo la distanza necessaria al non completamento dell’opera. La frattura imposta dalla riflessione critica consente all’opera di auto-dilatarsi perfezionando se stessa e, al contempo, di autolimitarsi.

 

Merito di questa lettura benjaminiana dei romantici  e in particolar modo di Hölderlin è quello di aver riconosciuto alla poesia il suo carattere frammentario e la sua configurazione sempre parziale e determinata rispetto all’assoluto, la cui pienezza è avvertita contemporaneamente come incolmabilità e incompiutezza. La funzione auto-delimitativa della critica, il suo dire e ridire sempre di nuovo il contenuto dell’opera, permette all’opera stessa di auto-espandersi e di proiettarsi verso l’assoluto senza dissolvesi in esso, ma ribadendo incessantemente il suo carattere limitato e relativo, il suo instancabile movimento di disdetta e riproposizione.

 

L’opera, dunque, è potenzialmente infinita in virtù della riflessione che possiede in germe e, allo stesso tempo, è prosaicamente sobria «nel valore limite delle forme delimitate».

Heidegger e Hölderlin: linguaggio poetico ed esperienza del divino.

A questo punto è necessario rivolgersi all’interpretazione heideggeriana di Hölderlin prendendo le mosse proprio dalla concezione hölderliniana del sacro e del tragico – precedentemente analizzata da Benjamin – e affrontando la questione dell’esperienza poetica del divino, sarà possibile riflettere sul ‘passo indietro’ che, secondo Heidegger, essa permette di compiere rispetto alla metafisica soggettivistica, orientando il pensiero verso un «nuovo inizio greco» e verso l’evento (Ereignis) di un ‘altro pensiero’.

 

I commenti di Heidegger alle liriche di Hölderlin – in particolar modo quelli dedicate a Hölderlin e l’essenza della poesia, Come quando al dì di festa e Rammemorazione – mettono in luce la trasformazione dell’uomo, in questo caso rappresentato dal poeta, nell’attimo del suo «rivolgersi ascoltante» verso qualcosa di ‘più alto’. In questo orizzonte, infatti, prima di ogni specificazione onto-teologica è chiamato in causa quel ‘qualcosa’ a cui l’uomo nella sua finitezza non può non tendere. Leggendo il commento heideggeriano alla lirica Come quando al dì di festa si può notare in che modo l’accento cada inevitabilmente sulla questione della «dicibilità» stessa, da parte del poeta, della dimensione del sacro. Questo si manifesta come qualcosa di ‘sconvolgente’, tale da far vacillare la stabilità di ogni esperienza abituale: solamente i poeti, i ‘venturi’, si assumono il rischio di un confronto con il divino. Tuttavia, nel divenire parola, l’essenza del sacro vacilla: il suo essere immediato ed ‘iniziale’, che isolato in se stesso potrebbe conservarsi ‘sano e salvo’, è invece minacciato dalla mediazione del canto dei poeti, che sorge da «un’irrefrenabile necessità».

 

Questo rischio di annientamento del sacro è legato al venir meno dell’originarietà dell’inizio, dell’ ‘una volta’ (das Einstige), del prima che precede tutto e del dopo che tutto segue. Come potrà, dunque, il poeta chiamato a dire il sacro non violarne l’intimità? Hölderlin, sulla scorta dell’interpretazione heideggeriana, indica a noi e a se stesso la possibile via di salvezza. Il poeta riconosce di non essere in grado, da solo, di una tale forza ‘nominativa’, occorre qualcosa di ‘più in alto’, una sorta di spinta divina che nel colpirlo con il «raggio sacro» lo induca alla parola. Tuttavia, anche questa mediazione mette in pericolo l’integrità del sacro. Solamente il patire del dio, e il con-dividere questo ‘patire’ con la divinità, non nel modo del compatimento o del compiangimento ma, altresì, di un’intimità iniziale, consentirà al sacro di restare saldo in se stesso: «il sacro donandosi in una decisione che è un patire, patisce in modo iniziale e solamente così riuscirà a mantenersi in se stesso».  Questo patire essenziale proprio del divino, è patire iniziale che si manifesta nell’inno sacro e nel ‘dire’ del poeta: il sacro dona la parola e viene esso stesso in questa parola, la quale è il suo evento. Proprio in quanto frutto di una sacra necessità, la parola innica è «sacramente sobria» (heilignüchtern). Il restare saldo nell’inizio, il patire iniziale del dio è il compito inaugurale del dire poetico e «ciò che resta lo istituiscono i poeti».

 

Heidegger riconosce al poeta, la ‘sobrietà’del linguaggio, la capacità di nominare il sacro pur consegnandosi al suo potere: per questo motivo Heidegger valorizza fino in fondo la capacità di Hölderlin di essere «poeta del poeta» e di riuscire ad offrirci nel suo stesso dire poetico l’essenza del linguaggio poetico, rintracciabile esclusivamente nel rapporto con il divino, «la sfera più alta di quella dell’uomo». Solo in questo modo può dischiudersi quella ricerca di senso e di fondamento che ogni linguaggio semplicemente comunicativo non può soddisfare.

