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Umanistiche: RISO AMARO:GLI SCRITTORI DELL'EMIGRAZIONE ITALIANA

Rassegna stampa

Riso amaro: gli scrittori dell'emigrazione italiana

 di Martino Marazzi*

 

La Grande Emigrazione verso le Americhe, a cavallo tra Otto e Novecento, e quella quasi altrettanto affollata del secondo dopoguerra – che alle vecchie destinazioni aggiunse i paesi dell’Europa centrosettentrionale, il Canada e l’Australia – furono sin da subito accompagnate da una fitta produzione di scritture, spesso deliberatamente letterarie, in lingua italiana.

 

La letteratura, e più in generale la civiltà letteraria, dell’emigrazione italiana (già di per sé stesso un fenomeno assai articolato e complesso) si colloca su un piano diverso rispetto alla copiosa tradizione della letteratura di viaggio, e si intreccia perlopiù in maniera esteriore con le pur intense e assai significative esperienze dei tanti esilî che punteggiarono la storia degli intellettuali italiani. È, inoltre, una letteratura che ha dovuto convivere – con ancora maggiore naturalezza e necessità di quanto non sia mai accaduto nella penisola – con la o le altre lingue con le quali i singoli e le comunità si sono trovati a dover interagire. Il suo pluri- e multilinguismo (non necessariamente di sapore sperimentale) è una caratteristica linguistico-grammaticale, ma ancora più ampiamente culturale, di cui occorre tener conto per comprendere lemmi, sequenze e il senso stesso di quasi ogni opera prodotta in emigrazione.

 

I problemi di classificazione

Ciò detto, la parte dell’italofonia (sia pure contaminata) è stata, soprattutto per le prime generazioni, di tale e tanto rilievo che negli ultimi decenni la si è andata riscoprendo salvandola, in un certo senso, da un oblio al quale per opposte ragioni sia la 'madrepatria' che le comunità etniche sembravano averla destinata. Quest’opera di 'salvataggio' è da un lato resa più agevole dall’impressionante ricchezza della stampa italiana all’estero (che si appoggiava su una rete produttiva e distributiva di tutto rispetto, specie nel Nord America), e da una crescente attenzione nei confronti di testimonianze di tipo diaristico-autobiografico; dall’altro è penalizzata – per così dire – dall’assenza di opere singole tali da venire assunte a simbolo rappresentativo di quella grande storia collettiva. La difficoltà nel riconoscere uno o più capolavori in lingua italiana legati all’emigrazione, per quanto estrinseco, è certo uno dei motivi che continuano a relegare questa cospicua produzione agli angoli dell’interesse storico-letterario.

Anticipando qualche considerazione conclusiva, si può ipotizzare che la cultura degli italiani all’estero, forse anche per il più viscerale rapporto con una tradizione venerabile e di cui è sempre stato difficile sbarazzarsi, non abbia saputo esprimere con spregiudicatezza personaggi, storie e visioni condivisibili da un pubblico sempre più omogeneo e globale. È sempre stata, in modalità diverse, una cultura dell’identità: magari anche di un’identità vuota o rimpianta, ma comunque fortemente autoreferenziale. Di qui la sua forza 'interna' e difensiva, ma anche, in fondo e a lungo andare, la sua scarsa propensione in senso lato propositiva.

 

Realismo e comicità

Le valutazioni di ordine generale devono in ogni caso confrontarsi con la vivacissima eterogeneità degli stili, dei linguaggi, delle tipologie adottate. Solo all’ingrosso si può sostenere che – dall’ultimo decennio dell’Ottocento sino alla seconda guerra mondiale – prevalgano modalità di rappresentazione realistica, specie nei romanzi, che presentano non di rado ponderosi affreschi indiavolati fra il veristico e l’appendicistico (come in due esponenti italoamericani di spicco della primissima e prima ora, Bernardino Ciambelli e Italo Stanco). Il realismo si può aprire all’impegno sociale (Cesare Crespi, Corrado Altavilla), farsi portavoce di un inedito e graffiante punto di vista femminile (come nelle scrittrici tenute a battesimo dalla rivista nazional-fascista «Il Carroccio» negli anni Venti), e persino tingersi di 'giallo' nelle memorie bilingui del poliziotto newyorkese Mike Fiaschetti.

