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Voce alla Scuola: QUEL PASTICCIACCIO BRUTTO DELLA SCUOLA MEDIA UNICA

Opinioni
La riforma della scuola media agli inizi degli anni Sessanta rappresentò un caso paradigmatico di come le buone intenzioni spesso producono cattive realizzazioni. Per tutto il tempo precedente, il triennio che si interpone tra le scuole elementari e gli studi superiori era nettamente diviso in due binari: vi era una scuola media a carattere più “letterario” e una scuola di avviamento professionale, che a seconda delle zone del Paese acquisiva un indirizzo industriale o agricolo. Coloro che frequentavano il cosiddetto “avviamento” erano orientati a un rapido inserimento nel mondo del lavoro: agli sbocchi dell’industria, dell’artigianato, dell’agricoltura.

Per gli altri invece la prospettiva era il proseguimento negli studi superiori. All’inizio degli anni Sessanta, in un periodo storico che coincideva con l’avvento del centro-sinistra (ma anche con l’esaurirsi della esperienza di governo centrista, che aveva donato con le sue felici scelte il miracolo economico all’Italia) si decise che tale diversificazione era una disuguaglianza e che a sua volta tale disuguaglianza rappresentava una patente ingiustizia. Nasceva così la scuola media unificata: un indirizzo unico con una molteplicità di materie che riproduceva in piccolo la struttura delle scuole superiori. Una più equilibrata saggezza pedagogica avrebbe dovuto suggerire l’idea che il doppio canale era da tutelare e che semmai bisognava arricchire di valenze culturali l’avviamento professionale. Sin dal principio la scuola media rappresentò l’anello più debole della catena educativa italiana. Prima del Sessantotto le scuole superiori erano più che dignitose e feconde di risultati, ancora in anni più recenti a noi le scuole elementari italiane hanno confermato ottimi standard di qualità.

La scuola media invece rappresentava il battistrada delle involuzioni che nei tempi successivi avrebbero logorato il sistema scolastico. L’egualitarismo di partenza cancellava la consapevolezza che nelle nuove generazioni esistono talenti diversi: se è vero che alcuni sono più portati per lo studio, è altrettanto vero che altri sono più portati per le attività pratiche. Affermò un giorno Aristotele che “non c’è ingiustizia più grande del rendere uguali cose che sono diseguali”.  Il mescolare indistintamente tipi così diversi non produceva la tanto agognata “uguaglianza sociale”, ma solo uno scadimento delle qualità. Il moltiplicarsi delle materie portò ad un aumento esponenziale dei docenti e anche qui a una diminuzione della qualità, dei criteri di selezione. Il permissivismo pedagogico fece poi il resto: a un certo punto la cosiddetta pedagogia comprendente, la tendenza ad assecondare lo spontaneismo (ed anche le cattive maniere) fece venir meno in molti classi quel clima di serenità e diciamo pure di disciplina che sono assolutamente indispensabili per il progresso negli studi. Molti, malpagati, demotivati: i docenti delle scuole medie divennero i classici esponenti di quella categoria che dall’immaginario collettivo veniva descritta, spesso non a torto, con il giornale in mano, la sigaretta in bocca, lo sguardo all’orologio per controllare la fine dell’ora.

E dire che proprio nella scuola media sarebbe stato necessario un accurato controllo del livello di selezione dei docenti e della qualità delle lezioni. L’età di riferimento della scuola secondaria di primo grado è infatti l’età più difficile: quella dei cambiamenti ormonali e psicologici della preadolescenza. I ragazzi non sono più bambini, ma sono ben lungi dall’essere maturi. La scoperta della sessualità, i contrasti spesso aggressivi in famiglia, la tendenza a ridefinire la propria identità all’interno di gruppi spesso ermeticamente chiusi all’esterno rappresentano sfide difficili da affrontare. Invece di trasformare il lavoro docente in una sorta di “lavoro socialmente utile” e in una occupazione di massa i governi avrebbero dovuto curare la qualità della classe docente e nel contempo la codificazione di un curriculum di studi più semplice, ma nello stesso tempo rigoroso, incisivo. La cosiddetta “ignoranza” degli studenti italiani spesso trae origine da scuole medie trasformate in porti di mare. Oggi il ministero cerco di porre riparo ad una deriva pluridecennale introducendo (giustamente) prove d’esame indicate dall’alto.

In realtà non sarebbe male che verifiche ufficiali si ripetessero anche nel corso dell’anno. E non sarebbe male che si verificasse attentamente anche il livello di preparazione dei docenti. Un ripensamento del tempo pieno, ovvero delle ore pomeridiane, è una altra esigenza fondamentale. Ai genitori fa comodo lasciare i ragazzi qualche ora in più a scuola. I docenti sono contenti di avere più ore a disposizione per completare il quadro orario e garantire maggiore occupazione. Ma il tempo prolungato deve anche acquisire una impostazione didattica più rigorosa di quanto non abbia in molte scuole. Spesso si moltiplicano “laboratori” e insegnamenti su argomenti marginali, invece il tempo prolungato dovrebbe mirare soprattutto a un consolidamento delle conoscenze e delle competenze “fondamentali”.

Perché dopo tante divagazioni didattiche (o per meglio dire: antididattiche) noi oggi siamo giunti ad una amara conclusione. I nostri studenti mancano delle conoscenze/competenze fondamentali. Di quelle conoscenze che attengono il parlare correttamente in italiano, il saper far di conto, l’essere consapevoli della nostra storia. Queste carenze non da poco corrispondono molto spesso ai fallimenti del livello “intermedio” della scuola secondaria di primo grado.
da liberal








Postato il Mercoledì, 24 dicembre 2008 ore 16:53:51 CET di Filippo Laganà
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