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Costume e società: ROBERTO SAVIANO «Le mafie hanno paura della parola perché insegna a essere critici»

Redazione

Napoli non è mai stata così al centro dell’attenzione popolare e populistica, come dopo la pubblicazione di Gomorra di Roberto Saviano.
Nell’era di superficie delle “telenovelle” ridondanti alla Porta a porta, ci prendiamo la briga di dire che, nonostante i distinguo e i chiaroscuri epocali, pagine altrettanto putride e insanguinate di quelle di Gomorra si ritrovano in una genesi antologica come Le origini della camorra (edito da un onorevole difensore della cultura napoletana, Tullio Pironti Editore).Testi di vecchia data, ma niente affatto datati, anzi, anche perché al di là dell’etimologia castigliana, pisana o locale (che sia « gamurri », la giacca corta dei pisani, o « morra » che sta per rissa) del termine «camorra», il dato di partenza fin da questa saggistica ottocentesca, come scrive il curatore Alfonso Paolella, è quello di un «fenomeno endemico nella società napoletana». Un altro dato inconfutabile è che dalla dominazione spagnola ai giorni nostri la camorra, con tutto il suo carico di immondizia e crudeltà, ha tracimato dai quartieri storici alle periferie allargate della città. Nel Casertano o a Secondigliano, dove i bambini non girano più con il coltello ma con le pistole in tasca, quel monstrum è prima di tutto un cattivo supplente di un cattivo Stato del quale è andato a riempire le enormi discariche. Un vuoto sociale che il sistema camorristico continua, più o meno indisturbato, a colmare: ieri con il frieno («la prammatica regolatrice di tutto l’andamento dell’onorata»), il gioco d’azzardo e la prostituzione; oggi con lo spaccio di droga e gli appalti truccati. «Voi non lo conoscevate, onorevole Depretis, il ventre di Napoli.
Avevate torto, perché voi siete il Governo e il Governo deve saper tutto» scriveva Matilde Serao nel suo celeberrimo Il ventre di Napoli, nel 1884.

