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Umanistiche: "LA FINE DEL POSTMODERNO", UNA RACCOLTA DI SAGGI DI ROMANO LUPERINI

Rassegna stampa

La fine del postmoderno di Romano Luperini raccoglie alcuni suoi saggi legati tra
loro dalla riflessione sulla crisi culturale e sociale in atto, sulla latitanza degli
intellettuali e sulla necessità di riaffermare un pensiero critico “forte”.

All’indomani del trionfo a Cannes di Gomorra di Matteo Garrone risuona d'improvviso un termine desueto: neorealismo. Se si usano parole vecchie per fenomeni nuovi, può voler dire che quanto viene presentato come nuovo del tutto non lo è; ma se invece il fenomeno è davvero nuovo, è fuorviante discuterlo con categorie che gli sono estranee. Tra i nostri critici e storici letterari, da tempi non sospetti (del 2005 è un suo libro dal titolo eloquente, La fine del postmoderno) Romano Luperini ragiona sul mutamento in atto. Mutamento delle forme della narrazione, nonché del nostro modo di leggerle. Il nuovo numero della sua rivista Allegoria, il 57 in uscita il mese prossimo, conterrà uno speciale sul «ritorno alla realtà» non solo in chiave letteraria (Raffaele Donnarumma e Gilda Policastro intervistano Mauro Covacich, Marcello Fois, Giuseppe Genna, Nicola Lagioia, Antonio Pascale, Laura Pugno e Vitaliano Trevisan) ma anche cinematografica (Giovanna Taviani dialoga con Guido Chiesa, Francesca Comencini, Saverio Costanzo, Emanuele Crialese, Vincenzo Marra, Francesco Munzi e Massimo Gaudioso, uno degli sceneggiatori di Gomorra). Se c'è una continuità con gli anni Quaranta, insomma, è nella funzione trainante del racconto per immagini.

Lo sguardo di Luperini si focalizza su questo nostro tempo dell’emergenza. Lo studioso delinea con
chiarezza le ragioni del declino culturale in atto, con un’ammissione di responsabilità che chiama in
causa in primis se stesso, vivendo egli con profonda coscienza critica il ruolo di didatta, di formatore,
cioè, delle altrui coscienze, e essendo parte integrante, ma non integrata, del mondo intellettuale oggetto
della sua riflessione. Ma la constatazione della deriva non viene accettata fatalisticamente come
‘naturale’ conseguenza del ‘progresso’ della civiltà. La tensione che muove tutti gli scritti di Luperini mira,
anzi, a un superamento dell’impasse attraverso il riconoscimento del fallimento dell’ideologia
postmoderna e della sua illusione di fondo: che si fosse cioè giunti alla fine della storia, delle grandi
narrazioni, a una società “trasparente” senza più conflitti e nella quale non avessero più spazio e senso
la contraddizione e la dialettica, in cui il linguaggio (noi diremmo più radicalmente il ‘chiacchiericcio’)
potesse sostituirsi, come di fatto è accaduto nell’ultimo trentennio, alla materialità e concretezza della
realtà.
Con l’11 settembre e la catena di devastanti conflitti mondiali che ne è conseguita, la falsa coscienza
postmoderna, “l’ilare nichilismo”, lo sberleffo compiaciuto di tanto pensiero debole sono definitivamente
apparsi nella loro più clamorosa e colposa acquiescenza allo status quo, alla fase, cioè, più criminale e
degenere dell’epoca capitalistica e imperialistica: “quando rischi ogni giorno salendo su un treno della
metropolitana ti è difficile pensare che l’unica realtà è il linguaggio”, scrive l’autore.
Ma benché l’ideologia postmoderna stia perdendo vieppiù persuasività, cionondimeno essa ha lasciato e
continua a lasciare segni profondi e per certi versi irreversibili nella cultura e nella civiltà che l’hanno
partorita. Segni sui quali Luperini si sofferma in più occasioni: la crisi degli intellettuali e il degrado a cui
la critica e la letteratura (e l’arte in genere) sono andati incontro, conseguenze dirette della perdita di
valori condivisi da parte della comunità etica e
sociale e del vuoto che questa assenza ha
spalancato. Ma oggi quel vuoto non può più essere
colmato, e di fatto non lo è più, dalla “morbidezza” e
dal relativismo tanto cari alle filosofie ontologiche e
nichiliste postmoderne; oggi sembra riaffiorare, agli
occhi di Luperini, un pensiero “forte” che torna ad
affrontare la realtà riportando in primo piano “la
contraddizione e la sua ragione storica”. Alcuni
segnali non trascurabili di un nuovo corso possibile
si riscontrano, ad esempio, in certi casi dell’ultima
produzione narrativa; nello spazio e nel peso
culturale progressivamente conquistato dalle culture
“altre” nelle società ‘progredite’ che le ricevono con
più o meno riluttanza; nella ripresa, timida forse, ma
in atto, di un dibattito intellettuale o nella voce dei
movimenti. A cura di M.ALLO

