IL MATTO DI CARTA di Vittorino Andreoli Bur Rizzoli. Pagine 436. Euro 10,60 Il motivo che ha spinto Vittorino Andreoli a scrivere questa rassegna della follia in letteratura si scopre nella Presentazione: «non sono più capace di scrivere cartelle cliniche, ma di un paziente faccio ormai sempre un romanzo».Per quanto la si studi, la follia resta una delle esperienze più tragiche e irrisolte della condizione umana. Ma la follia è stata nel corso del tempo anche una delle più potenti suggestioni delle quali gli scrittori si sono impadroniti per mettere in scena l'umano nelle sue forme più estreme e misteriose. Da Svevo a Pirandello, da Stocker a James, da Gadda a Buzzati, passando per Tobino, Berte, Dostoevskij e tanti altri, la letteratura ha costruito un dialogo fertile e continuo con la sofferenza psichica, contribuendo alla sua conoscenza...a cura di Maria Allo
Forse, questo libro ha molta più possibilità di essere capito adesso che non undici anni fa (quando uscì in prima edizione, più breve dell’attuale). Sia perché il sogno di una «psichiatria di strada» si è realizzato, e la disciplina è stabilmente uscita dai manicomi, come dai suoi limiti troppo rigidi, sia perché l’autore ha raggiunto una condizione esistenziale nuova, entrando, dice, nella «categoria dei vecchi», condizione di maturità e saggezza, come si diceva un tempo e sarebbe giusto dire ancora, mentre si tende ad avvicinarla a una «grave malattia della società».(Da Avvenire M.Allo)
Come la contrapposizione fra cartella clinica e romanzo, anche quella fra follia e saggezza diventa così tema conduttore di un libro composito ma coerente. E la parola «matto» ne diventa l’emblema: è un termine che in effetti oggi può essere capito, nella sua feconda ambiguità. Il «matto» è qualcosa di più di un malato di mente, è qualcuno in grado di parlare della vita proprio attraverso il suo uscire dagli schemi, il suo essere uno strano per definizione. Ed è per questo che gli scrittori sono sempre stati molto attratti da queste figure affascinanti e, spesso lontani dalla pratica clinica, hanno inventato dei matti, appunto, «di carta».
Andreoli si diverte, letteralmente, a inventare una sorta di nuova modalità della critica letteraria, e nella prima parte del libro, «La follia nella letteratura italiana del Novecento», ci propone una rassegna di autori che vengono letti con gli strumenti di un lettore paradossalmente non scientifico, che non usa i ferri del mestiere del filologo, o dello storico della letteratura. Questa posizione privilegiata libera Andreoli da qualsiasi complesso di inferiorità, ed è un piacere scoprire in queste pagine angolazioni nuove da cui rileggere opere familiari. Il celebrato D’Annunzio in Forse che sì forse che no, più che un eroe dell’estetismo estremo è l’elegante interprete di un caso clinico di «follia d’amore», che psichiatri come l’italiano Chiarugi e il francese Pinel avevano classificato tra la fine del Settecento e i primi dell’Ottocento. Poi c’è un’opera che con le declinazioni della malattia mentale ha a che fare dichiaratamente, fin dal titolo,
La coscienza di Zeno: è un esempio di come, se la follia viene riconosciuta come parte della cultura, sia molto più facile curarla. Italo Svevo era un antesignano della legge 180, che «riportò la malattia di mente dentro la società» e non lo sapeva. Ma aveva capito benissimo quanto siano labili i confini tra salute e malattia della mente, per tutti noi. Così come altri autori di romanzi celebrati e sempre letti, il Pirandello di Uno, nessuno e centomila e soprattutto il Buzzati de Il deserto dei Tartari
hanno saputo tenersi in bilico su questi confini.
Ma è nella seconda parte, «La follia dentro i grandi classici di ogni tempo», che Andreoli quasi ci induce a sovrapporci a lui nella lettura: mette «sulla sedia dello psichiatra », come fossero pazienti, cinque classici molto diversi. Illuminante l’accostamento finale:
Il giro di vite di Henry James è seguito da Dracula di Bram Stoker e fin qui potremmo non stupirci perché in entrambi i casi si parla di morte che dialoga con la vita, o cerca di succhiarla simbolicamente per renderla eterna, ma poi arriva Noi, i ragazzi dello zoo di Berlino. E qui Andreoli ci svela se stesso, dichiarandosi ancora oggi «scosso» da questo libro. Riusciamo così a intuire la forza culturale delle sue convinzioni, l’onestà quasi utopica del suo desiderio di cambiamento della psichiatria, per una società in cui non sia più necessario distinguere fra isteria e possessione, e scoprirne l’eredità nell’incapacità di dialogo coi genitori, la nuova malattia grave delle giovani generazioni.
Ma in fondo che cos'è la normalità?
Dice Andreoli: " Un portato di questi ultimi anni é la scoperta che la "normalità" non è qualcosa che l’individuo ha dentro di sé, ma è in realtà qualcosa che si pone tra l’individuo e la relazione con gli altri. La "normalità", e così la "follia", non sono più situazioni statiche, stanno nella relazione. L’individuo sa che la sua normalità o la sua follia dipendono anche dal rapporto con gli altri. Attualmente, pertanto, la "normalità" e la "follia" sono oggetto di studi "relazionali". Il comportamento dell’individuo è legato a tre fattori. Il primo è di ordine biologico: è definito dalla genetica, ramo della biologia che studia i codici dell’individuo, l’eredità e la variazione negli organismi viventi. La genetica - si potrebbe dire - è lo studio dei codici che sovrintendono alla prima costruzione del sé. Limitarsi alla genetica per spiegare i fenomeni comportamentali dell’individuo significherebbe fare lo stesso errore del riduzionismo biologico. Il secondo fattore é quello legato alle prime esperienze di vita. Nel periodo che va da zero a tre anni l’essere umano impara determinati comportamenti, come, ad esempio, la timidezza, la poca fiducia, la grande paura. Il terzo fattore è costituito dall’ambiente in cui quel comportamento viene espresso. Ambiente che non é solo quello fisico, ma é soprattutto l’ambiente relazionale. Ecco perché, cambiando ambiente, cambiando relazioni, l’individuo spesso cambia il proprio comportamento. Oggi si assiste al trionfo dell’io e gli altri, non più dell’io."
Vittorino Andreoli, nato a Verona nel 1940, si laurea in Medicina e Chirurgia all'Università di Padova col Prof. Massimo Aloisi e si dedica quindi alla ricerca sperimentale in biologia scegliendo come "organo" l'encefalo. Lavora in Inghilterra all'Università di Cambridge e negli Stati Uniti alla Cornell University di New York. In questo periodo è assistente all'Istituto di Farmacologia dell'Università di Milano, dove si rivolge alla ricerca neuropsicofarmacologica. Il comportamento dell'uomo e la follia diventano ben presto il fulcro dei suoi interessi e ciò determina uno a svolta del suo impegno verso la neurologia e successivamente la psichiatria, discipline di cui diventa specialista. Lavora alla Harvard University col Prof.S.S.Kety, con un'impostazione psichiatrica che sembra permettere l'integrazione tra interessi biologici sperimentali e clinica. Attualmente è Direttore del Dipartimento di Psichiatria di Verona - Soave. E' membro della The New York Academy of Sciences. E' Presidente della Section Committee on Psychopathology of Expression della World Psychiatric Association.