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Umanistiche: L'IDENTITA' PROFESSIONALE DELL'INSEGNANTE DI FILOSOFIA NELLA SCUOLA

Rassegna stampa

La ricerca teorica in didattica della filosofia

M.Trombino@athenaforum.org

 

In Italia gli ordinamenti attuali - ed anche i precedenti - accomunano la filosofia come materia scolastica a tutte le altre materie e la identificano come disciplina tra discipline, per la quale possono valere gli stessi criteri pedagogici. Allo stesso tempo definiscono l'identità professionale del filosofo a scuola negli stessi termini di quella di qualsiasi altro insegnante.

Tuttavia, poichè l'identità della filosofia è oggetto del dibattito filosofico e l'identità professionale del filosofo (il suo ruolo sociale, i suoi doveri, il suo rapporto con il potere e la burocrazia, il suo rapporto col denaro e così via) è problema aperto dai Greci a noi, l'insegnamento della filosofia dà per scontato ciò che i filosofi non possono dare per scontato: che cosa significhi fare filosofia come attività professionale. E non v'è dubbio che l'insegnante di filosofia esercita, in un ambito specifico quale è la scuola, una attività professionale che è comunque propria del ruolo sociale del filosofo in quanto tale.

Se la domanda su cosa è la filosofia può legittimamente e utilmente essere posta all'interno di un corso di filosofia - scolastico o meno - ovviamente lo stesso non può dirsi per il problema della identità professionale del filosofo, per la semplice ragione che essa è definita a scuola dagli ordinamenti: è cioè definita da leggi e decreti e regolata da una rigorosa e - se va bene - efficiente burocrazia. Questo implica un distacco assai netto tra l'identità della filosofia e l'identità professionale del filosofo, che non può liberamente correlarsi con la prima.

Ad esempio. I monaci medioevali erano insegnanti di filosofia, ma di norma non vivevano la contraddizione tra l'identità della loro disciplina e l'identità della loro professione perché quest'ultima era strutturata sulla base della prima. Una determinata concezione della filosofia aveva permesso la nascita e lo sviluppo di determinate scuole che rispondevano (e per secoli) a precisi bisogni sociali. C'era coerenza. Non certo a caso la filosofia medioevale è Scolastica.

Anche i metodi didattici erano coerenti. Fare filosofia nelle scuole significava interpretare testi, intendere cioè una verità già data ma non ben compresa. La Questio medievale è l'esatto equivalente di un torneo: in questo si confrontavano dei cavalieri in una prova di forza che non solo non era guerra, ma al contrario era uno dei segni della comune appartenenza allo stesso rango sociale; in quella si confrontavano maestri che reciprocamente si riconoscevano come tali, che credevano nelle stesse verità ultime. Il contendere era un "gioco" (nel senso di Huizinga) di abilità che dava identità sociale e professionale e permetteva non di scoprire la verità (che è data), ma di comprenderla.

Dio esiste. In questo contesto di certezza, gli insegnanti di filosofia si confrontano in un gioco dialettico dalle regole ben definite per dimostrarne l'esistenza.

Ovviamente chi avesse messo in crisi ciò che per gli scolastici era la filosofia e avesse infranto le regole del gioco negando che la verità sia data e affermando che la filosofia è libera ricerca della verità (come, poniamo, fa Cartesio) avrebbe messo in crisi non solo il metodo didattico della Questio, ma la stessa identità professionale degli insegnanti in dialogo tra loro. [2]

Non c'è dunque da meravigliarsi se la questione dell'identità professionale dei filosofi a scuola sia stata oggetto di dibattiti molto appassionati nei settant'anni che ci separano dalla Riforma Gentile.

Nostro obiettivo è mostrare la correlazione - che genera crisi - tra le due variabili:

 

a) l'identità della filosofia

b) l'identità professionale dell'insegnante di filosofia a scuola.

 

Mostreremo allo stesso tempo come la struttura dell'insegnamento della Filosofia definita dalla Riforma Gentile si sia dimostrata un contenitore capace di superare la crisi non eliminandola, ma garantendo una effettiva pluralità di interpretazioni (accompagnati però da ambigui e progressivi slittamenti di senso). Risultato straordinario, se si pensa al clima in cui la Riforma fu varata (risultato, tra l'altro, che getta una luce importante su quello che Gentile definiva il proprio "liberalismo").

