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Umanistiche: MILANO CELEBRA CON UNA MOSTRA IL PITTORE NAÏF

Rassegna stampa

 

MILANO CELEBRA CON UNA MOSTRA IL PITTORE NAÏF Il suo bestiario fantastico, l’amore per gli animali e la natura violenta. Il suo volto descrive una follia profondamente umana ed emiliana

Era un uomo in esilio. Tra i pioppi del Po, nella Bassa reggiana, Antonio Ligabue era un uomo in esilio. Eppure nessuno come lui riesce ad essere, ancora oggi, un emblema di questa terra che ti rapisce con la sua malìa, tra i fumi della nebbia e il respiro del fiume che corre lento verso la foce. Povero in canna, con un’infanzia difficile passata anche in un collegio per bambini handicappati, infelice e bisognoso d’amore, Toni Ligabue è stato prigioniero e poi stregato dagli argini del Po. Lui un Laccabue qualunque nato nel 1899 in Svizzera, diventerà qui il Ligabue pittore, dove resterà fino alla morte, avvenuta a Gualtieri nel 1965. Nessuno come lui ha saputo, nei suoi quadri, raccontare la Bassa e il suo bestiario fantastico, l’amore per gli animali e la natura violenta. Il suo volto descrive una follia profondamente umana ed emiliana. Anche se la Bassa e i paesaggi del Po nei suoi quadri, non ci sono quasi mai.
Dopo i versi narrativi di Cesare Zavattini dedicati a Toni Ligabue, è difficile raccontare la figura di questo straordinario pittore. Sarebbe facile profondare negli aneddoti che lo raccontano con addosso dieci sottovesti da donna, o in sella ad una delle nove motociclette con un quadro attaccato dietro la schiena, sfrecciando come un pazzo nelle strade tortuose della Bassa. E perché non raccontare la bellezza e la sensualità della donna intagliata nel legno di un pioppo, che i contadini andavano a vedere pagando? E i diversi ricoveri in manicomio per le sue crisi maniaco-depressive? Negli ultimi anni, con un po’ di soldi ricavati dalla vendita dei dipinti, andava con la moto nelle case per farsi anticipare i soldi promettendo un quadro che non avrebbe mai consegnato. Divenuto famoso pretendeva che l’autista della sua automobile si togliesse il cappello, aprendogli la porta della vettura per salire.
Toni è ancora una presenza viva a Gualtieri. Lo scrittore Gustavo Marchesi lo ricorda ancora magro come un uscio, insieme all’altro pittore della Bassa, Arnaldo Bartoli. «Cosa c’è di bello in questo quadro?» chiese Toni al Bartoli che guardò con attenzione un suo autoritratto.
Dopo un po’ di silenzio, Toni urlò: «La mosca! la mosca sulla fronte, non vedi?». E giù una mezza parolaccia.(Da Avvenire )M:Allo

Ligabue sapeva bene di valere come pittore. Lo aveva capito un altro personaggio estroso e folle, come lo scultore Marino Mazzacurati, (di cui Bilenchi traccia un ricordo indelebile nel suo più bel libro, Amici), che lo aiuta e lo scopre fin dal 1927. Toni attirerà l’attenzione della critica solo negli anni quaranta, ma sarà Zavattini a cogliere in pittori come Ligabue, Bartoli o Ghizzardi la straordinaria forza di un clima pittorico incredibile tra Gualtieri Guastalla e Luzzara, che sfocerà nel festival della pittura naïf organizzato dallo stesso Za. Un modo per interrogarsi seriamente su quel modo di dipingere originario. Come per il cinema teorizzato dal genio di Luzzara. Per Za la pittura naïf doveva esprimere la realtà con la forza pittorica originaria, primitiva, senza filtri ideologici; così il cinema doveva essere in presa diretta sulla realtà. La realizzazione concreta nei cinegiornali liberi, evoluzione per neorealismo, va in questa direzione. Oggi l’etichetta naïf, che raccoglie solo pittori della domenica o di una maniera fanciullesca, non deve confondere le idee sul pittore Ligabue.
Ligabue viveva nel pioppeto e non si preoccupava troppo quando scendevano i fiori di schiuma galleggiante sul Po preannunciando la piena in arrivo. In quella capanna ha vissuto per anni, schivo al mondo, con un corpo rachitico e sporco, che spaventava tanto le donne. Giorni sempre uguali, sperduto nella nebbia o sotto il sole cocente dell’estate afosa, con l’aria irrespirabile che sa di fango. Qui spesso Toni dipingeva i suoi falchi, le aquile che combattono con ragni improbabili, enormi, oppure con boa che avvinghiano leoni o ghepardi. La Bassa appare sullo sfondo, spesso occupato da case svizzere che rinascono dalla memoria del Toni bambino. Sono i paesaggi dell’infanzia quelli che dipinge malinconicamente. La pianura c’entra poco, qualche cane, qualche gallina, ridotta a sipario dei ritratti o delle lotte feroci di galli e galline. Altrimenti quella che ama dipingere Ligabue è la foresta rigogliosa di erbe minacciose.
Per i suoi ritratti si parla spesso delle somiglianze con Van Gogh, e anche questo non è vero. Ligabue si ritrae quasi sempre di sbieco, guarda sempre da un’altra parte, anche quando lo sguardo è verso il pubblico. Non è solo il risultato dello sguardo del pittore che dipinge da uno specchio a tre quarti, ma una vera e propria paura che detta quasi l’impossibilità di guardare se stesso nello specchio del quadro. Non fissa se stesso, è come se togliesse sempre lo sguardo, con la paura dell’animale ferito che timidamente cerca di avvicinarti per una carezza. Si ritrae sempre sul punto di sorprendere se stesso girando lo sguardo all’improvviso. È il terrore di chi non ama la propria immagine. Questa ossessione del volto è una delle costanti di Ligabue, il suo enigma e il suo mistero. Il guardare fuori dal quadro è in verità solo un diversivo. Ligabue guarda se stesso distogliendo lo sguardo. Toni ci costringe con la sua pittura a interrogarci sul male nel mondo e nella natura. Sta tutta qui la sua grandezza, nella forza potente della sua pittura.
L’ossessione del volto è una costante dell’artista emiliano, il suo enigma e il suo mistero.
Ed è sbagliato definirlo «il Van Gogh italiano»

