"Al dio sconosciuto" è la terza opera di John Steinbeck e certamente non tra le più note, ma ciò che mi ha colpito è proprio per il tema trattato: una specie di panteismo naturale che mette il naso nelle forze della Natura senza voler dare spiegazioni, lasciando un grande punto di domanda alla fine, senza velleità filosofiche o religiose.Malgrado i premi, le traduzioni cinematografiche e teatrali, si può dire che John Steinbeck abbia avuto più successo all'estero che in patria. In Italia, ad esempio, i suoi libri furono tradotti da scrittori come Pavese, Vittorini e Montale
La causa forse è da ricercare nel fatto che, pur essendo contemporaneo di Hemingway e Scott Fitzgerald, non rappresenta il volto classico della "generazione perduta" ma, piuttosto, quello dell’America del Sud con le sue contraddizioni, il suo passato razzista, la sua voglia di riscatto e questo i suoi libri, come quelli di William Faulkner, ripropongono sempre.(Da Planando M.Allo)
Solo "Ma chi siamo in realtà?" e "Dove stiamo vivendo?"
Anche se non troveremo le risposte, son domande che val la pena di porsi, se non altro per ridimensionarci un pochino, per prender coscienza del nostro essere insettini che corrono e si dimenano (e fanno danni) sulla superficie della Terra.
Il romanzo ruota attorno al rapporto tra il protagonista Joseph, la Terra e tutto ciò che di impalpabile e di illogico compenetra, modifica e comanda il mondo fisico. Terra intesa come la Grande Madre, colei tutto dà e tutto prende, colei che i suoi figli nutre e uccide.
L’impalpabile e l’illogico è forse racchiuso nell’idea del "dio sconosciuto" che rende la terra feconda, corre nel vento ammassando le nubi, concede l’abbondanza per poi ridurla in carestia e vuole il suo altare bagnato di sangue.
Joseph è legato a queste forze, se le sente scorrere dentro e le percepisce nell’aria.
E’ un dono, una pazzia o una maledizione?
E l’interpretazione dei segni e delle sensazioni è ardua, come se il dio non volesse mai svelare il suo vero volto.
Di quel dio ne troverà l’altare, in una radura al centro di una pineta fitta come una barriera impenetrabile, resa silenziosa e ovattata da un tappeto di aghi soffici che assorbono ogni rumore portando il luogo al di fuori dal tempo: è una roccia coperta di muschio, talmente grande da essere assurda …. Alla base della roccia una piccola grotta contornata da felci e dalla grotta un ruscello: la sacralità è quasi palpabile, come lo è la potenza e la bontà ….. Ma cos’è la bontà in un dio senza tempo?
"Sono vecchio. Se aspetti due anni potrò venire con te, librandomi sopra il tuo capo potrò aiutarti. "
Non bastano le parole del padre a frenare il suo bisogno impellente di possedere un appezzamento di terra è pressante. E lo cercherà come un assetato, finchè arriverà nel favoleggiato West, territorio vergine, in fondo da poco strappato agli indiani, e, nella valle di Nuestra Seniora, finalmente, davanti alle gialle distese di avena, ad un fiume ricco e quieto che scorre portando vita alla Terra, ad un’antica quercia capirà di essere giunto alla meta.
Il padre è già lì ad aspettarlo, nella quercia. In spirito finche è in vita, realmente dopo la morte: forse sono i fantasmi la realtà, e i viventi solo sfocate ombre di quella realtà troppo complessa per venir racchiusa nella materia.
Dopo la morte del padre anche i fratelli lo raggiungono con le famiglie, la loro terra, senza steccati nè divisioni, costituirà una vasta tenuta nella quale tutto è di tutti ed il patriarca indiscusso quanto non dichiarato è Joseph. Egli non è il primogenito ma il suo dono ed il suo carisma bastano a decretarlo tale.
D’altronde chi altro potrebbe addossarsi questo fardello?
Thomas che vive in simbiosi con il mondo animale e che solo con gli animali riesce ad avere un rapporto paritario quanto profondo? Burton, cieco prigioniero della religione? Benjy, il più giovane, talmente vano da non poter essere neppure malvagio?
Il rapporto di Joseph con la Terra......
"E’ mia, mia fino al suo centro."
