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Umanistiche: IL CERVELLO EROTICO:UN'INTERPRETAZIONE FILOSOFICA

Rassegna stampa

IL CERVELLO EROTICO

 

Il desiderio erotico, da Platone in poi, è inscritto nel segno di una mancanza che è figlia

di una colpa. L’androgino sfida gli Dèi e, per tutta risposta, viene diviso a metà e costretto a

volgere la sguardo verso il segno della ferita. Da allora ogni metà desidera ricongiungersi alla

parte perduta di sé. Dunque la conoscenza, e la coscienza che ne è fondamento, sono fonte di

una vergogna che è avvertita in quanto colpa; ma di che cosa esattamente?

Forse gli uomini soffrono l’incomprensibile abbandono degli Dèi, il loro inarrivabile

silenzio e non possono che raccontarsi che è colpa loro, che qualcosa devono pur aver fatto…e

in effetti qualcosa hanno fatto; si sono sottratti al controllo Dèi loro antichi padroni diventando

Dèi di sé stessi (diremmo perciò che gli uomini hanno abbandonato gli Dèi ma che descrivono

la cosa dicendo di essere stati abbandonati per una qualche primigenia colpa). La frattura

divide l’Io da sé stesso e lo rende schiavo (d’amore) della sua metà fuggita, quella metà che

più che essere un altro mortale, è il suo Dio, la sua follia (mania), cioè la sua modalità

d’essere prima dell’avvento tragico dell’individuo (sempre uno, diviso).

Se de-siderare significa smettere di contemplare le stelle, allora il desiderio s’insinua laddove

c’è una Spaltung tra l’uomo e il divino facendosi al contempo dolorosa rottura e possibilità del

suo sanamento. Eros getta un ponte tra mondi che, lungi dal potersi fondere, possono solo

farsi interpreti l’uno dell’altro (sexus-nexus) connettendosi in un senso, sebbene provvisorio,

caduco. È in virtù di questa mediazione erotica che l’atto sessuale (la petite mort di Bataille) e,

se si vuole, quello linguistico, sospende momentaneamente la discontinuità dell’esistenza e con

essa la separatezza e l’incomunicabilità. Ma se nell’avvinghiarci al corpo dell’altro scongiuriamo

il pericolo di essere morti (perché e finché il piacere ci protegge), sciogliendoci dall’intreccio ci

riscopriamo improvvisamente esposti, mutilati, mortali. Dunque: la coscienza individuale è la

colpa, la separatezza è la pena, l’unione erotica è l’espiazione (mai definitiva).

Il desiderio, che è desiderio di ciò di cui è mancanza (Eros figlio di Penia), è memore di

un vissuto originario che esperiva l’unità, l’armonia cosmica tra l’uomo e i suoi Dèi, l’assenza di

discontinuità nel mondo, il vissuto dell’alterità come determinazione dell’identità. Il desiderio

ricorda e vagheggia il tempo in cui “tutto era Uno”(di cui l’androgino è la cifra).

Il presupposto epistemico di questo vagheggiamento è il mito dell’intuizione intellettuale

(un mito che non è mai morto), il sogno di farsi tutte le cose, di fondersi con l’oggetto. Per

Bergson l’intuizione è una forma di simpatia mediante la quale ci si inserisce al cuore della

cose realizzando una coincidenza con ciò che esse hanno d’inesprimibile e di assoluto; sogno

impossibile che conduce allo scacco o alla pazzia (la lucida follia dell’Enrico IV di Pirandello è il

tentativo di sciogliere la fissità della forma individuale per vivere infinite possibilità d’essere).

Merleau-Ponty fa appello ad un “mondo della vita” in cui le coscienze sono originariamente

indistinte. La fusione erotica è l’esasperazione di questo sogno. Come fa notare Barthes, «per

realizzare questo tutto che io bramo è sufficiente che tutti e due si sia senza collocazione: che

ci si possa magicamente sostituire l’uno all’altro, quasi fossimo i vocaboli d’una lingua nuova e

strana in cui è perfettamente lecito adoperare una parola al posto di un’altra»1. Ma questo non

si dà, non fa parte della nostra umana esperienza; la compassione, o meglio ancora

l’unipassione, non è esperibile. Per quanto potente possa essere Eros, l’unione che esso genera

è imperfetta. Io posso sentire con l’altro, ma non sentire al posto dell’altro. Non siamo parole

interscambiabili salva veritate perché abbiamo un corpo collocato, una coscienza unica, siamo

individui scissi. È per questo che per Barthes l’androgino non è raffigurabile, è una figura-farsa,

mostruosa, grottesca, improbabile, perché non raffigurabile è l’unione che incarna. Ciò

nonostante, il desiderio vive la propria ricerca come ritorno ad un’immaginaria origine nello

stesso istante in cui si proietta verso l’ignoto, l’inedito. Duplicità, questa, che si ritrova

nell’intimità stessa del pensiero greco. La verità, aletheia, è, ad un tempo, oblio e memoria.

