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Umanistiche: INSEGNARE A LEGGERE E A SCRIVERE NELL'EPOCA DEL COMPUTER

Rassegna stampa

La scuola delle tre ‘L’

di Raul Mordenti*

 

“Da più di cent’anni si è sparsa una grande quantità di lamenti sul disordine delle scuole e del metodo, e soprattutto poi negli ultimi trent’anni si è pensato ansiosamente ai rimedi. Ma con quale profitto?”: nel Seicento si poneva questa domanda Giovanni Amos Komenskj (Comenio). E oggi? Tra vecchi e nuovi interrogativi, Raul Mordenti accetta la sfida di provare a riflettere sul senso dell’insegnamento delle humanae litterae nella scuola di oggi.

 

I Giusti che reggono sulle loro spalle la scuola (e il mondo)

Racconta André Schwarz-Bart (L’ultimo dei Giusti, Feltrinelli, 1960) che secondo un’antica leggenda ebraica il mondo intero si regge sulle spalle di alcuni giusti (trentasei è il loro numero, forse eccessivo): se uno solo ne mancasse “la sofferenza avvelenerebbe perfino l’anima dei neonati, e l’umanità soffocherebbe in un grido”; fra costoro, quelli che ispirano più pietà sono i giusti ignoti, anzi quelli che sono ignoti anche a se stessi, e tuttavia (o proprio per questo?) svolgono fedelmente la loro funzione di salvezza collettiva.

Se la società italiana si regge, come ogni società umana, sulla scuola, a sua volta la scuola italiana si regge su un numero imprecisato (ma superiore perfino al numero di trentasei) di insegnanti giusti e giuste ignoti perfino a se stessi. Se le cose stessero così suonerebbe sensato, e anzi forse addirittura provvidenziale, anche il trattamento che i Governi che si sono succeduti e i mass media riservano alle nostre scuole (e agli insegnanti in particolare), giacché l’immiserimento, l’impedimento a lavorare e la colpevolizzazione, insomma la persecuzione (accompagnata, come sempre accade, dalla derisione e dall’oltraggio) serve forse ad affinare la virtù degli/delle insegnanti e dunque a perfezionarne la funzione salvifica.

Ci fu un tempo della centralità della didattica

La storia degli sforzi compiuti dagli ignoti giusti insegnanti per la salvezza delle nostre scuole, e della nostra società, non è stata ancora scritta. Diciamo solo che ci fu un’età dell’oro in cui non solo la scuola, ma anche la didattica apparve a molti di noi centrale. Già la pronuncia della parola “didattica” violava un interdetto consolidato nella nostra cultura, cioè la negazione in radice del problema didattico; tale negazione derivava da un sofisma crociano (espresso una volta per tutte nell’Estetica) secondo cui, poiché intuizione ed espressione coincidono, allora se una cosa la si conosce davvero si è necessariamente capaci anche di esprimerla, dunque di insegnarla (e il fatto che un simile concetto ci fosse insegnato da professori crociani afoni e balbuzienti in modo del tutto incomprensibile rappresenta una raffinata ironia della ragione).

Non per caso la didattica della letteratura si mosse in Italia a partire dalla semiologia e dalla filologia, cioè – si potrebbe notare - dalle uniche zone non invase dal crocianesimo; da lì proveniva il magistero di studiosi come Lore Terracini, Maria Corti e Cesare Segre, i fondatori della semiologia italiana, tutti filologi, tutti attenti ai problemi della didattica e tutti generosamente disponibili ad un rapporto con gli insegnanti della scuola (grazie alla mediazione delle associazioni, come il CIDI o come il CRS dell’indimenticabile Franca Mariani Ciampicacigli).

Si trattava di riscattare l’insegnamento della letteratura dai compiti decisamente extra-letterari che surrettiziamente gli erano stati accollati ad opera dell’impostazione filosofica (e politica) dell’idealismo. All’insegnamento della letteratura quell’assetto finiva col chiedere un po’ di tutto: da un repertorio (ordinato e chiuso) delle glorie nazionali e degli “spiriti magni” alla rico­stru­zione-ri­pro­posizione dell’ethos della nazione italiana, fino (perché no?) all’educazione senti­men­tale della italiana gioventù. Dunque tutto - viene da dire - meno che …la letteratura, che quella proposta di riforma semiotica della didattica rimise invece meritoriamente al centro.

3. Rivoluzione informatica, nuove occupazioni e competenze letterarie

Non è questa la sede per cercare di descrivere le forme di inabissamento (si spera soltanto carsico) di quegli sforzi, ad un tempo didattici e critico-teorici, che segnarono gli anni Settanta-Ottanta della scuola italiana. Su di essi sia sufficiente resoconto la frase antica di Comenio che abbiamo messo in esergo di quest’articolo. Quello che si vorrebbe qui argomentare è piuttosto la necessità di un’ analoga ripresa (mutatis mutandis) del problema della didattica della letteratura di fronte alla rivoluzione informatica.

