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Umanistiche: Che colpo: Redford recita Leopardi !

Rassegna stampa

 

Cortona: Robert Redford leggerà poesie di Giacomo Leopardi al Tuscan Sun Festival
"O natura cortese,
Son questi i doni tuoi,
Questi i diletti sono
Che tu poi porgi ai mortali. Uscir di pena
è diletto fra noi,
Pene tu spargi a larga mano; il duolo
Spontaneo sorge: e di piacer, quel tanto
Che per mostro e miracolo talvolta
Nasce d'affanno, è gran guadagno. Umana
Prole, cara agli eterni! assai felice
Se respirar ti lice
D'alcun dolor: beata,
Se te d'ogni dolor, morte risana."


 Robert Redford leggerà poesie di Giacomo Leopardi al Tuscan Sun Festival La prima parte del programma dell’8 agosto, che avrà luogo nell’intimo scenario dell’ottocentesco Teatro Signorelli nel cuore di Cortona, includerà anche poesie recitate da una delle maggiori stelle del cinema e del teatro italiano, Gabriele Lavia.
Un appuntamento singolare, un recital tra poesia e teatro che vede il connubio del pianoforte di Nicola Luisotti, carriera sfolgorante che lo ha visto su tutti i podi più prestigiosi del mondo anche come direttore d’orchestra e le voci recitanti di due attori così diversi. Una serata dedicata a Giacomo Leopardi che si annuncia densa di emozioni poetiche.
Nella magica atmosfera della piccola città gioiello di Cortona, ormai affermata sulla scena musicale internazionale, anche quest’anno ritorna (VI ed.) l’appuntamento con il Tuscan Sun Festival, fondato e diretto da Barrett Wissman che ha dato vita anche a un Tuscan Sun Festival a Napa Valley in California (3° ed. quest’anno) e a Singapore (2° ed.), fitto di ospiti di spicco e articolato in più sezioni oltre la musica: arte, letteratura, discipline orientali e una raffinata sezione sul gusto. Sempre ricco di grandi sorprese, per questa edizione il Festival ha riservato al suo pubblico una serata inaugurale d’eccezione ospitando per la prima volta la DANZA e che avrà come protagonisti i grandi ballerini russi del Teatro Bolshoi di Mosca, eredi di un’antica tradizione tutt’ora vitale e nota in tutto il mondo.
Ma, nel suo dispiegarsi, il Festival lascerà spazio soprattutto alla grande musica sinfonica e da camera.
Ritorna a Cortona il 3 agosto l’Orchestra Barocca di Venezia, magistralmente diretta da Andrea Marcon e affiancata da solisti di grande rilievo quali Danielle de Niese, soprano australiano dalla straordinaria presenza scenica, e il giovane e possente basso partenopeo Vito Priante. L’ensemble eseguirà un programma interamente dedicato a Georg Friedrich Händel, con i Concerti Grossi n°1 e n°4, splendidi highlights dall’Ariodante, opera seria ispirata alle vicende dell’Orlando Furioso di Ariosto e la cantata di origine ovidiana Apollo e Dafne.(Da Ansa )M.Allo
Vi riportiamo integralmente un' interessante intervista di Giulio Ferroni con i ragazzi di un Liceo di Napoli sul tema
Gli aspetti del dolore   in Giacomo Leopardi

FERRONI: Sono Giulio Ferroni. Insegno Letteratura Italiana all'Università di Roma "La Sapienza". Mi occupo di letteratura e di poesia italiana, e ho scritto anche un manuale per la scuola. Oggi siamo qui per discutere su: La poesia del dolore. A proposito di questo tema, vediamo subito un filmato.