Siamo oltre sessant’anni dopo quel Pasquale Capuozzo che nel 1820, per primo, ha fissato le regole dell’«onorata società». L’omonimo di donna Matilde, Ernesto Serao, denuncia che nel 1860, sotto il regime borbonico di Francesco II, il ministro degli Interni Liborio Romano «continuò a riciclare ex camorristi trasformandoli in poliziotti» a tutela della «massoneria del crimine». Nell’illegalità dilagante, l’unica forma «legale e regolarizzata» in questa metropoli in continua crescita (nel 1830 conta già 360mila abitanti) diviene l’affiliazione camorristica. Un’affiliazione molto simile a quella delle logge massoniche, con un rituale che culminava con un blasfemo giuramento davanti a Dio. Comandamenti di un codice d’onore da imparare in fretta e che, ieri come oggi, garantiscono un impiego sicuro, senza lavorare, ma cavandosela con il delinquere, non rispettando le leggi dello Stato, ma solo quelle imposte dalla camorra.
Un edificio dalle fondamenta solide che Giustino Fortunato( in La camorra, 1879) già ripartiva in bassa e alta camorra: «Spadroneggia la bassa camorra con le sue prepotenze su’ mercato, con il lotto clandestino e la rivendita delle merci rubate… Diversa l’alta camorra che trae alimento per opera della borghesia, nei commerci e negli appalti nelle adunanze politiche, nei circoli e nella stampa». Ma a una stampa corrotta e a un mondo intellettuale a volte compiacente, più spesso timoroso, hanno risposto le primordiali indagini sociologiche di Carlo Del Balzo e Francesco Mastriani (con I lazzari) e la poetica teatrale di Salvatore Di Giacomo. Una «mala-vita» ancora molto localistica come quella descritta dall’“infiltrato” speciale Ferdinando Russo, che raccoglie le confessioni di uno pseudopentito per Il Mattino e mette sotto la lampada i retroscena del famigerato maxiprocesso Cuocolo (i coniugi di Torre del Greco uccisi nel 1906) che con i suoi 47 imputati (354 anni di condanna complessiva) segna il punto di passaggio e forse di non ritorno verso quella che sarebbe diventata la potente organizzazione della nuova camorra. Anche se di nuovo, a risfogliare le acute osservazioni del massimo
Umeridionalista Pasquale Villari, si trova ben poco. «La gente di Napoli – scrive Villari nelle Lettere meridionali, 1875 – si trova nel più grande abbandono, nel maggiore avvilimento. Perciò importa conoscere dove questa oppressione comincia e si può esercitare più impunemente, perché ivi è la radice del male». Ma anche trovata questa radice gramigna, la maggior parte di chi vive e opera nel ventre di questa balena spiaggiata sotto un vulcano spento, quasi quanto la speranza, avverte un perenne senso di impotenza. «I camorristi hanno mani e polsi e perciò si possono ammanettare: hanno corpo e figura e perciò si possono imprigionare e deportare, ma la camorra non si ammanetta, non si carcera, non si deporta». Non è il pensiero del magistrato Raffaele Cantone (altra vita blindata alla Saviano) nel suo Solo per giustizia
L(Mondadori), ma dell’unico non napoletano di questo illuminante dossier pre-gomorra, il toscano Renato Fucini.
La speranza però non deve morire, il sorriso sulle facce di quella bella gioventù di Sanità, di nome e di fatto, non si deve spegnere. E la speranza nel futuro invita a credere in una società davvero civile, ripulita dalla camorra, mentre l’utopia fa prevalere ancora quello spettro che per Fucini «fa paura alla plebaglia, ma la rispetta perché si sente difesa». Due facciate di uno stesso palazzo sgarrupato che guarda quel mare che bagna ancora Napoli, una città rimasta quella che Pasolini nelle Lettere luterane spiega al suo Gennariello: «l’ultima metropoli plebea». E quaggiù forse, nonostante le angherie subite, si può ancora sentire quel sole caldo che è l’anima vitale della gente che «non è tetra nella fede, non è cupa nel vizio, non è collerica nella sventura», come voleva donna Matilde Serao.

"Quello che teme è il potere del lettore. Il lettore è la cosa più pericolosa che esiste. Per diverse ragioni; innanzitutto perché il lettore, oltre a conoscere, contamina, approfondisce, pretende che i media lo informino, cerca di capire, diffida dei politici che non ne parlano».
Citando Varlam Šalamov, uno scrittore perseguitato dal regime comunista sovietico, Saviano ha quindi aggiunto: «'Ogni scrittura è sempre una scrittura contro il potere', perché solo per il fatto di raccontare come vanno le cose in qualche modo stai criticando chi quelle cose le fa andare. Il potere, e in questo caso il potere criminale contro cui mi sono scontrato, di tutto ha voglia tranne che di essere letto ed essere raccontato in un certo modo». La parola, secondo lo scrittore costretto a vivere sotto scorta, mette davvero in crisi il potere perché «dà cittadinanza universale a quello che ti sembra una realtà particolare»: lo scrittore si è riferito al caso di Anna Politkovskaja, la giornalista uccisa per aver scritto sulla Cecenia facendo diventare quel problema un tema universale, noto a tutti. «Albert Camus sosteneva che lo scrittore deve essere la sentinella dei diritti dell’uomo – ha aggiunto – e soprattutto presidiare la dignità umana, dovunque sia violata. La parola è fra i maggiori antidoti per capire e reagire». L’autore di Gomorra ha chiuso il suo messaggio citando ancora Camus:«A chi gli chiedeva : 'Lei racconta sempre di contraddizioni, di stragi, di tragedie, com’è possibile che uno scrittore secondo l’impegno che s’è dato faccia queste cose?', lui infastidito rispondeva in un modo che mi piace pensare prima di mettermi a scrivere: 'Sono uno scrittore, sono interessato all’inferno e alla bellezza, e per quanto possibile vorrei rimanere fedele a entrambi'».












Postato il Lunedì, 10 novembre 2008 ore 17:32:07 CET di Maria Allo
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