Infatti, gli Iniziati ai misteri di Eleusi, prima di entrare nella bocca dell’oracolo, bevevano alle

fonti di Lethe (Oblio) e Mnemosyne (Memoria). Così il desiderio è memoria della sacralità

cosmica delle origini (forse per questo Onfray dice che la fedeltà è una questione di memoria)

e oblio della separatezza che ci affligge.

A ben guardare, però, il mito nostalgico del “tutto che è uno” più che irrealizzabile è,

forse, irripetibile se si considera che potrebbe essersi originato nella specifica forma mentale

degli esseri umani prima dell’avvento dell’impero del logos, ossia la “mente bicamerale”.

Secondo l’ipotesi di Julian Janes, fino al termine del secondo millennio a.C. il cervello

umano, per quanto anatomicamente moderno, era funzionalmente strutturato in modo diverso,

tale da non giustificare la presenza della coscienza individuale. In particolare, l’‘area di

Wernicke’, nell’emisfero destro dominante, era sede degli Dèi che, ordinando agli uomini le

azioni da compiere tramite allucinazioni uditive, facevano le veci della coscienza 2 (non a caso

originariamente “obbedire” e “udire” erano un’unica parola). Se l’apparizione della coscienza,

dunque, non coincide immediatamente con quella del linguaggio, si dovranno prendere in

considerazione alcuni fattori sociali, culturali e politici che possono avere giocato un ruolo

decisivo in questo processo. Primo tra tutti l’invenzione della scrittura e del simbolismo visuografico

in genere. Mentre l’oralità implica un’identificazione intima, empatica con l’oggetto

conosciuto, la scrittura genera un rapporto indiretto, mediato tra soggetto e oggetto che è alla

base di ogni capacità teoretica. Anche Platone nella Settima Lettera dice che i processi

conoscitivi si trovano inscritti nelle vicende vissute dagli uomini in una dimensione di

comunione la cui riproduzione è inattingibile alla parola scritta. Prima di inaugurare la

mentalità teoretica, la scrittura dovette però liberarsi dai vincoli della cultura mitica e dal suo

uso finalizzato alla narratizzazione epica. La dimensione del mito è quella della collettività; il

mito informa la mente collettiva, decide del significato degli eventi, esercita una forte azione di

controllo sociale ; è la dimensione più propria della mente bicamerale. Secondo un’ipotesi

avanzata concordemente da etologi e psicologi, la coscienza potrebbe esser nata in risposta

all’esigenza di capire le menti altrui e ciò presupporrebbe l’abilità di discernimento tra il sé e il

non sé. Ora, poiché questa funzione è svolta esclusivamente dai lobi frontali (la parte

evolutivamente più recente del cervello) e invididui neurobiologicamente moderni come i

Sapiens sapiens non disponevano a pieno titolo di questa facoltà, non essendo in grado di

distinguere il proprio ricordo di altre persone dalle persone reali, Jaynes ritiene che alcune

delle credenze mitiche e religiose che persistettero per millenni siano le vestigia di tale

incapacità, il che corrobora la sua ipotesi che l’evoluzione biologica dei lobi frontali non sia di

per sé sufficiente a inaugurare la coscienza e che sia necessario qualche effetto culturale

aggiuntivo.

Un altro passo decisivo verso una nuova forma mentale è l’avvento di un nuovo assetto

politico. In città ormai troppo numerose per poter essere soggette ad un efficace controllo

monolitico, il potere si sposta dal re-Dio all’individuo che diviene per la prima volta

responsabile delle proprie volizioni e azioni. Tali cambiamenti politici si accompagnano, ma più

probabilmente sono provocati, da una violenta commistione di popoli (Jaynes parla a questo

proposito delle invasione doriche che afflissero la Grecia tra il 1200 e il 1000 a.c). E’ chiaro che

in uno scenario di guerra può essere molto utile essere capaci di inganni a lungo termine. Ma

una tale capacità già presuppone «l’invenzione di un Sé analogale in grado di fare o essere ciò

che la persona, così com’è vista dagli altri, fa o è».

La distanza tra la mente bicamerale e la coscienza è ben individuabile nel confronto tra

l’Iliade e l’Odissea. Mentre dall’Iliade è assente la dimensione del segreto e della menzogna,

l’Odissea canta la scoperta stessa dell’inganno e la sua celebrazione. I termini che nell’Iliade

vengono tradotti con espressioni indicanti processi mentali (kardie, phrenes, thumos) si

riferiscono in realtà a fenomeni corporei associati ad un intenso stress decisionale. Aumento

del battito cardiaco, della frequenza respiratoria, dolori al ventre precedono la comparsa

allucinatoria di un Dio che fatica ad essere presente ma che ancora guida le azioni umane. Gli

stessi termini, nell’Odissea, cominciano ad essere personificati, laddove la persona non è

ancora intesa come fonte autonoma di vita emotiva ma come una sorta di spazio accogliente,

di recipiente interiore in cui gli Dèi riversano i propri contenuti. La comunicazione si fa più

indiretta, il confine tra responsabilità divina e umana si fa labile: sebbene gli Dèi siano ancora

artefici del destino umano, l’azione morale qui ha senso (si pensi alle phrenes aghatai che

rendono Penelope fedele).

