Do you "sing" English?
Quanto influisce una lingua sulla musica? Fa differenza cantare in lingue diverse?
Esiste una lingua più adatta di altre per cantare? Domande a cui l’autrice tenta di dare una risposta, sulla base della sua duplice esperienza di insegnante di inglese e di musica.
Al di là dell'esordio scherzoso, la domanda è di quelle che potrebbero a pieno titolo ispirare saggi e convegni, dissertazioni e dilemmi: in un canto è più importante la musica o il testo? Quanto influisce una lingua sulla musica? Fa differenza cantare in lingue diverse?
Il rapporto tra musica e lingua - o meglio, tra linguaggio musicale e linguaggio verbale - è complesso e dibattuto. L'unità primigenia della "parola che è musica e della musica che nasce dalla parola" fatica a ricomporsi. L'opera d'arte totale, inaugurata dal teatro greco, in cui musica, parola (e azione si ricompattano in un unico gesto artistico e narrativo, dovrà attendere Wagner, nel tardo romanticismo per ripresentarsi, almeno formalmente. Durante questo lungo arco temporale, la storia della musica ha visto l'ago della bilancia pendere, di volta in volta, a favore dell'una o dell'altra.
Modesta e semplice, scarna e nuda come un'abbazia medievale, quasi mortificata dalla Parola (quella con la P maiuscola) nel canto gregoriano, con il solo ruolo di amplificare la preghiera del credente senza essere troppo “seducente”, la musica si prende la rivincita nella superba fioritura dell'intreccio polifonico fiammingo e rinascimentale. Ritorna quindi umile ancella della poesia in scena, agli albori del melodramma moderno per essere nuovamente protagonista indiscussa dell'aperta cantabilità dell'aria e del frizzante virtuosismo della cabaletta.
La musica strumentale, asemantica per definizione, capace di emozionare senza nominare, di raccontare senza definire, arte romantica per eccellenza proprio perché “espressione dell'inesprimibile sentimento umano” parrebbe poter fare a meno della sua ingombrante compagna di viaggio. Ma persino Beethoven, emblema della “non cantabilità” i cui temi, di eccezionale impatto, sono prettamente strumentali, talvolta addirittura simili a borbottii sonori, avverte l'esigenza ineludibile di ricorrere alla parola. Il recitativo strumentale - straordinario ossimoro musicale - degli archi gravi (il cui timbro caldo è sicuramente il più simile alla voce umana) che un maturo Beethoven usa nell'ultima delle sue sinfonie, introduce, novità assoluta in una sinfonia, il coro che può, finalmente, dare parola al suo pensiero, suggellando definitivamente la Nona Sinfonia e l'intera sua opera.
E non c'è bisogno di sapere il tedesco per cogliere l'accorato appello di questo canto, intenso e travolgente. Il testo costituisce, in questa particolare circostanza, quasi un raddoppio del linguaggio musicale sul piano del suo significato profondo: la musica, linguaggio universale, accessibile a tutti, che aggira l'ostacolo della comprensione linguistica, che unisce al di là delle differenze, usa le parole per invitare alla fratellanza e al sostegno reciproco, all'amicizia e alla pace. Non a caso “An die Freude” è stato scelto come inno europeo.
Quale miglior uso del canto, quindi - e come educatori dovremmo tenerlo presente - se non quello di strumento di integrazione. In una società come la nostra il canto rappresenta davvero un momento insostituibile di scambio e di conoscenza, in cui ogni individuo entra realmente in contatto con l'altro, parlando la “propria lingua”, senza rinunciare alla sua unicità: imparando il tuo canto, imparo la tua lingua. La musica, infatti, garantisce una più diretta trasmissione del testo, rendendolo al tempo stesso più allettante.
Nella mia seppur breve carriera di insegnante di inglese mi sono trovata spesso ad iniziare la lezione con un canto o con la registrazione di un brano musicale e sono sempre rimasta colpita dall'entusiasmo con cui i ragazzi accolgono questo genere di proposta didattica. Perché il canto è buon inizio?
Innanzitutto perché il canto è sicuramente più accattivante: la parola è impreziosita dalla musica, il suono non è più soltanto un fonema, la metrica è accentuata e sostenuta dal ritmo musicale. Il canto attrae l'attenzione e costringe ad un ascolto accurato. Inoltre, offre importanti vantaggi per l'apprendimento linguistico: associare il suono da intonare alla relativa sillaba da pronunciare aiuta moltissimo nella memorizzazione, sia della melodia, sia del testo.