Il dolore è un'esperienza che ci mostra via via i volti dei nostri stati effettivi. E' una condizione dell'animo, una sensazione interna del nostro io, una coloritura complessiva, attraverso la quale evadiamo il mondo. Il dolore non è solo un'affezione dell'animo, ma è anche una via di accesso alla profondità e alla problematicità dell'anima. Attraverso il dolore, la superficie della conoscenza si rompe e si apre l'abisso della profondità delle cose, ci si svela la loro possibile insensatezza. Leopardi così descriveva il passaggio cruciale nella sua vita: "Da principio il mio forte era la fantasia. Non avevo ancora meditato intorno alle cose e della filosofia non avevo che un barlume. La mutazione totale mi inseguì dentro un anno - cioè il 1819 - dove, privato dell'uso della vista e della continua distrazione della lettura, cominciai a sentire la nuova infelicità in un modo assai più tenebroso. Cominciai ad abbandonare la speranza, a riflettere profondamente sulle cose, a divenire filosofo di professione, da poeta ch'io era, a sentir l'infelicità certa del mondo, in luogo di conoscerla". L'esperienza del dolore ci dà una conoscenza vissuta delle cose, ci fa uscire dalla fantasia e ci fa toccare la realtà, secondo Leopardi. Ma non può la visione dolorosa condurci invece alla disperazione, per cui un dolore acceca la nostra percezione?

STUDENTESSA: Professore, Lei crede che il dolore rappresenti un accesso privilegiato alla comprensione delle cose?

FERRONI: Certo, ma un privilegio che sarebbe in qualche modo da evitare. Chi ha privilegiato il dolore, come modo di conoscenza, ha anche protestato duramente contro il dolore. Il caso di Leopardi, di cui si è parlato, è esemplare. In fondo molti critici hanno giustamente detto - io sono perfettamente d'accordo - che la capacità di conoscere il mondo da parte di Leopardi, la capacità di avvertire certe contraddizioni perfino della società contemporanea, che altri non avvertivano, era legata anche alla sua malattia, alla sua sofferenza fisica. Ecco, al Leopardi il dolore ha dato una capacità di comprensione del mondo, una lucidità assoluta. Però questo non significa che il dolore fosse una forma privilegiata: avrebbe preferito non soffrire. Allora, chi si serve del dolore per conoscere, riesce a farlo solo se protesta duramente e fortemente contro il dolore stesso. Il dolore è un'esperienza necessaria, inevitabile degli esseri umani, che però gli esseri umani riescono a vivere, a capire fino in fondo se in qualche modo protestano anche contro di essa, cercando di uscirne. Il confronto col dolore è anche - e questo nella poesia si sente particolarmente -, è anche una lotta contro il dolore, un modo di controllarlo, di servirsene per approfondire l'esperienza, per capire l'io e il mondo, ma anche per uscirne.

STUDENTESSA: Il poeta che esprime il dolore nelle sue poesie, cerca di coinvolgere attivamente il lettore?

FERRONI: L'esperienza del dolore credo che nella poesia parta, prima di tutto, da una volontà di vedere dentro se stessi , di capire il dolore stesso. Prima del tentativo di coinvolgere il pubblico, c'è uno sguardo dentro di sé, un approfondimento di sé. Spesso la grande poesia, la grande letteratura sorge indipendentemente dal colloquio col pubblico. Prima del colloquio con il pubblico - che pure è necessario e determinante - c'é una sofferenza interna e una volontà di analizzarla. Spesso il dolore individuale diventa immagine del dolore universale, del dolore che riguarda non solo tutti gli esseri umani, ma la natura stessa. Se noi pensiamo alla cultura classica, troviamo spesso questo senso di un dolore che riguarda la condizione stessa dell'uomo. Da un dolore individuale, personale al dolore che abita tutte le cose, non solo la vita umana, ma tutte le cose. C'è un famoso verso di Virgilio: "Sunt lacrimae rerum et mentem mortalia tangunt", sono delle lacrime che abitano le cose, "sono lacrime delle cose, che toccano la mente dei mortali". E le cose che soffrono sono anche le cose della natura. Qui abbiamo presentato tra i nostri oggetti addirittura un mazzo di fiori e di rose, proprio per indicare come molti poeti - e Leopardi in particolare - addirittura riflettono sulla sofferenza, sul dolore, legato a ciò che si presenta invece come l'immagine della bellezza, della dolcezza nella natura ordinata e felice. C'è un famoso pensiero di Leopardi, del 1826, scritto a Bologna, che è la descrizione di un giardino, luogo della felicità per eccellenza nella tradizione poetica; e nel giardino le piante, i fiori sono abitate tutte dalla sofferenza. La natura è qualche cosa che soffre in tutte le sue pieghe, allora, nel crescere, nello sbocciare, nel morire, nell'essere aggredita. Anche chi vuole fare un bel mazzetto di fiori, provoca sofferenza. E la poesia cerca di darci il senso di questa sofferenza, non soltanto dell'individuo, del soggetto, ma addirittura dell'intera natura.

