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Umanistiche: UN LINGUAGGIO DELL'ANIMA

Rassegna stampa

 

Landolfi sente come una condanna «scelta di parole, disposizione degli argomenti, perspicuità del dettato e altri maledetti inceppi [...] Camicia di Nesso, una tal letteratura o scrittura che non sa abbandonar i suoi lenocinii ... Ma come uscirne? E invece io vorrei che questo fosse il libro (il registro) del mio abbandono [...]». Lo «scriver male», dice a tutte lettere, sarebbe un riposo, inibito dalla consapevolezza di soffrire, insieme alla propria opera, di «mal di vuoto».
L'armoniosa fusione tra vita e scrittura, miraggio e tormento che percorre tutta l'esperienza landolfiana e che in Rien va rovescia la famosa formula ermetica di Carlo Bo sulla «letteratura come vita» (no, dice Landolfi, «la letteratura non è vita»), è una volta di più segnata da uno scacco personale. 

Tommaso Landolfi (1908-1979) è nato a Pico, allora in provincia di Caserta. «Ultimo forse rappresentante genuino della gloriosa nobiltà meridionale», per usare una sua stessa espressione (La biere du pecheur), trascorre tra Pico, Roma e la Toscana gli anni dell’infanzia (segnata dalla morte della madre quando lui aveva meno di due anni) e dell’adolescenza. Prima a Roma, quindi a Firenze compie gli studi universitari, coltivando la sua già vasta cultura, sostenuta da un’intelligenza lucida e dialettica. Nel 1932 si laurea in lingua e letteratura russa, con una tesi su Anna Achmatova. E dal russo, così come dal francese e dal tedesco, sarà traduttore magistrale, oltre che profondo conoscitore delle letterature in tali lingue. Subito dopo la laurea, prende a collaborare a testate romane come «Occidente», «L’Europa Orientale», «L’Italia letteraria», «Oggi».
Spirito libero e aristocratico, è naturale oppositore del regime fascista; subisce nel 1943 un mese di carcere alle Murate, a Firenze. Sporadici, nell’arco dell’intera vita, i soggiorni all’estero, nelle capitali d’Europa; più lunghi i periodi trascorsi a San Remo o a Venezia, le «città del gioco», dov’è attirato dalla sua grande passione, parallela o sovrapponibile a quella per la scrittura. Sul gioco d’azzardo, sul significato universale di cui egli lo investe, scrive pagine intense, facendone il centro di una speculazione assai più ampia.  Scrittore scrivo e appartato, insofferente delle mode e dei meccanismi preposti al raggiungimento della fama e del successo, è considerato dalla critica fra i massimi del Novecento, non solo italiano. Negli ultimi dieci anni si moltiplicano gli studi e i convegni sulla sua figura, le ristampe delle sue opere (il suo attuale editore è il milanese Adelphi), le traduzioni di esse anche in nazioni remote come Israele o il Giappone, gli adattamenti cinematografici e teatrali dei suoi testi, i documentari e i video.( a cura di M.Allo)


Eccovi la relazione di M. Antonietta Grignani al  Convegno «Un linguaggio dell'anima» " Giornata di studio su Tommaso Landolfi, Università di Siena



 

 

 

«L'espressione, la voce stessa ci tradiscono»

In tanto dissimulare, l'autore a un certo punto della sua carriera, all'inizio degli anni Cinquanta, ha preso a soffermarsi - in tre diari successivi - sul tema della propria ossessione della forma, argomento che in lui richiama esplicitamente alla problematicità di rapporti e conflitti tra scelte stilistiche e disordine della realtà, nel suo duplice aspetto, oggettivo, di casualità o caos esteriore e, soggettivo, di insondabilità psichica: un dilemma molto novecentesco che in lui si aggroviglia senza soluzione e che troviamo invece esposto con la solita netta lucidità da Italo Calvino in Mondo scritto e mondo non scritto:

