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Umanistiche: IL SIMBOLO DELLA DIFESA DEI DIRITTI CIVILI? ANTONIO TABUCCHI

Rassegna stampa

Sostiene Tabucchi di essere diventato scrittore per caso, dunque, per un incidente della sorte, come quelli di cui sono fitte le sue storie.  Al ritorno da uno di questi viaggi a Parigi, trova su una bancarella nei pressi della Gare de Lyon, firmato con il nome di Alvaro de Campos, uno degli eteronimi del poeta portoghese Fernando Pessoa (1888-1935) il poema Tabacaria, nella traduzione francese di Pierre Hourcade. Dalle pagine di questo libercolo ricava l'intuizione di quello che sarà per più vent'anni l’interesse principale della sua vita.  

 Paolo Mauri scrisse una volta che, leggendo Tabucchi, gli capitò di immaginare «un sottofondo musicale di violoncello, un accordo profondo e struggente ripetuto infinite volte». L'immagine è molto bella, e pare di sentirla davvero una melodia nostalgica e serpentina, anche leggendo queste lettere d'amore perdute: «e per addormentarmi penso che ti scriverei che non sapevo che il tempo non aspetta, davvero non lo sapevo, non si pensa mai che il tempo è fatto di gocce, e basta una goccia in più perché il liquido si sparga per terra e si allarghi a macchia e si perda».

E oggi - ha spiegato in un'intervista - non è sicuro di avere fatto la scelta giusta (quella, s'intende, di indossare i panni dello "scrittore che pubblica"), ma è convinto che questi dubbi gli facciano bene, «perché mi forniscono la sufficiente autoironia e il senso critico necessario per non prendermi del tutto sul serio come scrittore». Per mantenere un certo distacco dall'inchiostro e dalle storie dei suoi libri, Tabucchi lavora come professore di letteratura portoghese all'Università di Siena. Sorvolando sul Tabucchi studioso sarebbe difficile capire molte cose: a cominciare dalle ragioni di quell'attrazione "epidermica", come egli stesso la definisce, per la Penisola Iberica.  Di qui l'inizio di un innamoramento per la poesia di Pessoa, per il suo universo, per i personaggi che ne fanno parte, come Alvaro de Campos, Ricardo Reis o Bernardo Soares, animatori di una specie di teatro in cui manca il copione. Ecco il Portogallo, dunque, le cui atmosfere avvolgono spesso i racconti di Tabucchi. Si pensi a Requiem (1991), scritto in lingua portoghese e successivamente tradotto in italiano da Sergio Vecchio. Una storia che si svolge una domenica di luglio in una Lisbona deserta e torrida, un viaggio allucinato in cui si incontrano personaggi strampalati e fantasmi. «Pensai: quel tizio non arriva più. E poi pensai: mica posso chiamarlo 'tizio', è un grande poeta, forse il più grande del ventesimo secolo», cioè Pessoa, con cui l'uomo che dice io si ritrova a tavola. Requiem è un libro in cui si mangia molto: minestre di fagioli, dolcetti a base di uova e mandorle, pancotto, riso cucinato con rana pescatrice, pomodoro e aglio, stufato di carne e interiora di agnello aromatizzati all'aceto. Il tema del cibo torna più volte nelle pagine di Tabucchi.(a cura di M.allo)

 


"Il poeta è un fingitore / finge così completamente / che arriva a fingere che è dolore / il dolore che davvero sente".
 
A Lisbona, nel Monastero dei Jeronimos, c’è una stele infissa sul terreno: qui, insieme a tre dei suoi eteronimi - Alberto Caeiro, Ricardo Reis, Alvaro de Campos - dorme Fernando Pessoa insieme agli "altri nomi", le persone fittizie cui egli diede vita perché potessero rappresentare, in frammenti, la sua personalità complessa e inquieta, il peso intollerabile del proprio io. "Ho messo in Caeiro tutta la mia forza di personalizzazione drammatica, ho messo in Ricardo Reis tutta la mia disciplina mentale, vestita della musica che le è propria, ho messo in de Campos tutta l’emozione che non ho dato né a me né alla mia vita", dirà infatti, confessando il proprio io diviso ma pregno di immaginazione, dimora di sogni , di visioni e di finzione "vera".

