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Umanistiche: L'AMICIZIA E LE RISPOSTE DEI FILOSOFI

Rassegna stampa

L’AMICIZIA E LE RISPOSTE DELLA FILOSOFIA

Cosa è l’amicizia? Dove è l’amicizia in questo nostro mondo diviso dal conflitto, tagliato dall’ineguaglianza, abitato da povertà, esclusione, oppressione? E’ possibile far risuonare l’eco di questa antica parola in una città come la nostra, con i suoi drammi, le sue ferite, i suoi silenzi? E’ possibile farlo qui, in una antica Chiesa di un quartiere devastato e spesso abbandonato, senza smarrire o addirittura rovesciare il suo significato profondo? La risposta che già il filosofo tedesco Nietzsche dava alla domanda sulla possibilità dell’amicizia è apparentemente negativa: “il mondo contemporaneo – così egli scriveva – ha ormai del tutto dimenticato l’amicizia e l’ha sostituita con l’amore idealizzato dei sensi”. Jacques Derrida, che nel libro intitolato Politiche dell’amicizia fa ha riaperto l’interrogazione filosofica su questo termine, sembra dargli ragione, allorché costruisce tutto il proprio discorso intorno al detto attribuito ad Aristotele “Oh amici miei, non ci sono amici”. L’amicizia – egli sembra dirci, insieme a Nietzsche, insieme ad altri pensatori, scrittori, poeti, che vanno da Leopardi a Celan, da Baudeleire a Jabés – l’amicizia, per quanto necessaria, indispensabile, alla nostra vita, è ormai impronunciabile, è senza luogo e senza nome. Essa è scomparsa, inghiottita dalle tragedie del mondo moderno, estinta come quelle stelle che rimandano ancora una debole luce, ma in realtà sono spente da millenni.

Eppure, nonostante questo o forse proprio per questo, quella parola, quel termine, quell’idea di amicizia va ancora interrogata, incalzata, sfidata come l’unica, o una delle poche, che può ancora illuminare le nostre vite, mobilitare le nostre energie, attivare ciò che resta delle nostre emozioni. Per quanto indicibile, introvabile, smarrita, dell’amicizia occorre ancora, e sempre più, parlare. Farne la forza, il cuneo, che può rompere la crosta di interessi consolidati, di linee di separazione che dividono il mondo in zone contrapposte ed armate le une contro le altre. Naturalmente, però, questo bisogno emotivo, questa necessità interiore – ma anche storica, sociale, politica - questa domanda di amicizia non può restare generica, indeterminata, confusa. Deve definire anche teoricamente il proprio oggetto, distinguerlo da altri concetti, da altre figure, che le somigliano, o meglio sembrano somigliare all’amicizia, ma che in realtà ne sono lontane, si inscrivono in altri orizzonti, trasportano altri bisogni.

