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Umanistiche: Nuovo omaggio a Mario Soldati dopo il centenario della nascita

Redazione

Sul conto di Soldati, figura anomala nel panorama letterario italiano del novecento,
la critica è stata spesso, più che miope, strabica, pronta a circoscriverne e magnificarne aspetti isolati dell’opera piuttosto che a coglierne l’unitarietà, sfaccettata e complessa. Colpa, o merito, di Soldati stesso, sempre incline a sdoppiarsi, a spiazzare, mosso dalla sua disponibilità, umana e artistica.
Nato a Torino nel 1906, dopo la laurea in Lettere e una specializzazione in Storia dell’Arte, ha un precoce battesimo da narratore con la raccolta di racconti Salmace (1929). Intraprende nel frattempo le sue frequentazioni con pittori (il Gruppo dei sei) e con gli ambienti cinematografici. Qui da un primo apprendistato di sceneggiatore approderà alla regia, e trarrà ambienti e personaggi per molte sue opere successive, quali Ventiquattro ore in uno studio cinematografico (1935), Le due città (1964),
El Paseo de Gracia (1987).

A disagio nell’Italia fascista, dietro invito di Prezzolini si trasferisce negli Stati Uniti dove prosegue gli studi e ha l’occasione di insegnare in un college.
Quest’esperienza estremamente formativa per il suo carattere non meno che per la sua arte gli detterà la sua prima opera matura e senz'altro contribuirà decisivamente a farne il nostro scrittore più cosmopolita del ‘900, e con le tante altre contribuirà a conferirgli la nomea di mondanità che ha nuociuto non poco a una sua meditata collocazione critica.
Fa quindi piacere leggere su «la Repubblica» del 22 gennaio 2003, che Carlo Fruttero, in un’intervista su Simenon, paragoni Soldati all’autore belga per la sua «forza elementare», e lo definisca «scrittore di sguardo». Paragone che può suonare riduttivo. Oltre alla parziale coincidenza dei risultati, Soldati è ben altro. Visivo e talvolta visionario, come chi possiede uno sguardo educato alle arti figurative, sa rendere un turbamento d’animo con la precisione prospettica d’un paesaggio, come sa aggiungere commozione umana alla descrizione di cose inanimate. A suo agio col romanzo lungo non meno che con la novella o il racconto breve, nervoso e scorrevole nello stile, non solo per inclinazione naturale ma per scelta deliberata. Soprattutto capace di stilizzare ogni conoscenza, spesso di prima mano, che gli derivi dall’aver frequentato la cultura francese e anglosassone, il cinema e la televisione, la storia dell’arte e il melodramma. Incastonati in un mosaico policromo di provincialismo e cosmopolitismo, fin dai racconti d’esordio (il già citato Salmace, 1929, che presenta una prima tavolozza di casi estremi e vertiginosi), i suoi temi e la sua voce di scrittore si consolidano nella fiction/non-fiction di America primo amore (1934 ), resoconto romanzato delle sue esperienze negli Stati Uniti. Che a quest’altezza Soldati possieda una sua voce matura e riconoscibile è fuor di dubbio, se un lettore finissimo come Henry Furst, recensendo il libro nel ‘36, può dirne «here at last we have a young European who has been ‘formed’ in the United States, without at the same time ceasing to be in every pore a real European.»
Furst avrebbe potuto scrivere a tutte lettere Italian, anziché European. Il mosaico di Soldati è cementato da un fondo di severa formazione cattolica, gesuitica, unita a un profondo legame con la provincia che l’autore torinese non ha mai rinnegato, semmai integrato, bilanciandoli, con esperienze contrarie, come un libertino avventuriero del ‘700.

La cifra della narrativa di Soldati è una e universale: i meccanismi che regolano le azioni umane sono soggetti a deviazioni che risiedono nella natura stessa delle cose. Niente e nessuno è quel che sembra o crede d’essere, da premesse normali scaturiscono conseguenze teratologiche. Perché questi sono i meccanismi della vita, della sciolta e impetuosa pienezza vitale,…pienezza sensibile, come ha scritto Sanguineti a proposito del romanzo La confessione (1955). In questa chiave si possono leggere le sue opere maggiori, come Le lettere da Capri (1954) o La sposa Americana (1977), storie d’adulterio complicate dal linguaggio (dico proprio il linguaggio, il parlare con se stessi e con gli altri che intorbida le acque e acceca davanti alle più elementari verità). Fino alla vertigine dei mascheramenti, dei sentimenti veri distorti da azioni false, dei casi di coscienza nati dal quotidiano e cresciuti fino a dimensioni abnormi. Non a caso i suoi personaggi sono colti nel momento della verità, in un gesto o in un atteggiamento che contraddice radicalmente tutto il loro essere ed essere stati: vili che diventano inopinatamente forti, intellettuali aggiogati alla schiavitù dei sensi, onesti che si corrompono per inezie.
Una sorta di manuale del confessore aggiornato, che si dispiega in opere tese e geometriche come coreografie, quali La giacca verde (1950), La Finestra (1950), La busta arancione (1966), L’attore (1970), dove le menzogne dei personaggi s’inanellano l’una nell’altra costituendo una catena più forte e necessaria di qualsiasi realtà.
Alla vasta produzione narrativa, il mercuriale Soldati ha affiancato quella di sceneggiatore e regista cinematografico, dirigendo ventotto film fra gli anni ’30 e 50, alcuni dei quali ancora godibili, e si è concesso il lusso di esperienze tabù per il medio scrittore italiano, dal prestarsi come testimonial a un noto vino, al recitare in Napoli milionaria accanto a Edoardo De Filippo, al progettare, dirigere e condurre programmi televisivi, a suo agio sia con Bassani sia con Mike Bongiorno. A suo agio con la vita.
Verrà il tempo di valutazioni critiche più serene e complete, e forse avremo la sorpresa (sorpresa annunciata, a dire il vero) di veder Soldati collocato nel ruolo che gli compete, di massimo descrittore dell’Italia del ‘900 dal primo all’ultimo decennio.









Postato il Sabato, 04 ottobre 2008 ore 16:38:15 CEST di Maria Allo
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