Ricordare una poesia (o qualunque altro testo) cantata è perciò più facile che ricordarla per semplice recitazione: due tipi di memoria - quella linguistica e quella musicale - si sostengono a vicenda, compensandosi laddove uno dei due vacillasse. E se è vero che cantare aiuta a memorizzare la lingua, è vero anche che dire delle parole “dentro” una melodia aiuta a intonare più precisamente i suoni. Nella mia esperienza - in questo caso più lunga - di corista e di insegnante di educazione musicale ho potuto costatare quanto sia difficile per chi non conosca la notazione sul pentagramma, imparare una melodia con soli vocalizzi, cioè senza testo. Infatti, sia nel coro sia in classe, la soluzione più efficace è quella di inventare o prendere a prestito le parole da una poesia o da un altro canto per favorire l'apprendimento del motivo musicale, per poi toglierle quando l'intonazione si sia sufficientemente consolidata.
In ultimo, il canto può costituire un valido mezzo propedeutico allo studio di una lingua straniera, o per aiutare bambini con difficoltà fonatorie: scioglilingua, filastrocche, giochi sonori su vocali e consonanti creano un terreno fertilissimo per imparare a parlare divertendosi.
Questo discorso ci porta inevitabilmente a considerare l'aspetto più prettamente sonoro di una lingua. Esiste una lingua più adatta di altre per cantare? Ci sono lingue intrinsecamente più musicali di altre? La risposta sarebbe lunga ed articolata e dovrebbe coinvolgere ambiti di studio assai vasti e diversificati. Ci bastino, qui, soltanto alcune brevi considerazioni.
Ci sono lingue quasi "cantate" in cui, addirittura, la stessa sequenza di fonemi pronunciata con intonazioni diverse assume significati differenti, e lingue in cui ciò che alle nostre orecchie suonerebbe (è proprio il caso di dirlo) come un canto è in realtà una preghiera. Tuttavia, anche nelle lingue in cui il senso è più strettamente legato alle strutture sintattiche, l'aspetto sonoro delle parole può renderle più o meno “adatte” al canto. Rousseau, nel suo Essai sur l'origine des langues distingue le lingue in base alla loro musicalità: le lingue nordiche (francese, inglese, tedesco) più consonantiche e scattanti, più ritmiche ed articolate si rivolgono alla parte razionale dell'uomo mentre le lingue meridionali ed orientali (l'arabo, il persiano e l'italiano), dolci e morbide, parlano al cuore degli uomini.
Senza avventurarmi in riflessioni filosofiche troppo impegnative posso dire che cantare in italiano - e questo giustifica in parte il fatto che l'opera italiana, in italiano, dominò incontrastata la scena del teatro musicale per moltissimo tempo - sia, a livello di produzione del suono e impostazione degli organi fonatori, più facile: la ricchezza di vocali, la loro chiarezza e la loro posizione avanzata nella bocca rende il suono qualitativamente migliore rispetto a lingue come il tedesco, ricco di gruppi consonantici importanti di difficile articolazione nel canto, o come l'inglese le cui vocali sono più indietro, più in fondo alla gola. Queste ultime, per contro, sono sicuramente più adatte a produzioni musicali improntate prevalentemente sul ritmo, scandito efficacemente da consonanti incisive e energiche.
In qualità di insegnante di musica nel momento in cui mi trovo a scegliere un canto da proporre in classe valuto principalmente l'aspetto puramente musicale: l'estensione adatta a voci infantili, gli intervalli presenti, le difficoltà ritmiche, lo stile o il genere. Per quanto riguarda il testo ho potuto leggere nelle risposte dei ragazzi una differente, ma quantitativamente equivalente, motivazione all'apprendimento e all'esecuzione del brano. Amano testi dal contenuto educativo importante da sottolineare con un'interpretazione adeguata, ma al tempo stesso apprezzano molto i "nonsense" puramente ludici, in cui la parola è oggetto di fruizione sonora diretta (come per i poeti futuristi); si sono appassionati a frammenti di canto gregoriano in cui la lingua latina si impone con il suo indiscutibile fascino, come al canto in lingua slava di cui non comprendevano alcuna parola ma che suggeriva mondi lontani ed ammalianti; hanno riscoperto canti tradizionali, attratti dalla varietà delle inflessioni dialettali italiane.
Credo che il messaggio che i ragazzi ci mandano è che non conta come, ma l'importante è parlarsi, giocare insieme e avventurarsi in luoghi sconosciuti... magari cantando.