........ e con gli animali che alleva è talmente forte, carnale da supplire anche alla mancanza di un rapporto fisico con una donna, ma, visto che il principale comandamento è fertilità, egli per primo sente di dover obbedire ed essere fertile. Troverà la sua compagna in Elisabeth, una giovane maestra che vede nei suoi occhi quelli del Cristo: profondi, pietosi, pieni di saggezza e cose non dette. Lo seguirà nella valle, lasciandosi alle spalle i suoi sogni di bambina, saltando, non senza paura, in quella vita nuova con quell’uomo sconosciuto.
Neppure in chiesa, durante il suo matrimonio, neppure nelle parole del prete né nell’atmosfera comunque sacra di quel momento, Joseph riuscirà a captare un dio diverso da quello che gli impone il suo essere, anzi tutto in quel luogo gli parrà estraneo, addirittura corrotto. Il dio tornerà a parlargli a cerimonia finita, nel suono delle campane. La buona voce del ferro gli ricorderà i raggi del sole che al mattino percuotono il cielo e la pioggia che irrora il ventre gravido della terra, il vento caldo che sfiora le cime degli alberi: solo nella Natura egli riconosce il sacro.
Solo Rama, moglie di Thomas, ne intuisce l’anima. Rama la forte, la giusta, colei che, come la Grande Madre, elargisce gioie immense ai buoni e punizioni terribili agli ingiusti, che cercherà di far capire ad Elisabeth chi in realtà sia Joseph. Lei sa, perché vede al di là dell’apparenza e capisce al di là della ragione ed ha visto in quell’uomo dagli occhi del Cristo il ricettacolo di tutte le anime umane, il simbolo dell’anima stessa della terra. E’ più forte della morte, più grande delle montagne: è tutti gli uomini in uno solo. Ciò che tace, Rama, è la terribile solitudine alla quale egli è condannato. Nessuno potrà mai vedere nel profondo di quel cuore poiché nessuno di quella vista potrebbe sopportarne il peso.
Ovviamente sarà Joseph a far nascere suo figlio, perché così deve essere e dopo pochi giorni lo poserà tra i rami più bassi della quercia in una consacrazione pagana alle forze che regolano quei luoghi. Ma l’albero verrà ucciso da Burton, integralista di Dio, nel tentativo di distruggere con quel gesto tutto ciò che il suo dio condanna.
Fu la morte dell’albero, simbolo di vita, e l’oltraggio al dio a portare la siccità che spaccò il terreno e prosciugò i pozzi?
Cosa placherà il dio sconosciuto? Quale sangue pretenderà? Alla fine anche Joseph dovrà sacrificarsi, in un antico rito, per render nuovamente feconda la terra? O sarà il dio a sacrificarsi per diventare vento e nubi e pioggia, perché Joseph altri non è che il dio?
John Steinbeck nasce a Salinas, una cittadina rurale della California, il 27 febbraio 1902. Di famiglia agiata per il luogo (padre tesoriere della contea di Monterey, madre insegnante), John ha un'infanzia serena durante la quale sviluppa un legame molto forte con quella terra.
Decide molto presto quale sarebbe stata la sua strada ed è ancora un adolescente timido e schivo quando inizia a scrivere racconti e poesie.
Dal 1919 al 1925 frequenta i corsi di letteratura inglese e scrittura creativa presso la Stanford University, poi interrompe gli studi per iniziare quel migrare di luogo in luogo, mantenendosi con lavori occasionali, che influenzerà fortemente la sua vita di scrittore: fa il pescatore sulle rive della Monterey Bay, sterratore al Medison Square Garden, bracciante in Oklahoma ... ed il giornalista a New York già nel '26 per il New York American ... L'anno successivo ritorna in California e trova un impiego di custode di una residenza estiva sul lago Tahoe: è qui che inizia a scrivere in modo continuativo e proficuo e, nel 1928, pubblica il suo primo romanzo, "Cup of Gold", appena due mesi prima del crollo di Wall Street che squasserà l'economia americana: il libro passa sotto silenzio sia per quanto riguarda le vendite, che la critica.