STUDENTE: Di solito sono le emozioni a ispirare la poesia, lo stesso Leopardi associava immaginazione e illusioni alle sue creazioni poetiche. Lei pensa che ci possa essere anche una poesia ispirata dalla razionalità?

FERRONI: Quando si parla di poesia, non bisogna dettare delle regole predefinite. Ciascuno può preferire un tipo di poesia piuttosto che un'altra, ma la poesia è sorta storicamente nel passato dalle situazioni mentali e dai modi di comportamento, dalle sensazioni più diverse. Quindi ci può essere una poesia assolutamente emozionale, scatenata dalle emozioni, che però non possono essere espresse nella loro nuda emergenza, nel loro afffacciarsi puro e semplice, ma devono essere trasmesse attraverso un codice, in modo che qualcuno comprenda. Quindi anche l'emozione più violenta nella poesia deve essere comunque trasmessa da un linguaggio, da un codice, da una forma. Però, oltre l'emozione, c'è anche la ragione, il pensiero, l'articolazione complessa del pensiero da cui scaturisce la poesia. Leopardi, per esempio, è anche un grande filosofo, la sua poesia nasce da una parte da una intensità emozionale fortissima, da una partecipazione del cuore - quello che Leopardi chiama: "i moti del cor" -, da questo qualcosa di cieco, di irrazionale, dalla voglia di vivere, dalla passione, dal sentimento, tutto ciò che manca all'io per la propria soddisfazione; dall'altra dalla volontà di capire, di riflettere sul senso del mondo collegata anche a una razionalità del linguaggio, perché il linguaggio di Leopardi poi è sempre estremamente nitido, estremamente chiaro. Naturalmente può avere, per noi che siamo lontani linguisticamente, in certi casi può avere una complessità sintattica, linguistica particolare, però, nei casi maggiori è di una chiarezza cristallina, estrema, assoluta. Un caso di razionalità, addirittura di ragionamento nella poesia, è data dal finale de La quiete dopo la tempesta. L'ultima strofa è costituita da un vero e proprio ragionamento sul rapporto tra il dolore e il piacere. Vediamo il contributo in proposito.

32

Piacer figlio d'affanno;
Gioia vana, ch' è frutto
Del passato timore, onde si scosse
E paventò la morte
Chi la vita aborrìa;
Onde il lungo tormento,
Fredde, tacite, smorte,
Sudar le genti e palpitar, vedendo
Mossi alle nostre offese
Folgori, nembi e vento.
42 O natura cortese,
Son questi i doni tuoi,
Questi i diletti sono
Che tu poi porgi ai mortali. Uscir di pena
è diletto fra noi,
Pene tu spargi a larga mano; il duolo
Spontaneo sorge: e di piacer, quel tanto
Che per mostro e miracolo talvolta
Nasce d'affanno, è gran guadagno. Umana
Prole, cara agli eterni! assai felice
Se respirar ti lice
D'alcun dolor: beata,
Se te d'ogni dolor, morte risana.





FERRONI: In queste stanze de La quiete dopo la tempesta, si fa riferimento ad un tema, che percorre tutta l'opera del Leopardi, il rapporto tra piacere e dolore. E' una riflessione questa che ha alle sue spalle la filosofia settecentesca, dominata in certi aspetti dal sensismo, cioè dal riferimento di tutta la conoscenza e di tutta l'esperienza dell'uomo ai sensi. Nel Settecento, infatti, c'è una vasta meditazione sul rapporto tra la felicità e il piacere, il dolore, l'affanno. Anche un illuminista italiano, come Pietro Verri, aveva scritto delle meditazioni proprio sul piacere e sul dolore. Leopardi approfondisce queste riflessioni. Quindi siamo sul piano del rapporto tra ragione ed emozione, da cui sorge la poesia. Approfondisce queste riflessioni e sottolinea il fatto che qualsiasi atteggiamento umano in fondo è basato sul desiderio e sull'attesa, sull'attesa di qualcosa che viene dopo. Pensate al sabato del villaggio. Il piacere è qualcosa che non riusciamo mai ad afferrare, a vivere fino in fondo, ma lo percepiamo come attesa di un piacere futuro, destinato a deludere, come la festa dopo il sabato, e come sospensione temporanea dell'affanno, del dolore. Quindi, la tempesta rappresenta le forze della natura che si scatenano contro l'uomo e la quiete dopo la tempesta è il simbolo di questo piacere provvisorio, dato dalla sospensione del dolore. In questa strofa, allora, partendo dall'immagine della fine della tempesta, c'è uno svolgimento razionale, una riflessione articolata sulla natura inafferrabile del piacere.