Di recente ripubblicato dal Corriere della Sera, il volume "Poesie" contiene i versi di Fernando Pessoa ortonimo, "Messaggi", e quelli degli eteronimi maggiori (Bernardo Soares, autore del Libro dell’Inquietudine è considerato da critici e studiosi, tra cui Luciana Stegagno Picchio e Antonio Tabucchi, un semi-eteronimo); fortemente evocativi, arcani e metafisici ("Gli spigoli mi fissano. / Realmente sorridono le pareti levigate"), sono " Messaggi", che attingono al mondo dell’infanzia, al mito d’un mondo non perduto perché non avuto, alla solitudine d’un bambino orfano di padre, che a soli sette anni inventò per sé un amico immaginario a cui scrivere. Dal contrasto tra vita e sogno (..."vedere le forme invisibili / della distanza imprecisa e, con sensibili / movimenti della speranza e della volontà, / cercare sulla linea fredda dell’orizzonte / l’albero, la spiaggia, il fiore, l’uccello, la fonte - / i baci meritati della Verità".), nasce quel desiderio di assoluto e di universo che lo rende estraneo al mondo e alla sua Lisbona, città nella quale, ritornato adolescente dal Sudafrica in cui aveva vissuto con la madre e il patrigno, apprenderà la tristezza "delle cose reali".

La sua opera letteraria e la sua stessa vita partecipano a quel progetto di "radicalizzazione" di un’esistenza "estranea", intravista e "sentita" con dolorosa alienazione ma fatta piena della multipla alterità conclamatasi nel "giorno trionfale" in cui nascono gli eteronimi. E’ l’otto marzo del 1914, Pessoa è preso da una furia improvvisa, sente molte voci dentro sé, qualcosa che ha a che fare con l’interiorità e i fenomeni mistici. Empaticamente scrive di getto, si lascia guidare dall’atto creativo che queste entità gli comandano. L’abitatore di altri da sé, di un "baule pieno di gente"rinuncia ad abitare la propria vita mentre gli eteronimi sviluppano la propria, parallelamente alla sua, e tra di loro: Alvaro de Campos, Ricardo Reis, Alberto Caeiro (il maestro di tutti gli eteronimi, il cui numero aumenterà negli anni), sono le "persone" dietro le quali si scherma Pessoa (cognome che in italiano si traduce, appunto, in "persona").

Se essere persona indivisibile è il cruccio del poeta, vivere in altre individualità in qualche modo lo pone al riparo dei rischi della vita. Del resto, la finzione necessaria riguarda anche il letterato: Il panico dell’esistenza è così distribuito in ciascun eteronimo, ognuno ha una storia personale, una professione, un proprio stile letterario, è senza famiglia, senza un amore, come la matrice che li ha concepiti: "Mi sono moltiplicato per non sentirmi, per sentirmi ho dovuto sentire tutto, sono straripato, non ho fatto altro che traboccarmi..."; " Non so chi sono, che anima ho. Quando parlo con sincerità non so con quale sincerità parlo. Sono variamente altro da un io che non so se esiste (o se è quello degli altri)"; "Mi sento multiplo. Sono come una stanza dagli innumerevoli specchi fantastici che distorcono in riflessi falsi un’unica anteriore realtà che non è in nessuno ed è in tutti"(da: Una sola moltitudine). Confessa che l’origine mentale degli eteronimi "sta nella mia tendenza organica e costante alla spersonalizzazione e alla simulazione" con cui esprime il sentimento panico dell’io: "Piove. E’ silenzio / poiché la stessa pioggia fa rumore, ma con tranquillità. / Piove. Il cielo dorme. Quando l’anima è vedova / di quel che non sa (....) // Piove. Non viene voglia di nulla. // Non alita vento, non v’è cielo ch’io senta. / Piove lontano e indistintamente, / come una cosa certa che a noi menta, / (...) / Piove. Nulla in me sente....".