 

Nota

E tuttavia c'è in ogni caso uno scarto ineliminabile tra l'identità della filosofia e l'identità professionale del filosofo. Non può essere dato per scontato che la filosofia possa essere un lavoro. Vi sono ragioni autorevolmente sostenute che portano a ritenere questo, che levigare lenti ottiche sia forse una attività professionalmente più corretta per un filosofo, anche senza invocare la prudenza. Le ragioni della libertà, infatti, non hanno tempo.

 

1. Un dibattito ormai lontano: Gentile e la filosofia come materia scolastica

Nel congresso del 1929 Gentile teneva la presidenza, ma dopo l'intervento di Padre Gemelli pregò il vicepresidente di assumerla momentaneamente e in un intervento misurato nei toni, ma assai deciso nella sostanza, contrappose al precedente il suo modello di filosofia e, per conseguenza, la sua visione dell'identità professionale dell'insegnante.

Rivendicò per l'idealismo l'identità di filosofia cristiana, assai più "dei vecchi sistemi di filosofia greca mutuati dalla scolastica". In che cosa consiste dunque l'identità filosofica dell'idealismo, o meglio dell'attualismo?

"Il fatto è che l'attualismo può sbagliare; ma si professa concezione spiritualistica della vita: la concezione più spiritualistica e quindi più cristiana che ci sia stata finora; che scrolla bensì le divinità fantastiche relegate in una trascendenza inaccessibile, ma per richiamare l'uomo alla coscienza di quel Divino che alberga nel suo spirito e che non si confonde con lui finito essere mortale perché gli è immanente; che nega i dualismi assurdi di soggetto e oggetto e simili, ma per indicare la poderosa unità in cui hanno la loro profonda relazione [...]."

La filosofia non è dunque descrizione di una verità assoluta, ma della vita, e la vita non è data una volta per tutte. E' sempre nuova e sempre crea verità. Assurdo quindi insegnare una inesistente filosofia perenne. Bisogna invece insegnare a scoprire la verità là dove essa si crea, in noi stessi e nel mondo (io e mondo legati peraltro dalla "poderosa unità in cui hanno la loro profonda relazione"). Assurdo quindi pretendere che l'insegnamento della filosofia a scuola si fondi su una dottrina o sull'altra, anche sullo stesso attualismo, perchè quest'ultimo non è una dottrina, ma un esercizio dello spirito alla ricerca della verità.

Che cosa dunque si deve insegnare? A compiere quell'esercizio dello spirito che chiamiamo filosofia, ed ovviamente nessun modo migliore per insegnarlo che far rivivere le ricerche del passato, attraverso

"lo studio dei maggiori classici d'ogni età e indirizzo, da scegliersi liberamente in un ricco elenco di autori, in ciascuno dei quali - quale che sia il problema trattato e quale che sia la soluzione preferita - è il tormento educatore del pensiero, è la posizione della mente umana di fornte ai grandi problemi, che danno il senso della serietà della vita."

Gentile dunque respinge l'idea di voler imporre alla scuola italiana un sistema piuttosto che un altro. Contro Padre Gemelli, che ritiene sia doveroso imporre un sistema - quello della philosophia perennis, perchè in esso è l'unica verità - Gentile propone non un diverso sistema, ma la necessità di educare le persone a concepire con il pensiero la vita, che non si lascia mai catturare in un sistema.

"E devo essere io accusato di voler chiudere le intelligenze giovanili nel cancello di un rigido sistema? io che sono stato sempre convinto e ho insegnato che quello che importa insegnare non è una filosofia, ma a filosofare, e contro ogni sorta di contraddittori misoneisti e dommatizzanti, non sempre disinteressati, ho sostenuto e fatto valere l'unico metodo congruo a tal modo di vedere? io che in ogni campo del pubblico insegnamento ho osato instaurare il sistema della più ampia libertà?"

L'unico metodo congruo a tal modo di vedere non è per la verità stato precisato da Gentile in termini didattici: gli strumenti professionali d'azione all'insegnante delle Superiori Gentile non li indicava. Fedele alla classica distinzione tra pedagogia e didattica, Gentile si occupava di pedagogia e non di didattica.