STUDENTESSA: In molti l'esperienza del dolore è celata nell'animo, non viene esternata. Cosa porta invece il poeta a confidare al mondo le sue sofferenze?

FERRONI: I grandi poeti della tradizione sentono qualcosa che in qualche modo li spinge ad esprimere se stessi, ad aprire un colloquio con gli altri, a non far tacere il proprio dolore che può essere del tipo più diverso. Quando parliamo della poesia, può essere interessante distinguere i diversi tipi di dolore, perché per esempio c'è un dolore di tipo fisico, che è l'esperienza più diffusa e più normale, comune al mondo animale, a cui sembra che la poesia abbia dato meno voce. Se noi consideriamo, infatti, la poesia di tutti i tempi, ci accorgiamo che è più profonda, ricca, intensa la riflessione o l'espressione del dolore psichico, di un dolore interno, che nasce dall'anima. Mentre il dolore fisico è più difficilmente definibile, traducibile in parole. Il dolore fisico è qualcosa che si prova, ma che è molto difficile esprimere. In fondo, la grande poesia di tutti i tempi ha espresso di più il dolore psichico. Anche se si è riferita ad un dolore fisico, ha parlato di questo dolore fisico nei suoi effetti sull'anima, sulla psiche. È molto difficile, infatti, parlare della natura cieca del dolore. Ha tentto l'arte moderna nelle sue forme estreme, di tipo espressionistico, tra l'altro una tendenza dell'arte moderna e in particolare, poi, un movimento d'avanguardia, all'inizio di questo secolo, che viene chiamato espressionismo cercava proprio di esprimere le cose estreme, quelle che non si riescono a tradurre in un adeguato, articolato movimento di parole. È interessante comunque vedere come anche la cultura del passato più lontano fa riferimento spesso allo stesso dolore fisico. Poi c'è un'altra distinzione da considerare, quella tra il dolore causato dalla natura, dalle forze esterne, la malattia, la morte, e quello causato dagli uomini con la violenza. Noi tra le varie immagini qui proposte, i vari oggetti, abbiamo suggerito un oggetto abbastanza banale, convenzionale, inflazionato nel cinema e nella cultura moderna, una pistola, perché l'arma è stata, in tutti i tempi, e, purtroppo, lo è ancora oggi, una delle fonti più terribili di dolore. Il dolore prodotto dagli uomini in un certo senso appare più motivato, ma in realtà è ancora più assurdo del dolore naturale, del dolore dato dalla malattia o da altri fenomeni o del dolore dato dal malessere psichico. È un dolore creato dalle armi. Allora questo dolore è stato espresso dalla poesia di tutti i tempi, fin da Omero. Pensate, all'Iliade: non c'è soltanto un'esaltazione della virtù epica, del valore degli eroi, ma c'è una tremenda, lucidissima riflessione sulla lacerazione provocata dalla violenza della guerra. Non a caso il poema termina con la morte, il funerale e le esequie di Ettore. Quindi fin dall'inizio la poesia ha dato espressione alla lacerazione del dolore dato dalla violenza umana.

STUDENTESSA: Mi ha colpito il fatto che Lei abbia detto che il linguaggio di Leopardi, anche trattando del dolore, è estremamente razionale e limpido. Io penso che il Leopardi volesse cercare di razionalizzare il dolore che provava. Però è stato anche detto che Leopardi, come altri poeti, voleva anche comunicare questo suo stato d'animo. A questo punto mi chiedo: cosa prevale in Leopardi?

