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'2015, fine della scuola?' Atti del convegno di Tuttoscuola

Atti del Convegno nazionale promosso da Tuttoscuola

2015, fine della scuola?


Alcune tendenze in atto a livello internazionale e nella società italiana prefigurano per l’educazione uno scenario, nel volgere di pochi anni, del tutto inedito, e pongono un interrogativo per certi versi inquietante: la scuola rischia di essere messa fuori gioco, percepita dagli adolescenti di domani come un’istituzione inutile?


Genova, 26 novembre 2004 Convegno presso ABCD, il salone sulla scuola promosso dalla Fiera di Genova

Introduzione:

Giovanni Vinciguerra – Direttore Tuttoscuola

Relatori:

Sebastiano Bagnara - Ordinario di psicologia ed ergonomia cognitiva al Politecnico di Milano
Paolo Cortigiani - Dirigente Scuola Media Statale "Don Milani - Colombo" di Genova
Claudia Donati - Responsabile area Scuola del Censis
Silvano Tagliagambe - Ordinario di epistemologia del metodo all'Università di Sassari

Moderatore:

Raffaello Masci - Giornalista de "La Stampa"





Vinciguerra:
Il titolo che abbiamo scelto per questo convegno "2015, fine della scuola?", è una domanda dal sapore vagamente provocatorio. Anzi volutamente provocatorio. E in fondo paradossale. E’ un paradosso pensare che nel breve arco di un decennio l’istituzione scuola come la conosciamo oggi e come si è sviluppata nell’ultimo secolo possa "finire".
Del resto tutti noi NON VOGLIAMO che finisca, anche perché chi ci lavora, dal di dentro o intorno ad essa, crede – nella maggior parte dei casi – in quello che fa.

Ma questo non può far indulgere a un sereno ottimismo, non implica chiudere gli occhi e anche le orecchie davanti a fenomeni e tendenze ormai ben visibili e documentabili, come tenteremo di fare oggi e come abbiamo già fatto nello speciale del numero di dicembre 2004 di Tuttoscuola.

Si tratta di tendenze per le quali non è difficile pronosticare degli effetti rilevanti – diretti o indiretti - sul modo di fare scuola, sui compiti che la società richiederà ad essa in futuro. Sono in atto dei cambiamenti a livello economico, sociale, geopolitico che metteranno seriamente in discussione l’istituzione scuola come la conosciamo oggi e il rapporto docente-alunno: un rapporto che forse non a partire da domani, ma già da oggi è diventato più complesso. E nuove complessità lo investiranno.

Non ci riferiamo solo, lo dico subito, alle nuove tecnologie, che pure rappresentano un fattore di cambiamento radicale, ma ormai ben noto. Ci riferiamo ANCHE ad esse, ma pure ad altri fenomeni, di natura e intensità diverse, la cui concomitanza fa accendere tante spie rosse, che insieme generano – immaginiamoci nella cabina di pilotaggio di un aereo - uno stato di pre-allarme, chiamiamolo così.
Fenomeni in taluni casi meno noti, o comunque non tutti messi in relazione con il contesto formativo: il tasso di invecchiamento (della società e degli insegnanti), la multietnicità, la concorrenza di altre agenzie e luoghi formativi, il malessere e la crescente disaffezione di molti insegnanti, per citarne alcuni. Li scorreremo velocemente tra poco.

Del resto non siamo i soli a porci degli interrogativi sul futuro: lo scrittore Pietro Citati scriveva recentemente su "Repubblica" di una tragedia annunciata: "Dopo il disastro della Parmalat, dell’Alitalia, delle squadre di calcio, il disastro del liceo e dell’Università avrà presto dimensioni e conseguenze tali che gli altri sembreranno lievissime carezze di piuma".
Lo stesso ministro dell’istruzione Letizia Moratti alla domanda se può davvero venir meno la struttura formativa di base garantita dalla scuola italiana, ha risposto - con disinvoltura - che essa "è già, nei fatti, venuta meno", e che "i livelli di apprendimento si sono via via abbassati soprattutto per quanto riguarda le conoscenze fondamentali (italiano, matematica e scienze)". Da qui, secondo lei, il senso delle sue riforme. Ma non è di questo che vogliamo parlare oggi.
Ha detto qualche giorno fa il Presidente della Repubblica parlando ad Enna a degli studenti: "Il primo dei nostri doveri è di dare a voi giovani scuole di ogni ordine e grado che vi consentano di sviluppare tutto il potenziale della vostra intelligenza, della vostra voglia di fare". Ecco, il saggio richiamo del Presidente Ciampi, rischia di arrivare tardi.

Si tratta di un rischio potenziale, assolutamente non di una certezza, e non saremo certo noi a fare le "cassandre" per la scuola. Ma vale la pena studiare a fondo il problema, guardarci bene dentro. Prevenire è meglio che curare...
Ecco, far acquisire la consapevolezza che siamo di fronte a tendenze che imprimeranno nei prossimi anni un cambiamento di intensità inedita è l’obiettivo principale della nostra inchiesta e di questo convegno. Ciò che auspichiamo è proprio che sia l’avvio di una riflessione e di un dibattito.