«La mente dello scrittore è ossessionata dalle contrastanti posizioni di due correnti filosofiche. La prima dice: il mondo non esiste; esiste solo il linguaggio. La seconda dice: il linguaggio comune non ha senso; il mondo è ineffabile. Secondo la prima, lo spessore del linguaggio si erge al di sopra d'un mondo fatto d'ombre; secondo la seconda, è il mondo a sovrastare come una muta sfinge di pietra un deserto di parole come sabbia portata dal vento».5

Il titolo che ho messo in cima alle osservazioni a seguire va addirittura più in là della dicotomia accennata da Calvino, perché allude non solo alla scrittura ma anche alla vocalità, non denuncia solo il tradimento dell'espressione scritta con i relativi lacci della tradizione letteraria, ma pure quello del parlato e della voce umana, altrettanto strutturata per tratti "discreti" e analitici, alterata all'occorrenza per esigenze di contesto e incapace di attingere una dimensione di autenticità originaria rispetto alla restituzione del mondo.
«L'espressione, la voce stessa ci tradiscono» è una citazione da Rien va, diario uscito nel 1963, in cui la paura dell'assenza di senso e della non sufficiente motivazione della forma riporta immediatamente alla soggettività e alle autodiagnosi del diarista scrittore: «L'espressione, la voce stessa ci tradiscono, o almeno tradiscono ciò da cui si dipartono», è seguito da osservazioni sul tono di voce gridata che si deve usare per esempio con i sordi con modificazioni che aggiungono, di volta in volta, falsi toni a uno statuto già pericolante dell'enunciazione, peggio che peggio di quella meditata e scritta.6
L'analizzatore di se stesso dilaga in lagnanze insofferenti e crudeli, perché sembra a lui che nemmeno la zona informale del diario possa liberarlo dalla coazione all'ornato e al magistero d'arte. Come già nella biere du pecheur di dieci anni prima, Landolfi sente come una condanna «scelta di parole, disposizione degli argomenti, perspicuità del dettato e altri maledetti inceppi [...] Camicia di Nesso, una tal letteratura o scrittura che non sa abbandonar i suoi lenocinii ... Ma come uscirne? E invece io vorrei che questo fosse il libro (il registro) del mio abbandono [...]». Lo «scriver male», dice a tutte lettere, sarebbe un riposo, inibito dalla consapevolezza di soffrire, insieme alla propria opera, di «mal di vuoto».7
L'armoniosa fusione tra vita e scrittura, miraggio e tormento che percorre tutta l'esperienza landolfiana e che in Rien va rovescia la famosa formula ermetica di Carlo Bo sulla «letteratura come vita» (no, dice Landolfi, «la letteratura non è vita»), è una volta di più segnata da uno scacco personale:

«E invece, a forza di ripiegare e sostituire e simboleggiare, eccomi qui chiuso ormai senza speranza in questi meschini giochi di penna, e ben sapendo che non ho sostituito niente, che non posso sostituire niente, perché non si sostituisce la vita colla morte, ciò che è con ciò che non è».8

L'impossibilità di una parola più diretta, in Rien va, coincide con l'inevitabile e fastidiosa dominanza di una camicia di Nesso ancor più tiranna di quella allegata allo stile, l'incombere di un autobiografismo imperioso e insomma il riporto frequente all'io, pronome centripeto e tiranno comunque, anche qualora trasposto nella figura testuale dell'io narrante («imperterrito benché furioso con me stesso [...] io seguito a piantare i miei Io in testa al drappello delle parole, quasi portabandiera!»). Il che fa il paio con altre affermazioni, come questa de La biere du pecheur: «Così, su tutte le altre, si trova frustrata la mia antica e perenne aspirazione alla terza persona: son condannato, forse per sempre, a questa prima».9
Il diarismo landolfiano, cui inerisce un «autobiografismo fluido», secondo la bella definizione di Andrea Cortellessa,10 è stato diversamente giudicato. Rimanendo nell'ambito dei critici scrittori, per Sereni quella del primo diario è una salutare uscita dalla splendida durezza della narrativa fino a Cancroregina; invece dalle recensioni di Montale e Caproni a quello o al successivo emerge qualche sospetto di resa atteggiata per effetto di un nero narcisismo, pur entro una sincera negazione totale che è tipica della situazione contemporanea, «sola e senza conforto nel labirinto delle sue domande» (Caproni). Zanzotto, più equamente, giudica l'autobiografismo esplicito una sorta di metamorfosi di un precedente autobiografismo mascherato entro la narrativa.11