Quali sono queste altre figure, questi altri atteggiamenti solo apparentemente assimilabili all’amicizia, ma che in realtà divergono da essa fino a costituirne a volte addirittura l’opposto? Già Nietzsche, nella frase che ho appena ricordato, ne individua una, l’amore, l’eros, la passione sentimentale o sessuale. Perché nonostante sembrino avere una matrice comune, Nietzsche ha ben ragione a sostenere che amicizia e amore sono cose radicalmente diverse. Non solo perché l’amore unisce soltanto due persone, mentre l’amicizia può essere rivolta a più d’uno – ha una tonalità politica, o almeno plurale, che manca totalmente all’amore. Ma l’amicizia è diversa dall’amore per qualcosa di più profondo che riguarda il rispetto per la distinzione e la singolarità di coloro che lega. Mentre l’eros – come ci spiega Platone nel Simposio – spinge a fare dei due amanti una sola persona, l’amicizia, pur implicando una vicinanza e persino un’intimità (philia, amicizia in greco, ha la stessa radice di philema, bacio), lascia agli amici la loro autonomia, non ne sacrifica l’individualità ad un sogno di impossibile fusione. Se l’eros, nella sua essenza, conserva una connotazione di travolgente passione, allude a una forza di scatenamento difficilmente governabile, l’amicizia appartiene alla sfera del logos. Implica il contatto e l’intimità, ma non la compenetrazione dell’amore. Colpisce ma non travolge, assimila ma non possiede. Non è traducibile nel linguaggio del possesso, della possessione, dell’appropriazione – lascia l’altro essere tale, ne rispetta e, se possibile, ne custodisce la differenza. L’altro – o anche gli altri. Perché, a differenza dell’eros, l’amicizia non esclude il terzo e neanche i più. E’ un modo della pluralità, non necessariamente della dualità. E’ precisamente questa misura molteplice a consentirne una, certo problematica, trasposizione politica. A rendere pensabile – sia pure in maniera antinomica – una ‘politica dell’amicizia’. L’amicizia non è un ‘due’ che tende violentemente all’uno, come invece l’amore assunto nella sua assolutezza. Non è soggetta alla sindrome fusionale, al vincolo irresolubile, alla cogenza irresistibile dell’eros – è un legame che scioglie, che libera, l’altro alla sua alterità costitutiva. Ecco, si può dire che tutto l’enigma dell’amicizia sia racchiuso in questo ossimoro – un legame che scioglie, un contatto che consente la distanza, che non distrugge quella differenza che insieme ci relaziona e ci distingue.

Ma se già l’amore appare diverso dall’amicizia, il termine, la figura, da cui questa va ancora di più distinta, è quello di fraternità. La diversità – ed anche divergenza – tra amicizia e fraternità è al centro del libro di Derrida. In che senso? Perché la nozione – e anche la pratica – dell’amicizia va liberata dalla sovrapposizione con quella di fraternità? Cosa ha l’idea di fraternità di distante e anche di opposto alla vera amicizia? Già il fatto che sia nella nostra tradizione ebraico-cristiana, sia in quella greca, la fraternità ha spesso costituito il luogo simbolico e reale di un conflitto mortale tra i fratelli dovrebbe metterci sull’avviso. Si pensi ai miti di Caino e Abele, di Romolo e Remo, di Eteocle e Polinice, finiti tutti nell’omicidio e nel sangue di uno dei fratelli, o, nel caso di Eteocle e Polinice, di entrambi. Perché ciò accade? Perché nella nostra tradizione la fratellanza richiama la violenza omicida – non solo tra fratelli, ma nel saggio di Freud Totem e tabù anche nei confronti del padre, ucciso e divorato dai fratelli che ne prendono il posto?

Si può rispondere a questa domanda riferendosi al carattere biologico della fraternità. E’ questo che non ne consente una traduzione politica. Se ciò che accomuna gli uomini, ciò che crea legame e solidarietà reciproca, è appunto il sangue, la consanguineità, l’esser figli di uno stesso padre, cioè discendenti da uno stesso gruppo etnico, da una stessa stirpe o addirittura da una stessa razza, come avviene appunto tra fratelli, ebbene quel legame e quella solidarietà non potranno che essere intesi in termini di ostilità e di conflitto contro coloro che discendono da un padre diverso, che portano un diverso sangue. E’ esattamente ciò che è accaduto e accade in tante parti del mondo, allorché la fraternità è invocata contro tutti coloro che in un modo o in un altro non ci sono biologicamente affini, che hanno un sangue diverso. Non a caso il nazionalismo – già a partire dalla Rivoluzione francese – si è impossessato della nozione di fratellanza usandola come arma ideologica per espandere la propria nazione a danno delle altre. Ecco, nel momento in cui l’idea, originariamente universale, di fraternità si lega alla nazione – attraverso il richiamo a una nascita comune (il termine ‘nazione’ deriva proprio dal termine ‘nascita’), a una stessa patria, ad una medesima etnia - essa diventa una vera e propria macchina da guerra. Allorché l’idea, originariamente universale, di fraternità si lega alla nazione – attraverso il richiamo ad una nascita comune, a una stessa patria, ad una medesima etnia – essa diventa una vera e propria macchina da guerra. Questo spiega la difficoltà, e anche l’ambiguità, di fondare l’amicizia sulla fratellanza. Legare il rapporto tra gli uomini – fraternità è un termine a connotazione maschile, che esclude le sorelle, spesso schiacciate dallo scontro tra i fratelli, come accade ad Antigone – legare il rapporto tra gli uomini, dicevo, alla naturalità di un’origine di sangue, alla consanguineità di un’unica discendenza, alla immediatezza della biologia, significa stimolare i nazionalismi, i localismi, i regionalismi che hanno insanguinato ed ancora insanguinano il mondo dall’Africa, all’Asia alla stessa Europa. E’ per questo che l’amicizia, e soprattutto un’amicizia plurale, o in senso lato politica, deve prendere le distanze dalla figura della fraternità, almeno dalla forma particolaristica ed etnocentrica che questa ha assunto negli ultimi duecento anni.

