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Cultura e spettacolo: Magritte, «La ricerca della verità»

Redazione
Può certo sbarbarsi da solo, ma allora (in quanto barbiere) sta facendo la bar­ba a chi si rade da sé, dunque se­condo la sua insegna non può farlo.
D’altra parte, se il barbiere non rade se stesso allora, sempre secondo la propria insegna, egli a rigor di logica rade se stesso. Questa antinomia occupò le menti di alcuni grandi matematici, e fu utile a Gödel quan­do definì il «teorema dell’incomple­tezza sintattica», dove si prende atto che nella matematica vi sarà sem­pre qualcosa di non dimostrabile. Il matematico, insomma, per essere tale deve anche accettare l’incom­pletezza. E l’arte? Magritte è il pitto­re che forse si è spinto più avanti su questa strada facendo dell’incom­pletezza e del paradosso la via stessa del 'vedere'. La sua celebre pipa di­pinta in realtà è una pipa e non lo è.
Lo è sotto il profilo semantico (quel­l’immagine significa la pipa), ma non lo è sotto il profilo sintattico (quell’immagine non sarà mai una pipa da fumare). Quell’antinomia è però reale soltanto se si pretende di collegare la frasetta alla funzione di ciò che viene rappresentato. Se, dunque, si pretende che l’immagine perda la propria natura di simulacro e diventi un assoluto concreto, l’i­dea realizzata (su questo, in effetti, si fonda la filosofia dell’icona, cui la teologia offre poi lo sfondo mistico nel quale naturale e soprannaturale si comunicano nell’immagine). Nel- la mostra che Palazzo Reale dedica ora al pittore belga, i dipinti sono ritmati sulle pareti da frasi dell’arti­sta che confermano questo sfondo 'surreale'. «Qualunque sia il suo ca­rattere manifesto, ogni cosa mantie­ne il suo mistero»; «Il rapporto tra il titolo e il quadro è poetico, vale a di­re che questo rapporto conserva, degli oggetti, solo le caratteristiche abitualmente ignorate dalla co­scienza ma talvolta presentite in oc­casione di avvenimenti straordinari che la ragione non è ancora riuscita a chiarire»; «Le parole che il sangue ci detta sembrano talvolta estranee.
Qui, sembra che ci voglia intimare di dischiudere magiche nicchie ne­gli alberi». Mentre visitavo la mo­stra, un signore, con voce stentorea e sovreccitata, esclamava a ritmo in­calzante: «Ecco, qui c’è De Chirico, qui Sironi... e qui? qui che cosa c’è?
Ah, sì, Max Ernst. Vedi (dice al com­pagno) molti guardano, passano di gran fretta, magari vengono per ac­cattarsi il catalogo (era il giorno del­l’inaugurazione), ma non capiscono niente dell’arte». Mi sono detto: con Magritte si può giocare a scoprire chi è stato vittima dei suoi furti d’ar­te, oppure tentare di immedesimar­si col dispositivo paradossale che sta all’origine del suo modo di pen­sare l’immagine. La seconda ipotesi mi pare l’unica produttiva (l’altra è, invece, il classico vizio 'professiona­le' della critica dalle idee vuote).
In Magritte non esiste un problema di qualità pittorica. Ogni quadro, in un certo senso, vale l’altro: quello meglio dipinto non è meno esem­plare della tela visibilmente più sciatta: nella mostra milanese, ad e­sempio, quello che mi è sembrato più intrigante è un quadretto di po­ca qualità pittorica che raffigura una rosa chiusa fra tre parole che, insie­me, formano la frase «Una rosa nel­l’universo » (il titolo dell’opera è «La voce dell’assoluto»). È intrigante perché è tra i meno 'connotativi' ri­spetto al sistema di rappresentazio­ne paradossale di Magritte, sfioran­do quasi la decorazione pura (l’ 'in­segna', ecco). E segue il filone allu­sivo dove le parole dipinte, pur rie­cheggiando una tipologia del passa­to che ha avuto funzioni illustrative ovvero spirituali e mistiche (padre Giovanni Pozzi vi dedicò alcuni sag­gi poi raccolti in libro), svelano la funzione 'autoreferenziale' del quadro. La pittura parla di se stessa e della propria capacità illusionisti­ca usando la parola come segno che ha funzione iconica e verbale al tempo stesso. Non è, questa tipolo­gia, quella più ricorrente nell’opera di Magritte, ma la sua 'eccezione' spiega appunto la regola. I dipinti di Magritte sono teoremi 'iconologici' dove la componente pittorica è quasi accidentale. Non è certamen­te un pittore grandissimo, ma fu ca­pace di elaborare una iconografia ricca di secondi sensi, dunque una iconologia, per quanto il rappresen­tato non sia mai né il tema figurati­vo, né un contenuto preciso. L’im­magine, per Magritte, ha sempre più dimensioni; un al di là (un oltre) e un al di qua (un prima); è un pia­no inclinato, ma non ha niente a che fare con la grammatica prospet­tica; unisce sincronia e diatopia (luoghi diversi entrano nel medesi­mo tempo pittorico: ma le diverse dimensioni spaziali non si concilia­no nell’istante eterno del quadro).
Ciò che raffigura è il paradosso in quanto tale. Se i greci formularono antinomie come quella del mentito­re cretese, che diedero lo spunto a Russell per escogitarne di nuove, potremmo anche dire che Magritte non sente il bisogno di spiegare i suoi paradossi, gli basta 'formular­li', cioè dipingerli, con quei colori da tappezzeria che non denoteran­no mai, nemmeno nei quadri più riusciti, un genio pittorico, ma sol­tanto una psiche che riesce a porta­re in immagine gli oggetti che l’in­conscio libera nel sonno. Si potreb­be altresì dire che in Magritte la 'surrealtà' resta sempre al di qua della - per usare un termine caro al discorso estetico di Maritain - 'sur­naturalité'. Magritte è come un gio­coliere che volteggiando nell’aria i birilli non li eleva mai sopra la pro­pria testa, perché se questo acca­desse correrebbe il rischio, alzando gli occhi al cielo, di perdere la sin­cronia col proprio inconscio e gli oggetti onirici fuggirebbero dal re­cinto dove la mente li tiene segrega­ti. Per Magritte tutto si riassume nel­l’enigma, il mistero sarà sempre e invariabilmente psichico: «È un atto di magia nera trasformare la carne della donna in cielo». Questa frase cela il timore metafisico che tutti i surrealisti hanno provato di fronte all’essenza primigenia del femmini­no, facendo della donna, del suo corpo, un idolo e, al tempo stesso, un oggetto sacrificale. Di fronte ai quadri di Magritte si viene attratti da un’energia accattivante, e biso­gna sforzarsi di non battere le pal­pebre perché in un microsecondo si rischia di essere trasformati in auto­mi servili di un paesaggio lunare, come i celebri omini con bombetta che si ripetono identici e si moltipli­cano mentre sul mondo illuminato da luci per niente solari regna, avida e insaziabile, Circe-Natura.
Milano, Palazzo Reale
MAGRITTE
Il mistero della natura
Fino al 29 marzo 2009





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Postato il Mercoledì, 26 novembre 2008 ore 07:10:00 CET di Maria Allo
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