» (Pietra lunare, I, 149); «grigi fauni parevano costoro da lontano» (Pietra lunare, I, 152); «aveva egli in questa casa preso ritiro» (Racconto d'autunno, I, 463); «la sua sorveglianza si trattava d'ingannare» (Racconto d'autunno, I, 466).
Se la riprova della motivazione autocritica dei diari sul corpo verbale dei testi finisse qui, poco altro ci sarebbe da aggiungere alla lagnanza sulla «camicia di Nesso» della bella forma. Il fatto è che, come gli studiosi di Landolfi sanno, lungo tutto il corso della produzione narrativa, e dunque per noi senza lo scrupolo di citazioni cronologicamente ordinate, esistono zone che scompongo l'assetto levigato, luoghi in cui il respiro della storia narrata si blocca in interruzioni abrupte, in digressioni, in macchie di metadiscorsività e insomma in manipolazioni che interrompono il tradizionale patto di credibilità tra autore e lettore. Questi colpi di scena tutt'altro che classicheggianti aprono un piano diverso da quello della lettura sequenziale; depistano, trasformando la realtà in scenografia, contribuendo all'effetto di autotraduzione da un originale nascosto o di apocrifo sottolineato da molti.13 Tra gli altri Italo Calvino, nella postfazione alla antologia Le più belle pagine scrive:



Tutta la sezione intitolata appunto nell'antologia Calvino «Le parole e lo scrivere» potrebbe essere convocata. Un esempio-limite è Rotta e disfacimento dell'esercito (Racconti impossibili, 1966), dove un inizio di narrazione tradizionale è interrotto da un feroce e lungo corsivo contro l'os rotundum, contro la «falsità di questa scrittura, e dunque non solo di questa scrittura» (II, 674). Procedendo in espansione, Landolfi contesta non solo il proprio scritto, lasciato sdegnosamente in tronco, ma la più generale follia di raccontare una storia; tant'è che la raccolta, vi si dice, potrebbe avere un bel due punti tra sostantivo e aggettivo, intitolandosi: Racconti: impossibili.
Nella maggioranza dei casi il racconto non è interrotto, ma mette en abîme caratteristiche antiquate o fiorentineggianti (che è poi lo stesso per l'eclettismo di Landolfi), in momenti dove meno ci aspetteremmo un tale dubbio indotto dai discorsi dei personaggi e da un metalinguismo sceneggiato tra locutori. Ne Le labrene (1974) la novella Encarte, tutta dialogata e non situata in un contesto né geolinguistico né cronologico, gira intorno al tema del doppio e degli espedienti che un gemello monozigota attua, estorcendo una connivenza al delinquere al proprio fratello onesto, grintoso e vincente nella vita. Ebbene, quando il gemello ingannatore deruba una vecchietta fingendosi idraulico, assistiamo al seguente dialoghetto tra l'anziana e lui ladro sotto mentite spoglie:

«- Un trombaio!
- Trombaio-fontaniere, per la precisione. Non ne avevate chiesto uno?
- [...]
- "Idraulici", perfino ci chiamano in colonia».15