Ma in quale direzione? A favore di cos’altro? Qui bisogna essere molto attenti a non rovesciare l’unità assoluta, naturale, biologica, della fraternità nel suo opposto. A non trasferire l’idea – e la pratica – di amicizia dal polo della fraternità, o anche dell’amore, al suo contrario, vale a dire al polo della semplice e generica benevolenza. Questo indebolimento, questo scioglimento, della forza dell’amicizia è già implicito nel passaggio dall’agape greca alla dilectio latina. Dirigere, pur con il suo significato di preferenza, rimanda ad una sorta di benevolenza generale, o di misericordia universale, in cui si spegne non solo il fuoco dell’eros, ma anche l’intensità della philia: se si è amici di tutti, non lo si sarà veramente di nessuno. Quella stessa molteplicità, che è condizione di amicizia, oltre una certa soglia è destinata a imbrigliarla ed estenuarla. E’ questo, mi pare, il rischio che si corre soprattutto quando si assimila l’amicizia alla tolleranza. Quando la si accosta a quella concezione relativistica che ha assunto oggi il nome di multiculturalismo: il pericolo, in questo caso, è che si riduca l’amicizia alla sopportazione della diversità – questo significa tolleranza – almeno fino a quando tale diversità non turbi la nostra pace e non metta in discussione la nostra identità. Su questo rischio di riduzione dell’amicizia a semplice tolleranza bisogna concentrare l’attenzione, mettere in gioco tutte le nostre capacità critiche, perché questa ideologia porta dentro di sé un elemento assai suadente. Esso – tale parola d’ordine a favore del relativismo e della tolleranza – suona più o meno così: l’unica maniera di custodire la pace, di esorcizzare i fantasmi della guerra, è quella di sospendere il giudizio sui valori, mettendoli tutti sullo stesso piano, relativizzandoli e quindi neutralizzandoli in un’equivalenza generale. E’ il principio liberale che tutto può andare bene, tutto può essere accettato, purché non entri nella sfera della nostra libertà personale, purché non tocchi le basi dei nostri interessi e della nostra identità.