 

Secondo Heidegger, nel collegamento tra la parola poetica e la dimensione del sacro Hölderlin compie, sul terreno del linguaggio, lo stesso rivolgimento che segnò in Grecia il sorgere della questione dell’essere. Per questo la meditazione sull’evento della poesia hölderliniana può aiutare a preparare un ‘altro pensiero’, in grado di oltrepassare l’orizzonte dell’epoca della fine della metafisica.

 

Dunque, questo patire iniziale, può essere tradotto come un ri-volgersi al dio restando in ascolto di quella parola essenziale, la quale offre la possibilità del passaggio a un altra dimensione dell’essere. Solamente nel senso di questo patire essenziale è possibile presagire, nella sua inesauribile lontananza, la presenza del dio. In questi termini, il ‘dire poetico’, che ‘parla’ di se stesso come in un colloquio con il divino,  permette di rintracciare il mutuo rivolgimento dell’essere dell’uomo verso il  divino, accaduto ‘una volta’ in Grecia: la  ripetizione di quest’inizio ‘non ripetibile’ si configurerebbe come una rottura storica di uguale portata. Dunque, l’esperienza poetica del divino in Hölderlin, ha una valenza ontologica che paragonabile a ciò da cui ha preso avvio la nostra storia. Essa è quindi il ‘passo indietro’ rispetto alla metafisica soggettivistica.

 

Il linguaggio poetico, in Hölderlin, viene ad assumersi il rischio estremo di essere un tentativo, fatto di cautela e misura, di ascoltare la voce perturbante del divino. Questa si configura come la più rischiosa delle attività umane, ma anche come l’estrema possibilità di ripensare l’inizio greco come momento storico determinato in cui si è realizzato il primo accesso all’essere e a cui bisogna risalire per pensare l’evento come ‘altro cominciamento’.

 

È il sacro a fondare, con il suo evento, un’altro inizio di un’altra storia:

 

«il sacro decide prima, inizialmente, degli uomini e degli dèi […]. Quel che viene è detto, nella sua venuta, chiamandolo. La parola di Hölderlin è ora, a cominciare da questa poesia, la parola che chiama. La parola di Hölderlin è ora hymnos in un senso nuovo e unico. [..] La poesia di Hölderlin è ora quel chiamare iniziale che, chiamato proprio da ciò che viene, lo dice e dice esso soltanto, in quanto è il sacro».

 

A questo proposito, trovo interessante la proposta di Giampiero Moretti, avanzata nel suo recente saggio Il poeta ferito, lavoro dedicato a Hölderlin, Heidegger e la storia dell’essere, in cui afferma che l’intuizione heideggeriana circa una «svolta nella storia dell’essere», intesa nei termini di un superamento-oltrepassamento della metafisica dovuto a una rigorosa meditazione sull’essenza del linguaggio, risiede nella segreta poeticità del Dasein che ha origine proprio nell’incontro con la poesia Hölderlin. In tale poeticità, secondo Moretti, è possibile rinvenire il superamento del soggetto della metafisica: il poeta non elabora le esperienze vissute dalla sua anima, ma è sotto le tempeste del dio che lo spinge al di là della gabbia metafisica, trascinandolo al cospetto dell’essere. A partire dal 1936, anno dell’inizio della stesura dei Beiträge zur Philosophie, Heidegger ripensa la questione del primo inizio e dell’altro inizio nell’orizzonte della riflessione sull’ermeneutica del Dasein. Il tentativo di dire in modo semplice – sobrio –  la ‘verità dell’essere’ potrebbe aver luogo proprio nella riflessione sul Dasein come apertura poetica all’essere e sull’inevitabilità del nesso ontologico che si dà tra poesia ed esistenza . Dunque l’altro inizio, secondo Heidegger, è ravvisabile in Hölderlin stesso, poeta del ‘primo inizio’, della rammemorazione e della ri-petizione di quell’altro inizio che si rivela all’origine del mondo greco. Grazie all’opera hölderliniana e al nesso ontologico tra poesia ed esistenza che è in grado di invocare, Heidegger apre e dispone l’essere al suo altro inizio, ad un nuovo cominciamento della storia dell’essere. Questo oltrepassamento della metafisica è la conseguenza di un dire che comincia in modo ancor più iniziale: è il poetico presentimento dell’altro inizio.

 

La parola poetica apre a questo superamento proprio in virtù del carattere linguistico-poetico dell’Ereignis. Per questo motivo il poeta si trova inevitabilmente costretto ad incontrare il sacro, a mettersi in ascolto del divino e a colloquiare con esso. La parola che nomina gli dèi è sempre una risposta al loro appello. La poesia, dunque, ‘nomina’ a sé il sacro e il divino «in un appello nella lontananza» preparando l’evento dell’altro inizio.

 

 

 

 


Marie Rebecchi








Postato il Venerdì, 09 gennaio 2009 ore 00:05:00 CET di Salvina Torrisi
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