Peccato che nel testo non ci sia nulla che ambienti nella Firenze del tempo che fu la vicenda; e i vari «grullo», «briaco», «di costì» non sono segnacoli di geografia, bensì solo di un conflitto irrisolto, per quanto atteggiato all'ironia, tra la vicenda del doppio perverso, gli strati di lingua e la relativa cronologia. A proposito della caduta - in Firenze stessa - di voci come «trombaio» e «fontaniere», la testimonianza di Giovanni Nencioni, Autodiacronia linguistica, uscita nel 1982, tutta basata sulla memoria personale dello studioso e cittadino di Firenze, ormai non giovane, di fronte al cambio d'abitudini linguistiche avvenuto, denuncia quanto in Landolfi queste manipolazioni su cause perse siano strumentali non a una storicizzazione del tempo e del luogo perduto, ma a una messa in discussione tragicomica dello strumento linguistico.16 Perciò anche il ludico, affettuoso fiorentineggiare del Palazzeschi di Stampe dell'Ottocento non può essere invocato a modello di un trattamento ironico da scrittore al quadrato, instillatore di voci recitanti svincolate da contesti attendibili.17
Nei Racconti impossibili un pezzo come La passeggiata è un divertimento o capriccio piuttosto sconcertante, perché interamente scritto con parole desuete, quando non incomprensibili al lettore medio. Invece la più tarda Conferenza personalfilologicodrammatica (Le labrene), organizzata come un dialoghetto tra autore conferenziere e ascoltatori riottosi, regala alla critica e ai lettori la fonte: il diffusissimo dizionario Zingarelli, che, col rinforzo del Tommaseo-Bellini, certifica l'appartenenza al «buon uso toscano» dei termini incriminati. Constatata l'ignoranza di pubblico e critici, inesperti della diacronia e della stratificazione linguistica, Landolfi ammette nella Conferenza la vanità della propria fatica, nelle sue intenzioni originarie tesa a comprovare che l'incomprensione non esiste solo tra idiomi diversi, ma passa addirittura all'interno dei parlanti e conoscitori di una stessa lingua.
Questo autocommento richiama alla mente le Postille a un'analisi stilistica che Gadda scrisse nel '37 a margine di un'indagine ampia ma punitiva di Giacomo Devoto sulla lingua, certo difficile, del Castello di Udine.18 Ma la differenza di posizione tra i due commentatori di se stessi mi pare vistosa e significativa.
Pur provando pure lui sui migliori repertori lessicali l'esistenza storica di forme e significati che gli venivano contestati, Gadda oppone al richiamo normativo alla langue di Devoto il diritto dello scrittore alla parole, inalienabile diritto di scorrazzare in lungo e in largo nella sincronia e nella diacronia delle forme, perché i modi dell'espressione «procedono da impulsi pressoché ineluttabili». Da vero espressionista, il Gran Lombardo esibisce una sorta di smania di possesso linguistico a scopo conoscitivo (è il suo «omnia circumspicere, singula enumerare» studiato da Gian Carlo Roscioni); crede che alla complessità e disarmonia e baroccaggine del mondo si possa e debba rispondere con la complessità dello stile e del lessico, tant'è vero che nel Castello affida a un suo doppio solidale en travesti, il dottor Averrois, note che già pervengono alla stilistica e all'interpretazione del testo. Gadda mostra una sorta di ingordigia linguistica per smania di restituire un reale più profondo della sua superficie d'uso, ma non aspira a una finzione di reale; perciò non è preda del tormento della rappresentabilità, non ha atteggiamenti nostalgici per situazioni di lingua trapassate, non sogna un'espressione primigenia o addirittura prelinguistica.19
Invece Landolfi, che espressionista non è, avverte la morte di strati della lingua, cui nel caso specifico dà luogo effimero e puramente testuale, per l'appunto, nella forma del "racconto impossibile" La passeggiata, che così comincia:

«La mia moglie era agli scappini, il garzone scaprugginava, la fante preparava la bozzima ... Sono un murcido, veh, son perfino un po' gordo, ma una tal calma, mal rotta da quello zombare o dai radi cuiussi del giardiniere col terzomo, mi faceva quel giorno l'effetto di un malagma o di un dropace!»

La provocazione manieristica o linguaiola pare un sostegno da "scapigliato", alla caccia di rarità dell'uso toscano annidato nei repertori lessicali. Invece è solo uno degli aspetti di un rapporto tortuoso e mai pacificato con il mezzo verbale, dietro cui si nasconde un'idea mediata e algida di reale, elemento cui al più si può conferire lo statuto di fondale scenico, visto attraverso una vetrofania esorcizzata dal linguaggio.

Maria Antonietta Grignani








Postato il Mercoledì, 20 febbraio 2008 ore 17:40:46 CET di Maria Allo
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