Barbara Grimod
Quanto influisce una lingua sulla musica? Fa differenza cantare in lingue diverse?
Esiste una lingua più adatta di altre per cantare? Domande a cui l’autrice tenta di dare una risposta, sulla base della sua duplice esperienza di insegnante di inglese e di musica.
Al di là dell'esordio scherzoso, la domanda è di quelle che potrebbero a pieno titolo ispirare saggi e convegni, dissertazioni e dilemmi: in un canto è più importante la musica o il testo? Quanto influisce una lingua sulla musica? Fa differenza cantare in lingue diverse?
Il rapporto tra musica e lingua - o meglio, tra linguaggio musicale e linguaggio verbale - è complesso e dibattuto. L'unità primigenia della "parola che è musica e della musica che nasce dalla parola" fatica a ricomporsi. L'opera d'arte totale, inaugurata dal teatro greco, in cui musica, parola (e azione si ricompattano in un unico gesto artistico e narrativo, dovrà attendere Wagner, nel tardo romanticismo per ripresentarsi, almeno formalmente. Durante questo lungo arco temporale, la storia della musica ha visto l'ago della bilancia pendere, di volta in volta, a favore dell'una o dell'altra.
Modesta e semplice, scarna e nuda come un'abbazia medievale, quasi mortificata dalla Parola (quella con la P maiuscola) nel canto gregoriano, con il solo ruolo di amplificare la preghiera del credente senza essere troppo “seducente”, la musica si prende la rivincita nella superba fioritura dell'intreccio polifonico fiammingo e rinascimentale. Ritorna quindi umile ancella della poesia in scena, agli albori del melodramma moderno per essere nuovamente protagonista indiscussa dell'aperta cantabilità dell'aria e del frizzante virtuosismo della cabaletta.
La musica strumentale, asemantica per definizione, capace di emozionare senza nominare, di raccontare senza definire, arte romantica per eccellenza proprio perché “espressione dell'inesprimibile sentimento umano” parrebbe poter fare a meno della sua ingombrante compagna di viaggio. Ma persino Beethoven, emblema della “non cantabilità” i cui temi, di eccezionale impatto, sono prettamente strumentali, talvolta addirittura simili a borbottii sonori, avverte l'esigenza ineludibile di ricorrere alla parola. Il recitativo strumentale - straordinario ossimoro musicale - degli archi gravi (il cui timbro caldo è sicuramente il più simile alla voce umana) che un maturo Beethoven usa nell'ultima delle sue sinfonie, introduce, novità assoluta in una sinfonia, il coro che può, finalmente, dare parola al suo pensiero, suggellando definitivamente la Nona Sinfonia e l'intera sua opera.
E non c'è bisogno di sapere il tedesco per cogliere l'accorato appello di questo canto, intenso e travolgente. Il testo costituisce, in questa particolare circostanza, quasi un raddoppio del linguaggio musicale sul piano del suo significato profondo: la musica, linguaggio universale, accessibile a tutti, che aggira l'ostacolo della comprensione linguistica, che unisce al di là delle differenze, usa le parole per invitare alla fratellanza e al sostegno reciproco, all'amicizia e alla pace. Non a caso “An die Freude” è stato scelto come inno europeo.
Quale miglior uso del canto, quindi - e come educatori dovremmo tenerlo presente - se non quello di strumento di integrazione. In una società come la nostra il canto rappresenta davvero un momento insostituibile di scambio e di conoscenza, in cui ogni individuo entra realmente in contatto con l'altro, parlando la “propria lingua”, senza rinunciare alla sua unicità: imparando il tuo canto, imparo la tua lingua. La musica, infatti, garantisce una più diretta trasmissione del testo, rendendolo al tempo stesso più allettante.
Nella mia seppur breve carriera di insegnante di inglese mi sono trovata spesso ad iniziare la lezione con un canto o con la registrazione di un brano musicale e sono sempre rimasta colpita dall'entusiasmo con cui i ragazzi accolgono questo genere di proposta didattica. Perché il canto è buon inizio?
Innanzitutto perché il canto è sicuramente più accattivante: la parola è impreziosita dalla musica, il suono non è più soltanto un fonema, la metrica è accentuata e sostenuta dal ritmo musicale. Il canto attrae l'attenzione e costringe ad un ascolto accurato. Inoltre, offre importanti vantaggi per l'apprendimento linguistico: associare il suono da intonare alla relativa sillaba da pronunciare aiuta moltissimo nella memorizzazione, sia della melodia, sia del testo.