A quale metodo si riferisce dunque indicandolo come unico? Un corretto pensiero pedagogico - alla luce della affermazione che la verità non è data una volta per tutte e non esiste una philosophia perennis - impone che l'unico metodo congruo a tal modo di vedere sia lo studio dei classici. Direttamente. Perché sia percepibile il tormento del pensiero, che è educatore. [6]

Non si tratta quindi di studiare la storia della filosofia perché nella sequenza dei filosofi vi sia qualcosa in sé di educativo. E' in ciascun grande classico della filosofia il valore educativo, perché in esso c'è il tormento del pensiero. Per questo non è molto importante l'elenco dei classici da leggere. Gentile se ne occupa di sfuggita, come nessuno storico della filosofia farebbe.

In una intervista concessa ad un giornale nel 1922 a proposito delle sue idee di riforma della scuola Gentile dice:

"In ogni scuola sarà rispettata un'assoluta libertà di interpretazione e di inquadramento storico dell'autore scelto come testo di studio. Il quadro sarà necessario: ma l'idealista si farà il suo, come si fabbricherà il suo lo scolastico. Il quale insegnerà nella scuola quella sua filosofia, che sola per lui è filosofia cristiana. Libertà per tutti: ma per tutti l'obbligo di studiare seriamente e addestrare la mente alla riflessione, che libera l'uomo dal dommatismo dei pregiudizi e del pensiero volgare per farlo veramente padrone delle sue idee, e cioè di se stesso. Questa, e nient'altro che questa, la mia mira. Questo, oso dire, il mio idealismo." [7]

Qual è dunque l'identità professionale dell'insegnante di filosofia? Non quella di un insegnante che trasmette una verità o una dottrina scientifica: non somiglia né al prete né al professore di matematica. Non ha né verità né teorie scientifiche consolidate da insegnare. E' piuttosto un libero ricercatore, ma non trasmette agli allievi i risultati delle sue libere ricerche: trasmette l'ethos della ricerca e i metodi per condurla, attraverso l'unico strumento che ha a disposizione. Attraverso lo studio delle ricerche compiute dai grandi del passato. Di essi non sono dunque importanti tanto le teorie, quanto le ragioni profonde della loro ricerca e i metodi che hanno seguito.

Nello stesso Congresso questa idea venne espressa da molti oratori vicini, sia pure con molti distinguo, alle idee pedagogiche gentiliane. Ed anche da filosofi su posizioni critiche, come Aliotta - vicino a posizioni pragmatiste, attento allo studio delle scienze - che affermò:

"Convengo che l'insegnamento della storia della filosofia debba essere anche teorico, cioè che non possa ridursi a una filza di vite e di pensieri dei vari filosofi. Ma teoria non deve e non può significare un sistema preconcetto, secondo il quale si debbano giudicare le diverse filosofie che si sono succedute nella storia; un modello unico, secondo il quale l'insegnante si creda in diritto di plasmare a sua immagine e somiglianza le teste degli alunni. Bisogna far sentire il tormento dei problemi, come essi nascano per intima esigenza e a quali difficoltà diano luogo nel processo della storia. Bisogna far conquistare agli alunni la coscienza del proprio pensiero, lasciando che esso spontaneamente si svolga attraverso una critica, che, se è talvolta tormentosa, è anche salutare. [8] [...] Vedo qui davanti a me uno che mi indica con le mani il suo abito, per dirmi che l'insegnante di religione non potrà spogliarsene, cioè che esso gli impone di essere dogmatico; ma io che conosco la sua vita, so che egli ha conquistato da sé la sua fede, perché fra le mura del laboratorio ha sentito l'angoscia dell'infinito. Lasciate che i vostri alunni sentano anch'essi il tormento, conquistino da sé la loro fede [9] [...]."

Anche per Gentile, come per Padre Gemelli, l'identità professionale dell'insegnante di filosofia a scuola dipende dalla risposta al problema della identità della filosofia. In entrambi la questione è politica nel senso più alto del termine, perché per entrambi sono in gioco:

 

a) la natura dello Stato, a cui competono le grandi scelte scelte pedagogiche (ma l'identità di vedute si ferma qui, non solo perché diversa è la concezione dello Stato, ma anche perché del tutto diverso è il modo di concepire i rapporti di potere tra la Chiesa, l'individuo e lo Stato);

 

b) l'identità del futuro cittadino.