L’esito di tale punto di vista, che si presenta moderno, aperto, disponibile, è l’addomesticamento delle differenze, della loro forza ed intensità. Le differenze esistono, ma sono indebolite, urbanizzate, governate da un principio di equivalenza che evidentemente non è diverso da quello del mercato generale in cui ciò che conta è la scambiabilità delle merci. E’ una linea di discorso che nasce dalla sfiducia di poter sostenere a fondo il proprio punto di vista, le proprie convinzioni – anche per la sostanziale indifferenza di tutti i punti di vista, di tutte le convinzioni. Come dire: le differenze esistono, ma in quanto reciprocamente indifferenti, senza forza di persuasione e senza anima, come semplici sfumature di un unico quadro, quello della globalizzazione integrale che regola le nostre vite e definisce il nostro orizzonte. Dove, naturalmente, c’è poi sempre un punto di vista che si ritiene superiore agli altri perché si definisce aperto, comprensivo e appunto tollerante con coloro che, pur non avendo raggiunto la stessa maturità, sono in cammino verso di essa o comunque non ci minacciano. E’ precisamente per questo che vengono tollerati nella loro diversità, ammessi nel club multiculturale delle differenze, accettati in un sistema che essi non potranno gestire in prima persona, ma che ne consente la sopravvivenza. Come questa tolleranza sia tutt’altro da un’autentica amicizia, mi pare evidente. Al punto che si deve considerare l’amicizia lontana da essa quanto dalla fratellanza nel senso prima definito. Se l’amicizia non può configurarsi come legame biologico tra eguali – i fratelli – non può neanche ridursi alla semplice tolleranza rispetto ai diversi. Essa non è, non può essere, né fusione in uno, né pura compresenza di molti, né rigida chiusura in sé né semplice relativizzazione di ogni diversità.

Ma allora, se amicizia non è nulla di tutto ciò, se non è rappresentabile da nessuna di queste figure – amore, fraternità, tolleranza - ebbene quale sarà il suo vero nome? Quale ne sarà la figura più propria e più intensa? Personalmente, per rispondere a questa domanda sul significato e l’essenza dell’amicizia, farei il nome di comunità. Naturalmente dopo aver spogliato anche questo termine dai suoi significati più ingannevoli. E in particolare da quei significati, da quei discorsi, da quelle pratiche, che nel corso del tempo hanno legato l’idea di comunità a quelle di proprietà, di identità, di appartenenza. Contro questi significati distorcenti va recuperato il senso originario della comunità, così come è ancora custodito nel suo etimo, nella sua origine etimologica. Se si ricorda che il termine ‘comunità’ – nel latino communitas – porta dentro di sé l’idea di munus, che in latino vuol dire insieme legge, debito e dono (e per di più il dono che si dà e non quello che si riceve), la comunità verrà intesa nella sua relazione costitutiva con l’alterità. La vera comunità, l’autentica communitas, non rimanda a identità o a appartenenza, ma ad alterità e ad espropriazione a favore dell’altro. L’aggettivo ‘comune’, del resto, in tutte le lingue latine, ma anche in inglese, rimanda a ciò che non è proprio di nessuno, ma è di tutti o di molti, nel senso che passa dall’uno all’altro secondo una legge del dono che impegna ciascuno nei confronti di ciascun altro. Che lo impegna, intendo dire, non in un atteggiamento di appropriazione e neanche di generica tolleranza. Ma che lo impegna nel senso profondo di un debito originario in cui è in gioco tutta la sua responsabilità, quando non la sua stessa vita. Dove ciò che è in gioco – ecco il senso più radicale ed estremo della communitas – non è la riduzione dell’altro a sé né la diluizione del sé nell’altro, ma la possibilità che l’uno e l’altro siano in una relazione di assoluta reciprocità che renda universale la loro stessa differenza: una reciprocità nella differenza e della differenza.