Accanto alla prosa variamente denotativa va sottolineata l’esistenza di una consistente vena comico-satirica, che si appoggia in gran parte al ruolo decisivo esercitato nelle colonie da musica e teatro. In questo caso, la realtà resta sullo sfondo come base, ma a emergere è soprattutto l’uso parodistico che ne fanno gli attori-interpreti. Il meccanismo tipicamente napoletano della 'macchietta', in terra americana diventa ancora più vivace, veloce e malizioso; nei casi migliori, il sentimentalismo cede il posto alla voglia 'moderna' di divertirsi, ridendo anche di sé stessi, osservando le mille incongruenze della grande città. Al lavoro e alla famiglia, temi tradizionali, si affianca la dimensione scanzonata e molto americana del fun, che non è una risata intellettuale, ma quasi un’esigenza fisica di movimento, di libertà. Qui è da ricordare, sopra tutti, il nome di Eduardo Migliaccio, in arte Farfariello, istrionico uomo-maschera, che dai café-chantant della East Coast, alla radio locale e al cinema seppe rappresentare un indispensabile punto di riferimento per il popolo emigrato, sino agli anni Quaranta. I suoi sketch cantati e raccontati sono spesso piccoli gioielli di inquieta critica sociale, tirati a lucido da una creatività linguistica che si fa forza, irridendoli, dei quotidiani fraintendimenti ingenerati dal contesto e dai rapporti di forza.

 

Spazio alla poesia

Un ambito di grande interesse è poi quello poetico, coltivato con caparbia da uno stuolo di scrittori, spesso autodidatti, per i quali la fedeltà o il richiamo ai fasti e ai modi della grande tradizione italiana (da Dante a Tasso a Pascoli) doveva fungere insieme da riparo formale e garanzia di riconoscimento all’esterno. Un poeta frondosamente bilingue come Arturo Giovannitti (1884-1959), nel quale l’impegno compositivo si sposava alla fiera militanza sindacale, rappresentò, e non solo per gli italoamericani, un modello di retorica 'proletaria' in grado di avvincere o quanto meno di attirare l’attenzione sia delle folle dei comizi che di alcuni scelti nomi della "sinistra lirica" angloamericana. Un’antologia della poesia dell’emigrazione, lungi dall’esaurirsi in una serie di sonetti intonati alla nostaglia del paese natio, presenterebbe uno spaccato estremamente composito di temi, metri e linguaggi: assai frequentata e significativa, per dire, la musa dialettale.

Tra gli autori statunitensi che oggi danno voce al problematico incontro e rapporto fra le varie generazioni, e che hanno saputo attraversare l’esperienza dell’emigrazione con una scaltrita padronanza di tutte le lingue e i registri della tradizione, va senza dubbio annoverato Joseph Tusiani, poeta, autore di un’ampia e commossa trilogia autobiografica, saggista, traduttore finissimo, e scrittore perlomeno quadrilingue (italiano, inglese, dialetto, latino).

L’emigrazione, si sa, non si esaurisce nelle più note Little Italies. In Argentina, Francia, Germania, Svizzera, le opere più notevoli sono state scritte nella lingua d’arrivo (manca qui lo spazio per approfondire il discorso). In Brasile, le comunità perlopiù di origine veneta si sono per decenni riconosciute nell’epica pietistica di Nanetto Pipetta (opera del frate cappuccino Aquiles Bernardi, 1891-1973), figura a metà fra il comico e il patetico che in un caratteristico "taliàn" (mescidanza di veneto e portoghese) subisce le traversie di tanti suoi lettori: una sorta di creazione folclorica nata dall’interno di quel mondo cattolico fondamentale per comprendere radicamento e continuità degli italiani all’estero.

La voce delle donne

Nel secondo dopoguerra, da opposte sponde, due voci isolate di donna hanno espresso con lancinante intensità i traumi e l’isolamento, sociale e mentale, delle emigrate, rimodulando con originale efficacia i temi della famiglia, dell’erotismo, della maternità, del lavoro e della 'casa'. In Canada, sin dagli anni Settanta, Maria Ardizzi ha con tenacia costruito attraverso i suoi numerosi romanzi un mondo parallelo, deliberatamente raccontato in una prosa di estrema sobrietà e di spento grigiore; mentre in Australia, nella antonimica «terra fortunata» del suo libro migliore (uscito nel 1981), Rosa Cappiello ha spinto sino a una ideale conclusione la secolare vicenda della letteratura dell’emigrazione, bruciando lo sconcerto del suo smarrimento in una lingua splendidamente idiosincratica, rabbiosa, dalla sintassi frantumata: come una luce di bengala a illuminare, dietro di sé, l’oceano oscuro del dispatrio, e davanti a sé la rabbrividente prospettiva di un multiculturalismo toccato con mano, e che precipita il vecchio-nuovo migrante nell’anomia utilitaristica del mercato.

Come sappiamo bene, il cerchio si chiude – o riparte – con la nascita di un’italofonia d’immigrazione, quando, dalla metà degli anni Ottanta, l’Italia si trasforma, da madre matrigna, in mèta 'americana' per i nuovi migranti, chiamati a misurarsi con la lingua del sì. Ma questa è, davvero, un’altra storia.

 

*Ricercatore di Letteratura Italiana presso l’Università degli Studi di Milano

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 









Postato il Martedì, 07 ottobre 2008 ore 19:38:42 CEST di Salvina Torrisi
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