 

La pedagogia è quindi, in qualche modo, sovrapposta alla filosofia politica. Non è il nostro tema, questo. Dobbiamo però osservare che non vi è stata una effettiva riforma della scuola italiana da Gentile ai nostri giorni, nonostante le mille piccole variazioni introdotte negli ordinamenti, nei programmi, nella didattica, e così via, siano nel loro complesso di non piccolo rilievo. E tuttavia del modello di insegnamento gentiliano per quanto riguarda la filosofia non è rimasto da allora che una sola cosa: che la filosofia viene insegnata nel suo percorso storico. Ed anche questo in modo del tutto difforme, come abbiamo notato di sfuggita (nella nota 5), dagli intendimenti di Gentile.

Il fatto è che il contenitore "storia della filosofia" è buono per tutti gli usi (e per tutti gli equivoci). Così non sarebbe se Gentile avesse precisato obiettivi e metodi. Non lo ha fatto perché non si è occupato di didattica (col risultato che le sue idee pedagogiche sull'insegnamento della filosofia sono rimaste lettera morta).

E tuttavia che non lo abbia fatto ha permesso la sopravvivenza del modello di insegnamento italiano per filosofia (nel triennio attraverso il percorso storico), modello criticato ma sostanzialmente gradito ai filosofi delle più diverse correnti e nella sostanza non modificato dai recenti "Programmi Brocca".

Come è potuto accadere? Il fatto è che Gentile è rimasto fedele a quanto ha affermato nei documenti che qui abbiamo esaminato. Non ha imposto un preciso modello di filosofia e questo ha permesso alla identità professionale degli insegnanti di plasmarsi - quasi plasticamente - in rapporto alle convinzioni personali, alle spinte sociali, alle idee pedagogiche e didattiche di ciascuno.

Ovviamente questo è accaduto non senza equivoci e distorsioni del pensiero gentiliano e della sua riforma (il più eloquente è l'aver sostituito, nella coscienza comune degli insegnanti, l'obiettivo pedagogico generale: da insegnare a filosofare attraverso la lettura dei grandi classici a insegnare la storia della filosofia attraverso un manuale).

Due, dunque, le considerazioni finali.

 

1) Il modello gentiliano si è dimostrato nel tempo estremamente flessibile, rispettoso della coscienza degli insegnanti e degli studenti. L'identità professionale degli insegnanti di filosofia ha potuto non entrare gravemente in crisi rispetto alla concezione che ciascuno di essi aveva della filosofia (o meglio, la crisi è rimasta entro confini praticabili sul terreno didattico e personale). La crisi degli insegnanti riguardo la loro professionalità, oggi, è d'altra natura. ([10])

 

b) L'assenza di indicazioni didattiche è stata fondamentale perché il modello fosse flessibile. La didattica, se prescrittiva, uccide la flessibilità. Dunque, dobbiamo concluderne che la didattica della filosofia deve essere concepita in modo da garantire grande flessibilità. Ma poiché oggi un aspetto della crisi professionale degli insegnanti riguarda la didattica, abbiamo dinnanzi a noi il compito di affrontare la sfida - allontandoci da Gentile quando separa pedagogia e didattica, restando fedeli al suo insegnamento col garantire, come lui, flessibilità.

Una sfida non di poco conto. In questa ricerca la filosofia italiana ha tuttavia un lungo percorso assai netto. A mezza via tra la riforma Gentile e noi si colloca uno scritto di Garin, del 1952, che è sulla linea di quanto oggi si deve tentare di fare. Ne leggiamo un parte.

 