FERRONI: Ci sono tutte e due le cose perché nella limpidezza del linguaggio di Leopardi c'è sia la spinta a razionalizzare il dolore e tutta la sua situazione, sia a comunicarla all'esterno. Non dimentichiamo che questa chiarezza e limpidità linguistica dell'opera leopardiana si collega alla sua educazione letteraria legata alla tradizione classicistica, che Leopardi considera un elemento di maggiore vicinanza alla natura. Il linguaggio classico, la cultura classica, la letteratura classica indicano per lui la possibilità di dialogare con la natura in maniera molto più intensa di quanto non faccia la cultura e l'arte moderna, contemporanea, romantica, per i suoi tempi. Quindi la limpidità del linguaggio è legata a questo. Però, paradossalmente, insieme a questo classicismo, c'è un atteggiamento che è anche profondamente romantico, in fondo: questa volontà di dare esperessione ai moti più segreti, a "i tristi e i cari moti del cor", questo far piangere la "rimembranza acerba", questo protestare nei confronti della natura per il dolore che crea nell'uomo , questo piangere "per le vite troncate prematurtamente", ecco, tutta una serie di elementi in cui Leopardi rompe gli argini di una mera razionalità. Però, allo stesso tempo,vuole anche razionalizzare, vuole capire, fino in fondo con la luce della ragione, insomma. Non a caso ne La ginestra c'è come epigrafe una frase classica da Il Vangelo di Giovanni: "Gli uomini preferirono le tenebre alla luce" proprio perché, condannando l'irrazionalità contemporanea, Leopardi vuole consocerla tutta, vuole conoscere il male in tutte le sue forme, ma vuole illuminarlo con la luce della ragione. Quindi questo è importante, in fondo, anche per una dimensione comunicativa e sociale perché, se il pessimismo di Leopardi è radicale, se il dolore per lui è un dato insuperabile, una caratteristica insuperabile della vita della natura e dell'uomo, però è importante in qualche modo battersi contro il dolore aggiunto: quello che creano gli uomini con l'ignoranza, con la superstizione, con la violenza, con l'incapacità di riconoscere le ragioni dell'altro. Quindi da un pessimismo come quello di Leopardi non si arriva ad una negatività totale nei confronti dell'esistenza ma si può giungere anche a riconoscere comunque il valore di quelle forme di vita sociale che in qualche modo ci aiutano a mettere argine al dolore. E la poesia in fondo, col piacere che comunque dà, anche quando parla delle cose più tremende e laceranti, contribuisce in qualche - diceva Leopardi - ad aggiungere un piccolo filo alla vitalità, al senso della nostra esistenza, che pure non c'è per Leopardi.

STUDENTESSA: Al dolore, a un dolore molto forte, è legata sicuramente la disperazione. L'uomo può risalire da questo baratro dell'animo e tornare quindi alla tranquillità delle cose? Secondo Lei, questa tranquillità può essere del tutto restaurata?