 Riportiamo "Dialogo sul neo-neorealismo" dopo
il trionfo di “Gomorra” a Cannes a cura di A.CORTELLESSA
LUPERINI. «Quella da cui siamo usciti è una concezione autoreferenziale della letteratura. Lo scientismo strutturalista anni Sessanta-Settanta in questo era solidale col postmodernismo Ottanta-Novanta, coi suoi miti della fine della storia, del trionfo dell'immateriale, dell'esclusione del conflitto. Con l'11 settembre e le sue conseguenze, quel modello si mostra sempre più inadeguato. I prossimi trenta o quarant'anni, ci dice l'Onu, saranno un incubo: crisi dell'acqua, regimi autoritari, razzismo, xenofobia. (Noi ci siamo portati avanti col lavoro). Quando ti cadono bombe sulla testa, è difficile dire che non ci sono fatti ma solo interpretazioni! Le nuove tendenze letterarie registrano questo clima. Negli Usa scrittori come Don DeLillo e Philip Roth sono giunti ad affreschi che conciliano la grande tradizione del modernismo con elementi addirittura balzacchiani; e sempre più forte è la letteratura del Terzo Mondo in cui massicce sono le contraddizioni materiali della società. Una tendenza che in Italia arriva col solito ritardo».

CORTELLESSA. «Tempo fa su Repubblica c'è stata una discussione su quella che il collettivo Wu Ming ha definito New Italian Epic: curiosamente a sua volta esemplata su Saviano, ma anche sui romanzi storici di Genna e Scurati e poi, ancora, sulla nutrita produzione di "genere" di Camilleri, Evangelisti, Lucarelli eccetera. Se però qualcosa in comune c'è fra "realismo" ed "epica" è che sono connotati attribuiti alla narrativa soprattutto nel secolo del realismo senza "nei" e dell'epica borghese di Hegel. Tutto questo new non sarà un ritorno al buon vecchio Ottocento? E non sa ancora di postmoderno questo tentativo di aggirare la modernità?».

LUPERINI. «Un semplice restauro di forme desuete sarebbe solo un artificio rassicurante: di quelli che da sempre richiede l'industria culturale. Se parliamo di "ritorno alla realtà" è perché si affacciano nuove realtà che non possono essere rappresentate con strumenti legati a momenti storici così diversi dal nostro. Anche un romanzo come Sirene di Laura Pugno a suo modo è un "ritorno alla realtà": mettendo al servizio di una dimensione allegorica un "genere" come la fantascienza. Libri come Sandokan di Balestrini o gli ultimi di Aldo Nove sono pure esempi utili. Un film come Gomorra, del resto, non ha nulla della carica volontaristicamente ideologica, e della struttura di racconto talora semplificata, di tanto neorealismo».

CORTELLESSA. «Al contrario è dominato da un tratto di stile, la camera a mano, che in passato (penso da ultimo a Von Trier) non era affatto associato a canoni "realistici". Ma anche il neorealismo anni Quaranta, al di là dei risultati, cercava una lingua nuova per una realtà traumaticamente mutata come quella uscita dalla guerra».

LUPERINI. «Nell'introduzione al Sentiero dei nidi di ragno Calvino dice che non c'erano stati formalisti così accaniti come loro "contenutisti". Ogni generazione deve trovare le forme in cui dire la propria realtà: non quella di sessant'anni fa! Altrimenti cade nelle più vuote convenzioni: nell'esatto contrario, cioè, di una ricerca della realtà».

CORTELLESSA. «Credo che l'esigenza storica di cui parli sia avvertita con chiarezza dagli artisti del nostro tempo. Ma negli stessi vedo anche un deficit di consapevolezza teorica. A differenza che negli anni Quaranta: quando magari, rispetto agli esiti, c'era un surplus d'intenzione. Spesso ci si riduce a "effetti di realtà" brutali o, diciamo marxianamente, volgari. Rappresentare il mutamento, al contrario, significa anzitutto trovare nuove forme. Gomorra di Garrone convince soprattutto per la netta soluzione di continuità con la tradizione del realismo nonché con lo stesso libro cui s'ispira».

LUPERINI. «Su Allegoria Raffaele Donnarumma evidenzia non solo il potenziale di novità di questo momento, ma anche i pericoli di un ritorno alla realtà passivo nei confronti dei modelli televisivi e del grande intrattenimento. Quanto all'elaborazione intellettuale, trovo incoraggiante una nuova figura di intellettuale, diversissima dai Calvino e dai Fortini, che erano al centro del sistema culturale. Prendiamo Saviano. La sua è una figura di intellettuale agli antipodi del modello pasoliniano, al quale pure si ispira: è un intellettuale "precario", marginale, che esplora le periferie dal basso, non dalla prospettiva "aerea" dell'urbanista o del sociologo: soffrendo in prima persona le contraddizioni e i conflitti che ai margini si inaspriscono. Edward Said ci ha insegnato che proprio chi si trova ai margini della società, oggi, paradossalmente può fare appello a una dimensione universale: interpretando i margini di ogni società. Gli intellettuali oggi sono davvero relegati in un esilio sociologico e politico; le istanze e i problemi di cui sono portavoce non sono più nemmeno rappresentati in Parlamento. Così però incontrano altre forme di emarginazione: quelle dell'immigrazione che, a dispetto dei parlamenti, sempre più dominerà la scena. L'intellettuale oggi è chiamato alla trasmissione, alla traduzione, al trapianto: al di là di ogni frontiera. È diventato un contrabbandiere, un clandestino».








Postato il Domenica, 01 giugno 2008 ore 18:26:07 CEST di Maria Allo
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