Oppure: " Ma sempre estraneo, sempre penetrando / la più riposta essenza della mia vita, / l’ombra dentro di me vado cercando", a ripetere un antico sortilegio, un’alchimia di cui si vorrebbe conoscere la formula : " Mi torni la mia ultima magia / di me nel simulacro in corpo vivo! / Muoia chi sono; chi mi feci ed ero, /anonima presenza che si bacia, / carne d’astratto amore mio recluso, / sia la morte di me dove rivivo...".(da: L’ultimo sortilegio). Non meno complessi i "Poemi completi" di Alberto Caeiro da Silva, poeta panteista. Ne "Il guardiano di greggi"( "Il gregge è i miei pensieri ", dice il secondo verso), Pessoa è in trasparenza ma, ossimoricamente, in trasparenza evidente, quando Caeiro scrive: "Andate, andate via da me! / Passa l’albero e rimane disperso per la Natura. / Appassisce il fiore e la sua polvere dura sempre. / Scorre il fiume e sfocia nel mare e la sua acqua è / sempre quella che è stata sua. // Passo e resto, come l’Universo". Ancora l’ossimoro della "finzione vera", qui dato per "verità falsa"che solo l’atto di alzarsi, elevarsi, può rivelare:" Quando si è alzato dal declivio e dalla verità falsa, ha / visto tutto: / le grandi valli piene degli stessi verdi di sempre, / le grandi montagne lontano, / più reali di qualunque / sentimento, / la realtà tutta, con il cielo e l’aria".

Un ecclesiaste bucolico del primo Novecento: così Ricardo Reis nelle sue "Odi"; un vento mistico ne pervade i versi, vento che appartiene alla vanità del mondo, al suono del tempo. Di impianto classico, a partire dal titolo, i versi di Reis echeggiano il poeta Orazio: "...la natura di questo giorno calmo / poco rapisce al mio senso / del tempo che dilegua", oppure " E il nome inutile / che il tuo corpo morto / ha usato / vivo, sulla terra, come un’anima, / non si rammenta. L’ode un sorriso / anonimo registra".

E ancora: "Sugli alti rami d’alberi frondosi / il vento fa un rumore freddo e alto / In questa selva perso, in questo suono, / medito solitario. // Così nel mondo, in cima a quel che sento, / un vento fa la vita, e lascia, e prende, / e nulla ha senso - neppure l’anima /con cui da solo penso". Ma con Alvaro de Campos, alto, elegante ingegnere metafisico, torna prepotente il motivo della nostalgia dell’infanzia, non un ritorno della memoria a un tempo più o meno fittizio, piuttosto alla immemorabilità di questo, poiché l’infanzia "è anteriore allo stadio in cui si organizzano i ricordi razionali " (da: A. Tabucchi. Un baule pieno di gente). Le "Poesie" di de Campos sono colme di stanchezza e nostalgia. Con le parole di lui Pessoa scrive, nel 1926, "Lisbona rivisitata", poemetto del quale si riportano alcuni versi: " Nulla mi lega a nulla. / (...) / Anelo con un’angoscia di fame di carne / quel che non so che sia - (...) / Mi sono svegliato alla stessa vita a cui m’ero / addormentato. / Perfino i miei eserciti sognati hanno patito sconfitta. / Perfino i miei sogni si sono sentiti falsi all’essere sognati". De Campos esprime il rovello dell’intelligenza speculativa, il dubbio se abbandonarla per giungere alla grande pace, al silenzio dell’atarassia. Il sonno, infine, la breve non esistenza "Alla fine di ciò che tutto sembra essere... / questo piccolo universo provinciale tra gli astri, / questo paesino dello spazio, / (...) / persino dello / spazio totale".








Postato il Giovedì, 03 aprile 2008 ore 12:58:27 CEST di Maria Allo
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