Nato nel 1899, fin dalla più tenera età Ligabue ha avuto un'esistenza difficile. Figlio naturale di un'italiana emigrata, ha sempre ignorato il nome del padre.
Nel 1900 viene affidato ad una coppia di svizzeri tedeschi; non verrà legittimata la sua adozione, ma il bambino si legherà moltissimo alla matrigna, con un insolito rapporto di amore e odio. Nel 1913, dopo aver superato solo la terza elementare, entra in un collegio per ragazzi handicappati, dove si distingue subito per l'abilità nel disegno e la cattiva condotta. Nel 1917 è curato per qualche mese in una clinica psichiatrica e qualche anno dopo è espulso dalla Svizzera su denuncia della madre adottiva e ritorna in Italia dove vive come vagabondo, continuando però a disegnare e a creare piccole sculture con l'argilla. Viene poi scoperto (1927-28) ed aiutato da Mazzacurati, pittore e scultore. Nel 1937 viene internato in un manicomio in "stato depressivo", da cui esce per l'interessamento dello scultore Mozzali. Durante la guerra fa da interprete alle truppe tedesche ma, per aver percosso con una bottiglia un soldato tedesco, nel '45 viene nuovamente internato. Nel '48 viene dimesso; i critici e i galleristi cominciano ad occuparsi di lui. Iniziano anni durante i quali lentamente la fortuna sembra volgere a suo favore. La sua fama si allarga, la sua attività pittorica subisce un netto miglioramento. Vince premi, vende quadri, trova amici che lo ospitano, si girano film e documentari su di lui. Ligabue rimane però lo stesso, anche se viene identificando nelle automobili, dopo la passione per le motociclette, il segno di un raggiunto prestigio sociale, con forme maniacali (vorrà un autista, che si tolga il cappello, aprendogli la portiera della macchina per salire). Nel 1962 viene colpito da paresi, continua comunque a dipingere, ma nel 1965 muore.Anche quando cominciò ad essere accarezzato dalla fama, Antonio Ligabue, il "buon selvaggio" della pittura italiana, continuava ad essere un personaggio inquietante, diverso, strano; per quella sua miseria solitaria, consumata rintanandosi tra gli alberi, le nebbie e le calure della Bassa Padana; per quell'infanzia irrequieta e malaticcia vissuta in Svizzera con una madre adottiva; per la sua parlata mezza tedesca, le ossessioni maniacali, i ripetuti soggiorni in manicomio.
Ma a riscattare tanta sofferta alienazione e un passato da reietto vagabondo approdato nel luogo di origine del padre - il paese emiliano di Gualtieri - c'era, sorprendente quanto ogni aspetto del suo essere, una genialità artistica capace di trasformare gli incubi in incantate visioni colorate, gli ordinati filari di pioppi in giungle popolate da belve feroci. Tigri con le fauci spalancate, leoni nell'atto di aggredire una gazzella, leopardi assaliti da serpenti, cani in ferma e galli in lotta: predatori e prede, selvatici e domestici, sentiva gli animali come compagni, li comprendeva e li amava più degli uomini: e ad essi più che agli uomini, voleva assomigliare.  Le opere figurative di Ligabue, dense e squillanti, traboccano di nostalgia, di una violenza ancestrale, di paura e di eccitazione, di dettagli ugualmente minuziosi nelle scene di vita campestre come in quelle di esotiche foreste, attinti, nel primo caso, dalla profondità di un'incredibile memoria visiva, nel secondo da una immaginazione ancora più prodigiosa.
Va subito detto che il disegno per Ligabue è un mezzo espressivo completamente separato e distinto dalla produzione pittorica, nel senso che, anche se si ritrovano nei disegni gli stessi soggetti che dominano nei dipinti, questi tuttavia hanno altri esiti, non sono mai abbozzi, studi preparatori delle tele.
 









Postato il Domenica, 15 giugno 2008 ore 23:52:59 CEST di Maria Allo
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