Si sposta nel 1930 e si trasferisce a Pacific Grove, dove continua a vivere in modo precario e, questa volta, grazie all'aiuto economico della sua famiglia d'origine; d'altra parte questo gli permette di continuar a scrivere e, nel '35, pubblica il libro che l'avrebbe fatto conoscere al grande pubblico ed alla critica: Pian della Tortilla. Nell’ottobre del '36 pubblica "In Dubious Battle" e, subito dopo, scrive una serie di articoli (raccolti successivamente sotto il titolo di "The Harvest Gipsy") per il San Francisco News. E' del '37 "Uomini e topi", del quale cura anche la riduzione teatrale, che si rivela un altro successo. Due anni dopo "Furore", con il quale si aggiudica il premio Pulitzer e dal quale, l'anno successivo, viene tratto l'omonimo film per la regia di John Ford. La sua attenzione e sensibilità per i più poveri, per coloro che giorno per giorno cavano a stento un tozzo di pane continua con un documentario, girato nel '40, sulle condizioni di vita della società rurale messicana ("The forgotten Village")
Siamo all'inizio della Seconda Guerra Mondiale e John Steinbeck è corrispondente di guerra per il "New York Herald Tribune" in Europa e in Africa: da questa esperienza nasce, nel '42,"La luna è tramontata", romanzo che si ispira alla Resistenza norvegese e che diventerà anche un dramma di notevole successo, ed un diario di guerra dal titolo "Once there was a War" che verrà dato alle stampe solo nel '58.
Rientrato in America, Steinbeck alterna la scrittura a lunghi viaggi in tutto il mondo (Italia compresa) che gli forniscono materiale nuovo, nuove esperienze e la possibilità di scrivere anche dei reportage e libri di viaggio, tra i quali "Travels with Charlie: in Search of America", del 1962. Continua a scrivere per il "New York Herald Tribune" e, proprio per questo quotidiano, va in Russia assieme al fotografo Robert Capa.
Ma i successi letterari, in questo periodo, stentano ad arrivare: "Vicolo Cannery " e "Quel fantastico giovedì " vengono trattati piuttosto freddamente dalla critica che li considerano una specie di brutta copia di "Pian della Tortilla". La rivincita di Steinbeck arriva nel '52 con "La valle dell'Eden" (portata nel '55 nelle sale cinematografiche con la regia di Elia Kazan e con James Dean come interprete principale). Dello stesso anno la sceneggiatura di "Viva Zapata" con Marlon Brando e sempre Elia Kazan come regista.
Proprio nel 1962 gli viene viene conferito il premio Nobel per la letteratura
Muore il 20 dicembre del 1968 e viene sepolto nella sua Salinas, nel Garden of Memories.
Ma ecco le risposte di Umberto Galimberti Al Dio sconosciuto
"Vieni mio diletto, usciamo alla campagna, pernottiamo nei villaggi: di buon mattino andremo nei vigneti, vedremo se gemma la vite, se sbocciano i fiori, se fioriscono i melograni: là ti darò i miei amori" Cantico dei Cantici, 7-11-13
Sono un impiegato, un allenatore ed uno scrittore a tempo perso. Negli ultimi anni ho affrontato seriamente il problema della mia ignoranza personale ed ho letto molti saggi di fisica e filosofia, oltre a numerosi romanzi di grandi autori che in passato avevo letteralmente ignorato. Sono riuscito a digerire quasi tutto, portandolo, a volte con successo, tra le righe dei miei scritti e sulle labbra dei miei personaggi. Ciò che non riesco ancora a digerire completamente è invece Dio. Ho scritto anche su questo argomento, cercando di articolare i miei pensieri sul nodoso problema, ma ogni volta non sono riuscito nei miei propositi. Solo ultimamente "temo" di intravedere un po' di luce in fondo al mio buio spirituale, ma penso tuttavia che si tratti ancora di meri riflessi e non di Dio. Le invio i dieci comandamenti che mi sento di seguire e di proporre: 1 Dubitate di ogni religione e di chiunque si professi infallibile; 2 Credete in voi stessi ed in un Dio personale incomprensibile ad altri; 3 Non tollerate l'intolleranza; 4 Dedicatevi ai vostri genitori anche se non ve lo chiedono. Regalate ai nonni la gioia dei nipoti, per offrire al fardello del loro