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News: Umanità in cerca di perché: il bello del mestiere di prof. «Per quel desiderio di verità vale la pena, ogni giorno, arrivare fin qua»

Rassegna stampa

Un insegnante di inglese, figlio di emigrati, in un liceo di provincia: «Sono contento, ma devo ricordarmelo quando leggo lo stipendio».

Il momento più bello è quando stanno col capo chino sul foglio, tesi a mettere nero su bianco quello che hanno imparato. Chissà quante generazioni di insegnanti prima di me hanno gustato la soddisfazione di questo raro momento di pace assistendo alla stessa scena.

Dal primo piano dell’edificio che ospita l’appartamento nel quale sono state ricavate le cinque classi che costituiscono la sezione staccata dell’Istituto Alberghiero nel quale insegno inglese, il mio sguardo plana sopra le teste dei miei alunni alle prese con il class work per essere, infine, fatalmente attratto dalla finestra che si apre sulla destra. La vista si infrange sul muro del caseggiato che sorge di fronte alla scuola, ma se solo ci si fa largo tra i banchi, la visuale si spalanca sulla piana che si distende sotto Chiaramonte.

I miei pensieri seguono il filo della strada che si s’insinua per l’ampia vallata verso l’Etna. Poco oltre il confine di ciò che riesco a scorgere dal mio punto di osservazione, tra le campagne che costituirono "la roba" di Mastro don Gesualdo, tra Vizzini, Mineo e Caltagirone, affondano le radici del professore che, a questi ragazzi, ha la pretesa di insegnare a lingua che fu di Shakespeare. Proprio lì, tra i vichi e i carrugi di Mineo, all’inizio degli anni Sessanta, i miei genitori, freschi di nozze, mettendo insieme null’altro che il coraggio di mio padre e la tenace determinazione della mia mamma, decisero di interrompere quel legame che da tempo immemorabile legava le loro esistenze a questa terra aspra e avara per seguire un’altra via, quella dell’emigrazione, che conduceva ad un treno per la Svizzera.

Dal sacrificio di quello strappo è nata una cosa nuova, una figura umana diversa che ha cercato i frutti del proprio lavoro, non più tra i campi di grano o gli agrumeti, bensì dentro l’umanità varia e variopinta che popola le aule di una scuola. In quella terra al di là delle Alpi, per noi figli di emigranti, il bisogno di capire si apriva come una ferita per ogni parola non afferrata, per ogni frase di cui ci sfuggiva il senso. Una ferita lenita solo da qualche volto amico che veniva in nostro soccorso.

La certezza della presenza di un significato della realtà anche quando esso si cela ostinatamente me la ritrovo appiccicata addosso nella forma di una tenacia nel rapporto educativo con i miei alunni. Aveva descritto bene questa dinamica Pier Paolo Pasolini quando affermava che ciascuno comunica solo quello che è. In quelle parole si rivela la dimensione più propria dell’insegnante, quella dell’educatore, di uno, cioè, che attraverso il particolare della materia che insegna introduce al senso totale della realtà.

«La vita è come l’inglese - amo ripetere alle mie prime classi - all’inizio tutto sembra estraneo e indecifrabile, ma poi, a poco a poco, le cose cominciano a chiarirsi e infine le cogli nel loro significato. Se hai pazienza, se sei disposto a fare la fatica, se ti fidi di me, tutto si chiarisce, non preoccuparti, siamo insieme». La conoscenza si comunica, infatti, dentro un rapporto, per le informazioni basta il televideo.

La comunicazione dei contenuti, dal Liceo agli Istituti professionali, passa sempre attraverso un fascino. Soltanto lo stupore generato da questo fatto produce, a ben guardare, una conoscenza reale che non si cancella il giorno seguente l’interrogazione. Mi rivedo al posto dei miei alunni ad ascoltare la lezione su Nietzsche o a seguire il peregrinare del pastore errante di Leopardi. Niente luoghi comuni sul "pessimismo leopardiano", bensì la comunicazione, da parte del nostro insegnante, del suo rapporto vivo con gli interrogativi incalzanti dell’autore che, infine, palpitavano di nuovo nel nostro cuore di ragazzi. Già, «a che tante facelle, … ed io che sono»? Nella vibrazione suscitata da quella domanda il nostro io abbracciava il cosmo intero.