Ricordare una poesia (o qualunque altro testo) cantata è perciò più facile che ricordarla per semplice recitazione: due tipi di memoria - quella linguistica e quella musicale - si sostengono a vicenda, compensandosi laddove uno dei due vacillasse. E se è vero che cantare aiuta a memorizzare la lingua, è vero anche che dire delle parole “dentro” una melodia aiuta a intonare più precisamente i suoni. Nella mia esperienza - in questo caso più lunga - di corista e di insegnante di educazione musicale ho potuto costatare quanto sia difficile per chi non conosca la notazione sul pentagramma, imparare una melodia con soli vocalizzi, cioè senza testo. Infatti, sia nel coro sia in classe, la soluzione più efficace è quella di inventare o prendere a prestito le parole da una poesia o da un altro canto per favorire l'apprendimento del motivo musicale, per poi toglierle quando l'intonazione si sia sufficientemente consolidata.
In ultimo, il canto può costituire un valido mezzo propedeutico allo studio di una lingua straniera, o per aiutare bambini con difficoltà fonatorie: scioglilingua, filastrocche, giochi sonori su vocali e consonanti creano un terreno fertilissimo per imparare a parlare divertendosi.
Questo discorso ci porta inevitabilmente a considerare l'aspetto più prettamente sonoro di una lingua. Esiste una lingua più adatta di altre per cantare? Ci sono lingue intrinsecamente più musicali di altre? La risposta sarebbe lunga ed articolata e dovrebbe coinvolgere ambiti di studio assai vasti e diversificati. Ci bastino, qui, soltanto alcune brevi considerazioni.
Ci sono lingue quasi "cantate" in cui, addirittura, la stessa sequenza di fonemi pronunciata con intonazioni diverse assume significati differenti, e lingue in cui ciò che alle nostre orecchie suonerebbe (è proprio il caso di dirlo) come un canto è in realtà una preghiera. Tuttavia, anche nelle lingue in cui il senso è più strettamente legato alle strutture sintattiche, l'aspetto sonoro delle parole può renderle più o meno “adatte” al canto. Rousseau, nel suo Essai sur l'origine des langues distingue le lingue in base alla loro musicalità: le lingue nordiche (francese, inglese, tedesco) più consonantiche e scattanti, più ritmiche ed articolate si rivolgono alla parte razionale dell'uomo mentre le lingue meridionali ed orientali (l'arabo, il persiano e l'italiano), dolci e morbide, parlano al cuore degli uomini.
Senza avventurarmi in riflessioni filosofiche troppo impegnative posso dire che cantare in italiano - e questo giustifica in parte il fatto che l'opera italiana, in italiano, dominò incontrastata la scena del teatro musicale per moltissimo tempo - sia, a livello di produzione del suono e impostazione degli organi fonatori, più facile: la ricchezza di vocali, la loro chiarezza e la loro posizione avanzata nella bocca rende il suono qualitativamente migliore rispetto a lingue come il tedesco, ricco di gruppi consonantici importanti di difficile articolazione nel canto, o come l'inglese le cui vocali sono più indietro, più in fondo alla gola. Queste ultime, per contro, sono sicuramente più adatte a produzioni musicali improntate prevalentemente sul ritmo, scandito efficacemente da consonanti incisive e energiche.
In qualità di insegnante di musica nel momento in cui mi trovo a scegliere un canto da proporre in classe valuto principalmente l'aspetto puramente musicale: l'estensione adatta a voci infantili, gli intervalli presenti, le difficoltà ritmiche, lo stile o il genere. Per quanto riguarda il testo ho potuto leggere nelle risposte dei ragazzi una differente, ma quantitativamente equivalente, motivazione all'apprendimento e all'esecuzione del brano. Amano testi dal contenuto educativo importante da sottolineare con un'interpretazione adeguata, ma al tempo stesso apprezzano molto i "nonsense" puramente ludici, in cui la parola è oggetto di fruizione sonora diretta (come per i poeti futuristi); si sono appassionati a frammenti di canto gregoriano in cui la lingua latina si impone con il suo indiscutibile fascino, come al canto in lingua slava di cui non comprendevano alcuna parola ma che suggeriva mondi lontani ed ammalianti; hanno riscoperto canti tradizionali, attratti dalla varietà delle inflessioni dialettali italiane.
Credo che il messaggio che i ragazzi ci mandano è che non conta come, ma l'importante è parlarsi, giocare insieme e avventurarsi in luoghi sconosciuti... magari cantando.
Barbara Grimod