FERRONI: In genere, se guardiamo all'esperienza poetica, credo di no, perché in fondo la poesia promette anche, in un certo senso, consolazione dal dolore. Uno dei più grandi poeti della tradizione italiana, che Leopardi amava moltissimo, cioè Petrarca, in un suo famoso verso, dice: "Perché cantando il duol si disacerba", perché cantando, appunto, con la poesia il dolore perde la sua acerbità. Però non svanisce, non sparisce insomma. Un senso di impossibilità di conciliazione resta inevitabilmente. E' impossibile essere veramente tranquilli. Questa è la condizione umana. Però la poesia, come tante altre forme culturali, in fondo ci aiutano a superare parzialmente il nostro rapporto anche brutale, immediato, con la violenza della natura. La natura di per sé, - Leopardi insiste tanto su questo - non è un elemento positivo. Contiene, produce assolutamente non tanto il male, quanto l'indifferenza. Esiste una contraddizione radicale, costitutiva, tra l'uomo, la sua cultura, le attese che ha dalla vita e invece la condizione naturale. Da questa contraddizione non si esce, però le forme culturali in qualche modo sono come degli argini per superare parzialmente, per creare una comunità civile, quella che Leopardi chiama "la social catena", che però riesce a sostenersi, a vivere, ad essere tale, solo se è cosciente dei limiti dell'umano. Mentre chi crede che appunto la tranquillità sia possibile totalmente inventa miti che possono essere illusori, ingannatori e possono produrre nuova violenza. Quindi dal dolore non si esce mai totalmente, però abbiamo dei mezzi -e la società andando avanti ne accumula sempre di più - per, così, controllarlo, tenerlo a distanza. E noi, tra l'altro, siamo molto più fortunati, che tutti i nostri antenati fino a pochi decenni fa - perché, tra l'altro, abbiamo gli anestetici; tra gli altri oggetti avevamo presentato, appunto, uno strumento chirurgico proprio per mostrare come ci sia una certa ambiguità nell'uso dei mezzi per uscire dal dolore.Per uscire dal dolore, dalla malattia è stato necessario spesso creare nuovo dolore, tagliare, amputare, intervenire. Ai tempi di Leopardi, se uno aveva una cancrena a una gamba gliela tagliavano senza nessuna anestesia , come successe a tanti personaggi, come per esempio Piero Maroncelli, prigioniero nel castello dello Spielberg insieme a Silvio Pellico che ne parla ne Le mie prigioni. L'esperienza del dolore fisico era totale, lacerante, ma anche l'esperienza per uscire dal dolore e dal pericolo della morte era totale. Ora noi siamo particolarmente fortunati per cui abbiamo perso, tra l'altro, perfino la capacità di sentire certi minimi dolori. Abbiamo paura di tutto. Questo può essere anche pericoloso, però, in effetti, siamo molto più fortunati degli uomini del passato e forse per questo la nostra poesia contemporanea spesso finisce per creare immagini artificiose dello stesso dolore, della stessa violenza, della stessa sofferenza.

STUDENTE: Se non ci fosse stato il Leopardi con il suo pessimismo, sarebbe cambiato qualcosa nel pensiero poetico moderno del dolore?

FERRONI: Naturalmente, soprattutto per l'Italia, per la tradizione italiana: Leopardi è un punto di riferimento ineliminabile. Se noi guardiamo, per esempio, tanti poeti del Novecento, possiamo dire che ci sono solo due grandissimi poeti della tradizione italiana che comunque sono importanti per tutti: Dante e Leopardi. Il pessimismo che percorre la poesia, la letteratura del Novecento è tutto legato ad un dialogo fortissimo con la poesia di Leopardi e anche con la dimensione biografica della sua esistenza. La riflessione sul male di vivere di Montale, per esempio. C'è quel famoso mottetto: "Spesso il male di vivere ho incontrato, / era il rivo strozzato che gorgoglia, / era l'intrecciarsi della foglia riarsa, / era il cavallo stramazzato"…Ecco, è un riferimento: il male di vivere, questo dolore che abita le cose, che abita la natura e che si vede, appunto, in particolari dell'esistenza (l'incartocciarsi della foglia) è un riferimento a quel pensiero leopardiano sul giardino, sulla sofferenza della natura, dei vegetali. Quindi per l'Italia, per il nostro secolo, insomma per la poesia italiana, Leopardi conta moltissimo. Non ci sarebbe la poesia del Novecento senza un dialogo con Leopardi. Purtroppo a livello internazionale, invece, si può dire che la presenza di Leopardi è stata molto ridotta: Leopardi, che pure è stato letto e apprezzato, poco dopo la sua morte, anche da importanti scrittori, come Baudelaire, per esempio, che lo cita, è stato molto letto nel primo Ottocento, fino a metà dell'Ottocento, poi è sparito dalla considerazionee internazionale e un interesse, anche mondiale, per Leopardi, ritorna solo in questi anni, con la scoperta, tra l'altro, del valore del Leopardi filosofo.

STUDENTESSA: È vero che il dolore ci può portare a un'introspezione maggiore, ma può anche portarci a una forma di egoismo e comunque di chiusura nei confronti degli altri?