E’ proprio questa sfida, quella cioè di aiutare i ragazzi a scorgere il legame che c’è tra il particolare che studiano e il significato del tutto che trova, oggi, spaesati noi insegnanti. L’alternativa, però, è l’analisi del particolare come frammento senza contesto e senza cornice. La traduzione in ambito didattico di questa posizione è l’insegnamento concepito come tecnica, come offerta di competenze a chi ha voglia di apprenderle. E’ il presupposto di una estraneità tra docenti ed alunni che stanca gli uni e deprime gli altri. Se non vi è un significato da scoprire, d’altronde, perché impegnarsi?

Per fortuna non era di quest’avviso il mio prof di italiano al Liceo Scientifico di Caltagirone. Non c’era nulla che non potesse trovare una sponda di paragone dentro quel rapporto. Era evidente che con noi dava tutto di sé e in cambio, poco alla volta, noi gli abbiamo aperto il nostro cuore. Certo pedagogismo ritiene che questo aspetto del rapporto educativo attenga alla figura dello psicologo; io, di uno che mi sta ad ascoltare perché pagato per farlo non mi sarei mai fidato.

La novità nei rapporti come nella conoscenza nasce sempre da un avvenimento, da un imprevisto. Una certezza che nasce dalla coscienza di tanti fallimenti. Quante lezioni affrontate con la presunzione di suscitare nell’uditorio la stessa attenzione registrata con la medesima spiegazione l’anno precedente ed invece, nulla, meritata indifferenza e generale distrazione. Quante rabbiose sconfitte ingoiate dentro la stessa ora di lezione che hanno la forma insopportabile del chiacchiericcio di chi davanti alle tue parole prova solo noia. Quante richieste di aiuto scritte in faccia a tanti alunni delle quali non ci siamo accorti perché intenti a riempire le caselle di un registro. O, ancora, al contrario quante volte rimaniamo sulla soglia dell’umanità di alunni ai quali faremmo dono gratuito di tutta l’amicizia di cui siamo capaci ben oltre l’orario scolastico, perché essi, con tanto garbo, non ci permettono di varcare il limite della loro libertà.

Sono contento di averlo scelto io questo lavoro. Ho bisogno di ricordarmelo quando paragono la cifra scritta in fondo alla "striscetta" dello stipendio con i numeri del mio anno trascorso in banca con annessi di tredicesima, quattordicesima, premio rendimento e premio produzione. Me ne ricordo, però, anche quando faccio fatica ad entrare in classe e scorgo la stessa difficoltà negli occhi dei miei colleghi.

La sezione staccata della mia scuola è priva di molte cose necessarie, ma la dignità del luogo in cui lavoriamo non sta nelle strutture, pur necessarie o nell’aggiornamento a cui provvedo a mie spese in Inghilterra o in Irlanda, magari condividendo l’accomodation con il collega svizzero al quale lo stato paga soggiorno e libri acquistati, la dignità la conferiscono quanti ancora si appassionano a questi ragazzi guidandoli, magari tra pentole e fornelli, a realizzare pietanze dal sapore strabiliante che rendono più evidente quale gusto possa avere la compagnia che siamo chiamati a farci.

Si tratta di quel gusto che ti fa appassionare da capo, anno dopo anno, a volti nuovi, a nomi sempre diversi, a volte impronunziabili, che vuoi mandare a memoria dal primo giorno per dire a ciascuno di quei ragazzi: "Tu fai parte di me". Una testa si solleva dal foglio e mi strappa dal corso dei miei pensieri: "Scusi professore, mi spiega perché…"? Per quella domanda, per quel desiderio di verità rivolto a me, vale la pena, ogni giorno, di fare la strada fin qua. Nel miracolo di una umanità che si domanda il perché delle cose c’è tutta la bellezza e l’impagabile grandezza di questo mestiere.

Quella finestra di una scuola ai margini di questo Paese alle prese con una crisi economica sempre più incombente è un po’ come la ragione, un po’ come la speranza. Entrambe possono arrestarsi al muro che sta di fronte oppure aprirsi all’infinito. «Anche da una finestretta si può vedere il mondo» scriveva il papà di Giacomo Leopardi. Guardo i miei alunni ancora chini sui fogli e sorrido, anche il genio ha bisogno di un umile maestro.

MARIO TAMBURINO (da www.lasicilia.it)









Postato il Mercoledì, 31 dicembre 2008 ore 09:38:18 CET di Renato Bonaccorso
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