Non sembri questa un’affermazione esagerata o paradossale: il fatto è che la letteratura, proprio (si noti) a partire dalla sua riconquistata parzialità, dal suo rivendicato specialismo, si trova oggi ad essere direttamente implicata, e niente affatto esclusa, dalla rivoluzione informatica e dai suoi nuovi mestieri. Si potrebbe dire, un po’ schematicamente, che mentre è possibile all’Università insegnare quanto serve e quanto basta ad usare creativamente le macchine informatiche a chi conosce i testi, la loro storia, la loro problematica teoria, non è invece possibile fare in contrario, cioè insegnare in pochi anni a un diplomato di un corso di informatica la filologia e la critica letteraria.

Quanto verifichiamo, negli ultimi anni, a proposito delle concrete richieste del mercato del lavoro intellettuale che riguardano i nostri laureati sembra confermare queste affermazioni. In effetti la “merce” intellettuale che scarseggia sul mercato (usiamo anche noi, a vantaggio della chiarezza, un linguaggio che, in verità, ci ripugna un po’) è una competenza linguistico-letteraria di alto livello, il padroneggiamento pieno e vero dei linguaggi e delle lingue, ma più ancora dei diversi codici; quello che manca, e che ci viene richiesto è, insomma, una nuova retorica della multimedialità, come competenza-base non solo di giornalisti, di pubblicitari, di “comunicatori” d’impresa, ma anche dei “crea­tivi”, dei gestori delle pagine web, e soprattutto della grande schiera degli specialisti di “contenuti”, insomma di coloro che sono chiamati a rispondere alla domanda epocale: “Ora che abbiamo la rete, che cosa diavolo ci mettiamo dentro?”.

E non vorrei dimenticare in questo elenco di mestieri necessarissimi l’insegnamento, per quanto sia insistente ed unanime la campagna di stampa contro gli insegnanti e anzi contro la scuola in quanto tale: non c’è società complessa che possa vivere e svilupparsi senza scuola, e tale importanza cresce e diventa (ne siano o no coscienti coloro che ci governano) addirittura strategica per lo sviluppo del paese; in altre parole sembra che la cultura (e dunque la sua trasmissione massiva e organizzata, cioè la scuola) rivestirà un ruolo cruciale per stabilire la ricchezza delle nazioni e la loro gerarchia, e si avvia insomma a diventare ciò che in altri tempi fu il possesso del carbone e più tardi quello del petrolio.

Una formazione necessaria e, al tempo stesso, controcorrente

Per paradosso la formazione neo-umanistica di cui parliamo, il nuovo leggere e scrivere dei tempi dell’informatica, è oggi, al tempo stesso, una cosa assolutamente necessaria e assolutamente controcorrente. Si scontra addirittura (dobbiamo esserne co­scienti) con il sistema percettivo in cui i nostri ragazzi sono immersi e che ca­rat­terizza il loro tempo; tale sistema percettivo (simboleggiato dal gesto dello zap­ping) è fatto di superfici virtuali in continuo movimento, di estrema velocità e di fret­ta, di “flessibilità” adattativa e passivizzante; esso costruisce intorno ai nostri ragazzi un “eterno presente” del tutto privo di profondità e di problematicità, che non a caso (sul piano linguistico) ignora e distrugge i modi verbali della possibilità e del problema (il condizionale e il congiuntivo) ed ha orrore del passato remoto, il tempo verbale del passato profondo e concluso.

Dunque, si tratta davvero per la scuola e i suoi insegnanti di “nuotare controcorrente”. Ma dove è scritto che un tale gesto, nuotare controcorrente, non possa essere utile, necessario, e perfino piacevole? Perché mai non possiamo (dobbiamo) concepire una società complessa come un insieme articolato in cui alcune grandi agenzie formative pubbliche (e la più grande di tutte è la scuola) hanno il compito di correggere distorsioni e limiti, socialmente insopportabili, indotti dalla spontaneità del mercato? Potrebbe darsi, perfino, che difendere e diffondere fra i nostri allievi l’uso del condizionale o del passato remoto (cioè la padronanza di una razionalità più ricca e articolata) possa essere vissuto come un terreno avanzato e decisivo di impegno civile.

Chiamerei questa la scuola delle “tre L”, cioè letteratura, lingue, libertà. Intendendo: per “letteratura” la fruizione consapevole del patrimonio storico-letterario dell’umanità (non solo della nazione italiana) e anche il padroneggiamento dei densi codici retorici che organizzano tale patrimonio; per “lingue” (al plurale non solo l’inglese!), un accesso diretto ai testi del mondo, un’uscita dagli asfittici confini del provincialismo italiano; e per “libertà”, la libertà di insegnamento e di apprendimento, cioè il pluralismo e l’autogestione dei processi formativi che solo la scuola pubblica e repubblicana, garantita dalla Costituzione, può garantire a tutte e tutti.

La rivendicazione studentesca del 2006 “Vogliamo studiare con lentezza!”, che può essere apparsa a qualcuno un ben strana rivendicazione, è invece parte essenziale di una tale scuola nuova, la precondizione necessaria perché si possa dare rielaborazione e giudizio critico di ciò che si studia.

 

*Docente di Critica letteraria all’Università di Roma “Tor Vergata” dove presiede il Corso di laurea magistrale in “Informazione e sistemi editoriali”.

 

 

 

 

 

 

 

 

 









Postato il Mercoledì, 22 ottobre 2008 ore 09:20:00 CEST di Salvina Torrisi
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