FERRONI: Certamente. E' chiaro che quando l'esperienza del dolore è talmente estrema che agisce sia sul fisico che sulla psiche, quando il dolore fisico, per esempio, è talmente avanzato che la mente non riesce più a resistere, è chiaro che, inevitabilmente, non colpevolmente ma proprio per una condizione di esistenza inevitabile, ci dobbiamo chiudere nei confrontti del mondo. E anzi, grandi poeti come Leopardi che sono riusciti, nonostante tutta la sofferenza fisica, a mantenere questa capacità di guardare il mondo, di intervenire, di fare polemica, di esprimere se stessi sono casi molto rari La poesia, in fondo, con la sua forza di consolazione, col suo invito al dialogo, allo scambio del dolore con gli altri, mantiene questa possibilità di apertura che forse altre forme della nostra vita associata, della nostra cultura, non garantiscono. Per esempio, la nostra cultura contemporanea - lo sappiamo tutti - è fondata sulla comunicazione, sul contatto continuo, sulla velocità, sullo scambio. L'insieme della nostra cultura, i valori propagandati dalla nostra cultura, sono nemici di qualsiasi esperienza del dolore. Chi sta male non può stare dietro a questo ritmo vorticoso, velocissimo che esiste non solo nel fare le cose del lavoro, le cose quotidiane, ma anche nella cultura, nella comunciazione culturale. La poesia, invece, è una forma che garantisce distanza, lentezza, pausa, insomma arriva forse più direttamente a un contatto col corpo sofferente di quanto non facciano altre forme di comunicazione. E la nostra società, appunto, è una società del benessere continuo che vuole che tutti dobbiamo stare bene e mette sempre più ai margini chi soffre. Le forme culturali adeguate a chi soffre sono sempre più rare, insomma. Credo, invece, che andrebbero approfondite, inventate, anche attraverso gli strumenti dei nuovi mezzi di comunicazione, non certo solo risalendo a mezzi antichi. La poesia, la letteratura, credo, hanno questa grande forza: di riuscire a comunicare con chi soffre, a offrire, garantire una possibilità di scambio, anche sotto il segno di quella che i poeti antichi chiamavano la pietas, non tanto pietà, quanto "pianto comune". Vi ricordate il conte Ugolino, che dopo aver raccontato a Dante tutta la sua vicenda, dice: "E se non piangi, / di che pianger suoli?". Perfino un dannato cerca questo scambio nel pianto dell'altro. Dante - pensiamo all'Inferno, con tutte le macchine di tortura, le varie punizioni che sono messe in atto - compie un tremendo attraversamento del dolore in tutte le sue forme. Vi ricodate pure Francesca, quando risponde a Dante: "Nessun maggior dolore / che ricordarsi del tempo felice nella miseria!".Tutti dialoghi tra personaggi che sono dannati, condannati, che però, in qualche modo, hanno uno scambio possibile col poeta viaggiatore pellegrino attraverso il tema del dolore, la comunicazione della sofferenza.

STUDENTESSA:Perché il dolore ha elaborato maggiore produzione letteraria rispetto al piacere?

