Cos’è la scuola? In questi giorni di inizio
dell’anno scolastico, tutti si cimentano
in proposte e analisi sullo stato
delle istituzioni scolastiche del nostro paese.
Sulla scena politica ci sono tanti temi in
agenda: la vicenda Alitalia, la crisi georgiana,
l’aumento inaudito dei prezzi, le elezioni
americane, eccetera. La scuola è in questa
agenda uno dei temi sui quali si ferma l’attenzione
dei media per qualche giorno. Il
ministro di turno appare in qualche intervista
con le sue proposte rivoluzionarie: il
grembiule, il maestro unico e il voto in condotta.
Faccio fatica a non diventare triviale.
Ma ci vuole un grande controllo delle proprie
reazioni emotive per accettare in silenzio il
fatto che la Gelmini ha preso il posto che,
nell’esecrando periodo fascista, fu di Giovanni
Gentile per fare il commissario liquidatore
dell’intero sistema educativo. La Gelmini,
infatti, a parte i suoi evidenti limiti
culturali, opera in un quadro di tagli di spesa
che riducono drasticamente le offerte
educative. In realtà, il destino della scuola e
dell’università è nelle mani di Tremonti che
persegue tenacemente lo smantellamento di
ogni istituzione pubblica di formazione nazionale
della gioventù italiana in nome di
una visione dello sviluppo economico centrato
sulle aree del Nord e sul rapporto fra sapere
e impresa.
Nessuno né della maggioranza, né dell’opposizione
prova a dare al problema della
scuola italiana la centralità assoluta che gli
compete. Il punto vero e drammatico è che la
nostra società e la nostra classe dirigente
non hanno alcun progetto educativo perché
non riescono ad avere nessuna visione del
futuro e del rapporto con le nuove generazioni
e rimuovono dolosamente i segni del disastro
generazionale che colpisce il nostro paese.
È vero, i giovani non riconoscono nessuna
autorità, non hanno nessuna idea di ciò
che è consentito e di ciò che è vietato, ma
pensare che questa situazione gravissima
possa essere risolta con il voto in condotta è
soltanto una prova di ottusità. I nostri giovani
non arrivano a scuola dopo avere trascorso
i primi anni di vita in compagnia di premurosi
angeli custodi, ma dopo essere nati e
vissuti in un contesto familiare e sociale che
li ha orientati nel rapporto con il mondo
esterno delle persone e delle cose. Hanno seguito
precocemente programmi televisivi
deficienziali e telegiornali cruenti, pieni sempre
di sangue e delitti. Il loro quartiere è o un
ammasso di miseria umana e sociale o un
condominio residenziale fatto di solitudine e
buone maniere. In ogni caso "comunità"
anaffettive o violente o ipocrite e censurate.
Anche i giovani d’oggi, come tutti i bambini
e i ragazzi, hanno cominciato a chiedersi
perché il sole tramonta e la luna sorge nelle
notti stellate. I primi "perché" sono la misura
di un’apertura alla "società dei grandi"
che aspetta risposte, ma principalmente
amore, attenzione e affettività.
Prima viene la scuola e poi l’università. In
questi percorsi (dalla famiglia alla scuola) i
"perché" prendono la forma degli interessi,
della curiosità, delle passioni conoscitive. In
questi anni si istituisce il nesso fra saper capire
e saper vivere, fra concetti e vita che è il
motore delle motivazioni dei giovani a studiare.
Antonio Gramsci, che aveva fatto del
problema educativo il centro di molte riflessioni
politiche, invitava le classi subalterne a
non considerare lo studio un inganno della
borghesia, ma il solo metodo valido per una
maturazione umana capace di affrontare le
difficoltà materiali e psicologiche della vita.