passato un altro orizzonte, ed equilibrio alla vostra famiglia; 5 Amate soprattutto chi vi ama; 6 Non uccidete chi non vi minaccia di morte; 7 Fate sesso solo con chi vi piace; 8 Non indebitatevi per non dover rubare; 9 La verità è sempre relativa; 10 Desiderate senza timore. In conclusione, credo e sento di dover identificare Dio con l'amore, che è intimo come tutto quello in cui si crede ciecamente e basta sorridere per dargli eco, basta uno sguardo per urlarlo, basta una scusa per ferirlo, non basta mai per essere sazi. L'amore è ovunque, proprio come Dio, anche se molti vogliono venderlo sottovuoto, tra una predica e una pubblicità: ma resta di tutti e di ciascuno a modo suo. Roberto Viscuso - Roma Se la ragione è un sistema di regole che gli uomini si sono dati per poter convivere, la religione custodisce quello sfondo pre-razionale che gli uomini abitano più profondamente e più intimamente di quanto non si adattino alla convenzione razionale. Per questo occorre lasciar cadere la grossolana distinzione che separa i credenti dai non credenti. Gli uni e gli altri abitano infatti quelle metafore di base che la religione, prima della filosofia e prima della scienza, ha indicato, segnalando la separazione tra sacro e profano, tra spazio dell'uomo e spazio trascendente l'umano, tra tempo della vita e tempo che precede e oltrepassa la vita. A differenza dell'animale, infatti, l'uomo sa di dover morire. Questa consapevolezza lo obbliga al pensiero dell'ulteriorità, che resta tale comunque la si pensi abitata: da Dio o dal Nulla. Ciò fa del futuro l'incognita dell'uomo e la traccia nascosta della sua angoscia segreta. Non ci si angoscia per "questo" o per "quello", ma per il Nulla che ci precede e che ci attende. Ed essendoci il Nulla all'ingresso e all'uscita della nostra vita, insopprimibile sorge la domanda che chiede il senso del nostro esistere: un esistere per Nulla o per Dio? Ma qui siamo già nel repertorio delle risposte, delle argomentazioni, delle conversioni, delle disperazioni. Io vorrei trovare l'essenza della religione prima di queste domande e risposte, vorrei trovarla là dove si dà il terreno da cui è possibile sentire e pensare. Filosofia e scienza sono edifici concettuali, ma è possibile edificare concettualmente solo se un terreno di metafore e di simboli ci ospita. Questo terreno è scavato dalla religione, che segnala che cos'è l'alto e cosa il basso, la destra e la sinistra. Convoca il cielo e la terra, dispone a destra il bene, a sinistra il male. Prevede che la disperazione dell'uomo, che tende il suo urlo anche sommesso al di là dell'esistenza, abbia un ascolto. E chiama questo ascolto Dio, "ignoto Tu" che supplisce l'indifferenza della terra e delle macchinazioni che si compiono sulla terra. Forse per questo la metafora di Dio è sempre stata coniugata con la metafora dell'amore. E questo non nel senso consolatorio di un Dio che ama gli uomini e di uomini che amano Dio, ma nel senso che senza un raggio di trascendenza, di cui Dio è la metafora, Amore perde la sua forza e la sua capacità di leggere il mondo. Si tratta infatti di un enigma dove Amore vede in Dio il suo raggio di trascendenza e Dio vede in Amore la sua natura, altrimenti a lui stesso ignota. L'intreccio che qui si crea non ospita sentimentalismi e neppure slanci mistici, ma solo quell'indecifrabile nesso tra Amore e Dio, che non è un privilegio né dei virtuosi, né dei saggi, ma, come scrive Christos Yannaras, forse il maggior teologo greco-ortodosso del nostro secolo: "È offerto a tutti , con pari possibilità. Ed è la sola pregustazione del Regno, il solo reale superamento della morte. Perché solo se esci dal tuo Io, sia pure per gli occhi belli di una zingara, sai cosa domandi a Dio e perché corri dietro a lui". Resta da capire se il cristianesimo ha ancora un anelito di trascendenza o non sia divenuto semplice evento mondano, capace di parlare di morale sessuale, di contraccezione, di aborto, di divorzio, di scuola pubblica e privata, ma incapace ormai di parlare di Dio.