FERRONI: Naturalmente anche il piacere ha dato spazio a tanta letteratura. Esiste anche una letteratura della gioia, dell'affermazione, però è chiaro che l'esperienza finale, radicale, inevitabile - qui non si tratta di essere pessimisti o ottimisti - è che purtroppo gli esseri umani sono condannati alla morte, alla fine della vita. Il dolore, inevitabilmente, si impone nel percorso dell'esistenza. E' qualche cosa a cui non si sfugge, a cui non sfugge nessuno. Mentre purtroppo il piacere, spesso, è negato, insomma, è una cosa, per riprendere proprio Leopardi, che è difficile a afferrare. Forse Leopardi è troppo pessimista nella sua visione del piacere. Forse i piaceri si conquistano, anche trionfalmente, ma poi si perdono. Leopardi, invece, ne Il cantico del gallo silvestre dice addirittura che tutte le cose che fanno gli esseri umani sono destinate all'insoddisfazione. Insomma non c'è nessuna impresa, nessuna inziativa , neanche la più eroica, la più splendente, la più trionfale, che dia la soddisfazione. Noi possiamo rispondere che invece l'insoddisfazione c'è a certi livelli, però è chiaro che tutte le imprese umane sono destinate a finire, a svuotarsi nel nulla. Il senso della delusione, del cadere inevitabilmente domina tanta letteratura. Si può dire che la letteratura, spesso anzi la poesia, è un tentativo di mantenere in vita attraverso la parola ciò che inevitabilmente si perde. C'è una maggiore presenza di espressione del dolore, proprio perché alla fine - certo, vista dalla Vostra giovinezza la cosa è per fortuna molto lontana - la vita umana è destinata al declinare, tutte le potenze, le glorie, anche i grandi personaggi potenti dell'umanità, alla fine, arrivano al nulla inevitabilmente. E qui il pessimismo, un pessimismo come quello di Leopardi si ricollega per vie tortuose anche alla tradizione biblica e cristiana dove questo senso della vanità dell'esistere, dell'essere condannati comunque a finire è fortemente presente, risarcito lì e sublimato dall'aspirazione all'aldilà, alla vita eterna dove, per i beati soltanto però, il dolore è cancellato, negato per sempre. Però, per quanto riguarda l'ambito della vita umana, spesso la tradizione cristiana è ancora più pessimistica. Esiste tutta una tradizione sulla vanitas vanitatum, tantissimi scritti. Forse un testo che è importante pure per Leopardi, un testo di un pessimismo radicale, estremo, sulla condizione umana, è il cosidetto libro dell'Ecclesiaste nella Bibbia dove c'è appunto l'immagine della vanità assoluta della vita, del finire di tutte le cose. E' qualcosa con cui comunque bisogna fare i conti, anche se siamo ottimisti e giustamente felici del nostro essere qui in questa nostra primavera.

STUDENTE: Abbiamo trovato su Internet un sito che parla del pessimismo leopardiano. Vediamo come Leopardi riteneva che il dolore fosse dovuto a un allontanarsi dalla natura da parte dell'uomo e a un atto conoscitivo dell'uomo stesso. Io sapevo anche che Leopardi intendeva il dolore come un atto conoscitivo, una concezione, questa, che si rifaceva alla concezione eschilea del dolore, che, ad esempio, in un passo dell'Alcibiade dice: "Conosci soffrendo". Lei cosa ne pensa?

FERRONI: Non bisogna dimenticare che ci sono fasi diverse del pensiero di Leopardi. Quel passo a cui Lei faceva riferimento all'inizio è della prima fase del suo pensiero. Leopardi all'inizio - è una cosa ben nota - crede nel valore positivo della natura, la natura è buona insomma: l'uomo ha creato dolore, male, non solo fisico ma sociale, allontanandosi dalla natura. Però, in un momento successivo, Leopardi cambia posizione: la natura diventa matrigna, nemica, ma anche, nello stesso tempo, sofferente, come dicevamo prima a proposito dei fiori, dei giardini delle piante. In questo nuovo contesto il dolore diventa anche un atto conoscitivo. Ma Leopardi, in fondo, non rivendica il valore conoscitivo del dolore in sé. Anzi polemizza contro coloro - e sono molti nella cultura del tempo - che accusano il suo pessimismo dicendo: "Tu sei così pessimista perché sei malato". Cattiverie estreme venivano dette contro di lui, per esempio da parte di un autore importante ma un po' iena nel comportamento come Nicolò Tommaseo, che faceva commenti "sur gobbo de Recanati". Il pessimismo di Leopardi, quindi, veniva fatto risalire al suo essere malato, alla sua condizione fisica. In realtà Leopardi rivendica invece fortemente il fatto che il suo pessimismo derivasse proprio da una valutazione razionale della complicazione del rapporto dell'uomo con la natura, dei mali che abitano la natura e la società. Noi possiamo dire, in effetti, che in questa prospettiva, Leopardi avesse ragione ma la sua ragione è approfondita e arricchita dal fatto che, tanto più lui vede questi caratteri negativi, contrraddittori della natura e della società, quanto più soffre. Cioè il suo dolore gli dà, in fondo, anche una capacità conoscitiva, non una deformazione della visione, ma un potenziamento paradossale della capacità di vedere. Ma ciò capita solo ai grandi poeti, ai grandi geni, ai grandi personaggi, come Leopardi.








 

 

 

 

 

 

 










Postato il Giovedì, 12 giugno 2008 ore 11:26:02 CEST di Maria Allo
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