"La forza dei programmi Gentile era tutta nell'aver bandito i compenmdi, fossero tomistici o giobertiani o positivistici, riportando ai classici, di cui si proponeva alla scelta una lista larghissima e liberalissima. [...] Purtroppo tornarono i manuali, anche se furono manuali storici; la preoccupazione deleteria che il liceo debba insegnar tutto, trasformò quello che doveva essere un sobrio commento ai testi in uno dei soliti ingombri mnemonici: nomi che non dicono nulla; dati inutili; che agli zelanti sembrano sempre insufficienti. [...] Perchè questo, e solo questo, è il compito della filosofia nei Licei: non dare belle e complete sistemazioni, e comode risposte, ma far sentiure i problemi, e tener desta la critica, e scuotere. Dai tempi di Socrate, questo hanno cercato di fare, secondo le loro forze, i maestri di filosofia: dare una bella scossa, "come la torpedine marina" [...]. Ci si preoccupa soprattutto di assicurare ai licei una "filosofia da persone per bene"; e si dimentica l'ammonimento di uno degli spiriti più alti dell'Ottocento: che i filosofi "veri", così come i "veri" santi, non sono mai "persone per bene" [...] Cinquant'anni fa Gentile scriveva: "La filosofia non fa male a nessuno, se è filosofia e non vano sproloquio di ciarlatani; lo Stato ha certo il debito di provvedere affinché nei licei non vadano ad insegnare quelli che pretendono di sapere e non sanno ciò che dovranno insegnare. Ma qui finisce il suo dovere, che è pure il suo diritto; e comincia il diritto della scienza, che è tale a patto di essere autonoma". Ancora un rilievo: i programmi Gentile, con quella liberalissima larghezza (Spinoza è stato rispettato perfino in tempo di leggi razziali!), avevano contribuito a diffondere in Italia una notevole conoscenza dei classici; i futuri insegnanti li leggevano, stimolando una ricca circolazione di stampe, favorendo correnti di cultura viva, non provinciale. Perfino in questo senso restrizioni come quelle deprecate non potrebbero non avere effetti deplorevoli".

 

Note

 

6. Quanto lontano sia stato - almeno dagli anni Trenta in poi - l'insegnamento della filosofia a scuola rispetto alle idee di Gentile, è ben noto. Del resto, indicatori oggettivi come il tipo di manuali adottati, e la ben scarsa presenza nelle adozioni come libri di testo nelle scuole dei classici della filosofia in lettura integrale o antologica, lo confermano. L'inversione di tendenza e il ritorno all'idea gentiliana della lettura diretta dei testi filosofici - per ragioni del tutto diverse da quanto a lui è attribuito, e molto simili a quanto lui invece ha scritto - risale soltanto alla fine degli anni Settanta. Oggi è una tendenza molto affermata (almeno stando agli indicatori oggettivi delle adozioni: che cosa poi accada nelle aule italiane è impossibile dire, come per ogni altra disciplina, per la assoluta assenza di valutazioni e analisi del sistema scolastico su scala nazionale in Italia).

 

7. Intervista al Corriere italiano, 17 febbraio 1924. Gentile dice: "Facciamo per la filosofia come si fa per la poesia: per la quale non si chiede all'insegnante che faccia lui la sua poesia, ma che legga, commenti e faccia intendere quella di Omero, di Dante, di Leopardi. In questa sua opera di commentatore egli è libero e può esplicare tutta la sua personalità; ma Dante, in tutte le scuole, è sempre Dante. Ebbene: si legga Platone, si legga Aristotele. Ognuno nell'interpretazione metterà le sue idee: ma da tutti i punti di partenza si dovrà sempre giungere allo stesso Platone, allo stesso Aristotele, che sarà come il punto d'incontro tra esaminatori e candidati provenienti da tutte le scuole, governate da più indirizzi filosofici; in modo che possano tenere insieme una conversazione che faccia conoscere chi ha studiato, e chi no. Si potrebbe dare maggiore libertà all'insegnamento religioso?"

 

8. Sia detto per inciso. In didattica della filosofia sono molto frequenti tesi di questo tipo, che enunciano posizioni di principio, empiricamente non studiate. Non si tratta di affermazioni che riposino su salde fondazioni teoriche, ma di semplici affermazioni generiche. Lo studio empirico della didattica, in questo caso, consiglia grande prudenza agli insegnanti, perché una vera attività critica con gli adolescenti deve sempre essere sorretta da una visione positiva del mondo, se non si vogliono rischiare tormenti per nulla salutari.

 

9. Evidente il richiamo - difficile dire quanto consapevolmente espresso, visto che si tratta non di uno scritto, ma dell'intervento ad un Congresso - ai romantici (ad esempio a Schleiermacher). Altra prova di quanto, su tutto il dibattito che abbiamo qui brevemente esaminato, sia forte il legame con le tematiche romantiche del primo Ottocento.

 

10. Ai soli fini di precisare quanto detto: da una parte è crisi didattica, dall'altra è crisi della loro immagine sociale, del loro ruolo. Ma è questo un discorso troppo ampio, e doloroso, per essere affrontato così in breve.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 









Postato il Domenica, 24 febbraio 2008 ore 16:13:46 CET di Salvina Torrisi
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