Questa e solo questa – l’armonia tra i distinti, l’unità dei differenti – sarebbe la figura della vera amicizia, la vera figura dell’amicizia. Naturalmente ciò è tutt’altro che facile quando si passi dalla teoria alla pratica effettiva. Quanto questa amicizia – la vera amicizia cui si faceva adesso riferimento – quanto questa amicizia sia tradita, sfidata, contrastata da un mondo sempre più incline all’uso della forza, alla pratica e anche all’ideologia dell’inimicizia e del conflitto è sotto gli occhi di tutti. Se si dovesse descrivere la situazione attuale, dare una definizione di ciò che oggi si chiama globalizzazione, se si dovesse intendere il suo senso reale, bisognerebbe dire che oggi il mondo è unificato esattamente da ciò che lo divide, dalla disuguaglianza, dalla disparità, dalla ostilità tra parti che sembrano avere in comune soltanto l’inimicizia. Tutto il contrario di ciò che sarebbe necessario in una logica dell’amicizia, così come la si è definita. Se questa esistesse, se questa potesse almeno affacciarsi come possibilità e come compito, il mondo andrebbe non solo pensato, ma anche ‘praticato’, non come contrasto tra crescenti disuguaglianze, ma come unità di differenze, come sistema di distinzioni, come uno spazio comune in cui differenze e distinzioni non siano più punti di resistenza o residui rispetto ai processi globali, ma la loro stessa forma. Si tratterebbe, in questo caso, di immaginare un mondo in cui la differenza, la molteplicità, la pluralità, diventi non ciò che separa e contrappone, ma ciò che unisce e mette in rapporto.

Naturalmente mi rendo ben conto che calare questa formula ‘filosofica’ nelle realtà degli interessi, delle forze, dei conflitti in campo è tutt’altro che semplice: che ad essa ci si può solo approssimare, dando per scontati contraccolpi, derive, passi indietro. Ma la strada resta quella, non c’è altra possibilità di pace e di sopravvivenza: bisogna trovare il modo, le forme, il linguaggio concettuale per riconvertire la logica dell’inimicizia che trattiene il mondo sul crinale del suo annientamento, in una logica dell’amicizia, in una logica, come anche si può dire, del singolare-mondiale, in cui le differenze divengano ciò che tiene insieme il mondo. Io credo che, certo in contrasto con la sua storia recente e meno recente, ciò che si chiama Occidente abbia in sé la forza, le risorse, le radici culturali per tentare questa operazione – e ciò nonostante la sua tentazione ricorrente di omologare il mondo in base ad un solo modello. Fin da Eraclito l’idea che si possa essere uniti non dall’omogeneità, ma dalla distinzione fa parte di una tradizione che l’Occidente ha prodotto, ma mai portato ad effetto. Buona parte della sua storia violenta è segnata da questa dimenticanza e rimozione. Il tragico paradosso che viviamo è la circostanza che oggi anche coloro che hanno dichiarato guerra all’Occidente ne hanno riprodotto e potenziato fino al parossismo la medesima ossessione fobica, la stessa convinzione immunitaria che non possa esistere relazione tra i diversi che non sia quella dello scontro mortale.

In questa tragica situazione – in cui le tendenze più distruttive della nostra epoca si specchiano e si raddoppiano in una disastrosa corsa al massacro – l’unica possibilità che ci rimane è quella di rompere lo specchio, di spezzare l’incantesimo. Il richiamo all’amicizia, il discorso sull’amicizia, aperto dalla fondazione del premio Napoli, va in questa direzione, nella consapevolezza che il luogo, lo spazio, simbolico e reale, in cui è forse ancora possibile sperimentare questo nuovo tipo di amicizia politica, questa forma politica di amicizia, sia proprio il Mediterraneo. Perché solo nel Mediterraneo quelle culture oggi in conflitto, le tre grandi culture del monoteismo, quella greca, quella ebraico-cristiana e quella islamica, si sono una volta incontrate con ineguagliabili risultati. E’ a quell’incontro – incontro di vera amicizia perché rispettoso delle differenze e delle specificità di quelle culture – che oggi dobbiamo ispirarci. E ciò nonostante gli errori, le violenze, le atrocità della nostra storia. Se sapremo farlo, se almeno tenteremo di farlo, allora forse quell’amicizia di cui Nietzsche lamentava la scomparsa tornerà ad illuminare le nostre vite.









Postato il Giovedì, 07 agosto 2008 ore 12:05:00 CEST di Salvina Torrisi
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