La scuola è lo specchio del mondo, la visione
della vita che ci orienta e ci dà le risorse
per immaginare il futuro. La scuola è educazione
al pensiero che consente di sublimare
le pulsioni immediate e che trasforma in parole
la spinta istintiva allo scarico delle emozioni
in azioni anche distruttive. Come ho più
volte ricordato richiamando le considerazioni
di H. Hillman, la violenza è il fallimento
delle parole che trattiene dello scarico
pulsionale e apre le porte al pensiero del futuro. Si ripete in questi giorni il rituale delle violenze negli stadi e tutti sono d’accordo nell’applicazione di sanzioni severe. Credo anch’io che bisogna reagire allo scatenarsi della violenza negli stadi tra le opposte tifoserie. Ma guai se i nostri dirigenti politici e i nostri intellettuali non provano a capire quali sono le ragioni della violenza nel mondo contemporaneo. Non si tratta di trovare spiegazioni sociologiche nella emarginazione sociale o nella crisi di identità del mondo giovanile. Queste spiegazioni sfiorano la superficie dei fenomeni, ma non provano ad andare a fondo. Per chi scrivono i nostri giornalisti, opinionisti, saggisti, ecc.? Cosa comunicano a un ragazzo di diciotto anni gli articoli dei maggiori quotidiani nazionali? L’autoreferenzialità delle varie "corporazioni", giornali, università, scuola di partiti, ecc., è un segno di frantumazione particolaristica e di opportunismo individuale che non implicano alcuna responsabilità verso ciò che si dice e si scrive. Il rapporto con la realtà e con la verità, ossia con ciò che si svolge nella vita delle persone reali, è irrilevante: nessuno aiuto a capire, ma solo pedanterie saccenti e prescrizioni sull’ipotetico dover essere di un mondo che "deve" corrispondere alle proprie idee preconcette. Questo è un punto decisivo:
i giovani capiscono che i nostri articoli, i nostri libri di testo, i nostri corsi universitari non parlano della vita, che usano un linguaggio "pregiudicato" da un rapporto vecchio con le novità del modo di vivere attuale. Nessuno aiuta i giovani a capire che rapporto c’è fra il linguaggio quotidiano e le forme di vita in cui sono immersi. Gli adulti che hanno comunque il potere di "nominare" le cose, i i commentatori autorizzati hanno l’interesse contrario: non mettere in discussione il proprio linguaggio "specializzato" per non mettere in discussione se stessi. Una classe dirigente che non è capace di pensare a come una scuola che educa a diventare persone sia in grado di leggere e interpretare il mondo in cui viviamo, non è degna di essere tale perché tradisce l’unica vera missione universale a cui gli uomini sono chiamati: educare i propri figli a liberare la propria mente dai pregiudizi e dalle ipocrisie opportunistiche e provare a cercare l’autonomia e la creatività attraverso il confronto con il mondo degli adulti. Chi non ha il coraggio di denunciare le malattie della scuola come sintomo delle malattie del nostro paese, di esprimersi contro il blocco del pensiero creativo e il genocidio culturale a cui tutti, destra e sinistra, partecipano in una complice alleanza per la sopravvivenza del proprio potere, merita di essere accusato di codardia. Tutte le scadenze dell’agenda politica possono essere affrontate con il buon senso e il realismo (penso a tanti commenti di Sergio Romano che mi sento di sottoscrivere, dalla politica estera alla giustizia), ma la riforma della scuola richiede uno scatto morale e intellettuale di cui allo stato non vedo alcun segno. Una svolta nelle impostazioni degli studi, specie in quelli superiori, che costringerebbe a muoversi nella direzione di un nuovo modo di pensare, sarebbe quella di educare giovani a prendere le mosse dell’analisi grandi temi nella società contemporanea non dai concetti definitori dei vari saperi disciplinari. Ad esempio il tema dell’alimentazione potrebbe essere l’asse culturale di una facoltà che abbracci la dimensione storica, la dimensione sociale, la dimensione biologica, ecc. Una facoltà della salute potrebbe essere il supporto di uno studio che abbraccia la storia, l’antropologia, i sistemi di diagnosi e ancora, le tecniche di organizzazione e la tutela giuridica della persona. Ripensare la scuola e l’università deve significare un rapporto comprensibile e stimolante tra le forme definitori dei saperi istituiti i fenomeni della vita che si presentano unitariamente alle nostre esperienze. Pietro Barcellona da "La Sicilia"