Bisognerà comunque aspettare fino al VI secolo a.C. per assistere alla nascita di un vero

e proprio spazio mentale cosciente e soggettivo. Pitagora impara in Egitto la dottrina della

metempsicosi e la diffonde in Grecia; successivamente, con Pindaro ed Eraclito, la psyche e il

nous, sinonimi di “attività” o “vita”, si fondono in un’unica parola che designa, solamente

adesso, l’“anima”. Per controbilaciamento, il soma, che significava “cadavere” in opposizione a

psyche in quanto “vita”, viene ora a significare “corpo” in opposizione al nuovo significato

assunto da psyche. L’anima si trova imprigionata nel corpo come in una tomba e questa

separazione genera stupore. Per la prima volta il pensiero e la physis sono estranei, il pensiero

è dislocato, abita un luogo che non è il corpo. L’unità, un tempo vissuta, diventa ora

mitizzata.

L’uomo, ancora bisognoso dell’autorizzazione, si mette sulle tracce degli Dèi fuggiti,

interroga gli oracoli, e lo farà per più di un millennio dopo il crollo della mente bicamerale,

cercando di ristabilire un contatto. La poesia diventa mediatrice. La parola sapienziale, che si

manifesta in forma poetica appunto, non è un’etichetta, il suo significato non sta, come invece

è per la parola scritta, nel suo riferimento ma nell’evento che essa è, nel suo valore epifanico:

essa “avviene” sulla realtà modificandola, decidendola. Ma non fluisce più dalla bocca di un

aedo che ascolta e obbedisce alle sue Muse; presuppone ora sforzo, ricerca, immaginazione,

quell’immaginazione che è diretta conseguenza della nascita della coscienza soggettiva, anzi, si

potrebbe quasi dire, quell’immaginazione che è la coscienza soggettiva. Ecco allora che

l’ispirazione poetica si fa furia, possessione, katokoké.

La forma mentale dei poeti del 400 a.C., la medesima dei profeti oracolari dello stesso

periodo, non ha niente a che vedere con quella dei cantori dell’Iliade che esperivano gli ordini

divini. È solo quando le muse si avviano a diventare entità immaginarie che la poesia si

trasforma da dono divino in arte umana. Il poeta imita ormai coscientemente le antiche

espressioni divine: la mimesi bicamerale diventa mimesis in senso platonico. La poesia viene

così a racchiudere paura e nostalgia dell’assoluto; il chaos da cui l’uomo si è liberato è

minaccia e dono allo stesso tempo e l’anima razionale, che Platone inaugura, non è che il

rimedio, tirannico e necessario, al rischio di perdersi nella demoniaca follia. Identificare

ragione, virtù e felicità significa tracciare la strada sulla quale mettersi per proteggere il

proprio ordine dalle minacce degli Dèi.

Eros allora non fa che attestare che siamo in un rapporto d’inquietudine con la follia

dalla quale ci siamo emancipati. Così come la possessione poetica, quella erotica è katokoké:

Eros dispone dell’Io, lo rende atopos, “dislocato”, distolto dal centro della sua egoità, sottratto

al dominio della ragione. Ma Eros non è Pan, all’insegna del quale la sessualità si fa pulsionale,

sfrenata e conduce la ragione al collasso. Con Eros il sesso si fa cadenzato, ritmico, musicale

(nel Simposio la musica è essa stessa erotica in quanto scienza degli amori dell’armonia e del

ritmo) e la ragione è sospesa, più che vinta. «Per il solo fatto di esserci accanto, l’altro ci

concede di perderci nella follia per poi riprenderci». Nella sessualità l’individualità è annullata

dall’intensità del godimento che la percorre, il piacere sottrae l’uomo al tempo che è la ragione

del suo sentirsi diviso per consegnarlo ad una pienezza d’essere che non conosce cesure o

scarti. Nell’atto sessuale si realizza perciò una sorta di paradosso olistico: il tutto che Eros

realizza è al contempo di più della somma di due individui, in quanto è l’Essere stesso, e meno

in quanto l’unione può farsi Essere solo annullando momentaneamente le singole individualità.

L’erotismo è allora «ricerca di quella pienezza di cui l’amplesso è memoria, tentativo e

sconfitta».

 

 

 









Postato il Mercoledì, 02 aprile 2008 ore 17:50:51 CEST di Salvina Torrisi
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