*
* *

Siamo partiti nella nostra analisi da un dato, che ci ha fatto scattare alcune domande. Si tratta, per meglio dire della contrapposizione tra due dati, che generano un contrasto stridente:
se si fa una proiezione a dieci anni delle figure del docente e dello studente, si scopre che circa l’80% dei docenti del 2015 è già in servizio oggi. Degli 820 mila docenti, di ruolo e non, di oggi, circa 635 mila saranno ancora in cattedra tra 10 anni. Ma lo studente del 2015 sarà profondamente diverso da quello di oggi, molto più di quanto quest’ultimo non sia rispetto a quello di dieci anni fa.

Se già oggi il modello del docente tradizionale comincia a "stare stretto" allo studente curioso, inserito nel proprio tempo, cosa succederà tra dieci anni allo stesso docente che si troverà di fronte un adolescente ancora diverso, che avrà interiorizzato sia il progresso tecnologico, sia la società multirazziale e globalizzata?

Insomma, se la scuola non si adegua rischia di essere tagliata fuori, di "non servire più" alla società che dovrebbe formare e rispetto alla quale offrirebbe modelli superati. L’adolescente del 2015 accetterà di dedicare ad essa tanta parte del suo tempo?
E’ sufficiente che lo studente-tipo guardando un giorno chi sta dietro la cattedra arrivi a chiedersi: "ma cosa ha da insegnarmi quella signora?". E certo non aiuteranno l’aula scrostata e il banco rotto, teatro triste del fare scuola.
Il rischio è quello di una nuova frattura generazionale, diversa da quella del ’68, non più a carattere ideologico e politico, ma basata sull’insofferenza dell’adolescente di domani, sulla perdita di credibilità e di senso dell’istituzione scuola, sulla sua incapacità di comunicare se stessa, di usare linguaggi e strumenti diversi.
Se questi sono rischi concreti, cosa può fare la scuola per evitarli? Ci sono i tempi tecnici per prepararsi?
Il 2015 è una data non così vicina da ancorare le previsioni evolutive agli assetti esistenti, ma neppure tanto lontana da rendere immaginaria qualunque ipotesi sui cambiamenti futuri.

Nel giro di un decennio gli scolari nati nel terzo millennio, cresciuti in un "brodo tecnologico" con computer palmare e videotelefono, connessi a internet dalla nascita, abituati al compagno di banco straniero, ad essere giovani in una società sempre più anziana, come guarderanno il loro "prof."?
Cosa si aspetteranno da lui, potendo già contare su potenti strumenti alternativi di conoscenza e di informazione e su innumerevoli stimoli, quali avranno a disposizione nell’era, ormai dietro l’angolo, della banda larga e della piena integrazione TV-telefono-PC?


Le direttrici del cambiamento

La prima è:

• Il gap multimediale: si allarga il divario tra le abilità informatiche di un cinquantenne e di un 14enne. Tra dieci anni un bambino delle elementari potrebbe possedere una competenza informatica superiore a quella della maestra. Quale impatto avrà sul loro rapporto?
L’avvento del computer e di Internet sta scavando un fossato tra la generazione alla quale appartengono quasi tutti gli attuali genitori e insegnanti e la generazione del 2000+.
Pensiamo al nuovo servizio che ha annunciato solo pochi giorni fa il motore di ricerca Google: si chiama "Google Scholar" e permette di ricercare parole-chiave dentro intere biblioteche, paper di congressi scientifici, database e in tutto ciò che sia conoscenza accademica e sia stato inserito nel web. In pochi secondi si può avere a disposizione l’informazione selezionata sul meglio che l’umanità ha prodotto su un certo argomento.
Solo fino a pochi anni fa sarebbe stato impensabile. E proviamo a immaginare cosa sarà disponibile tra qualche anno. Secondo Federico Faggin, scienziato italiano trapiantato negli Usa dove ha realizzato il primo microprocessore della storia, nel 2050 l’informazione contenuta in 100 milioni di libri tradizionali entrerà nelle tasche dei nostri blue jeans. E non bisognerà aspettare quella data per avere facilmente a disposizione, su qualsiasi argomento, documentazione in grado di annichilire il confronto con qualsiasi libro di testo.

Si calcola che il gap tecnologico che esiste oggi tra una persona anziana e il proprio nipote, è molto più consistente di quello che c’era una volta tra un anziano completamente analfabeta e il nipote che andava a scuola.
E andando molto più indietro nel tempo, se tra noi e gli antichi romani ci separano circa cinquanta nonni, si può sostenere che non ci sia mai stato in tutto questo arco di storia un potenziale gap tanto ampio tra un nonno e un nipote come quello di oggi e dei prossimi anni.
Quale l’origine di questo gap? La scuola ha finora educato all’analiticità, avvalendosi massicciamente dei libri di testo. E la stragrande maggioranza degli attuali insegnanti (che saranno in servizio anche nel 2015) si è formata sui libri. I giovani, i giovanissimi e ancor più le prossime generazioni, cresceranno invece in una realtà sempre più multimediale, orizzontale, reticolare, iconica.
Il mondo della scuola riuscirà a colmare il gap che già oggi si nota tra il modello culturale (e pedagogico) monomediale del suo passato-presente e quello multimediale richiesto dall’evoluzione tecnologica e sociale del nostro tempo? Se non si saprà adattare, non solo, ma reinterpretare in chiave critica e propositiva i nuovi modelli, potrebbe finire per perdere gradualmente la sua ragione sociale.


• Studiare a casa e non a scuola? Già oggi negli Usa, società per molti versi proiettata nel futuro, 2 milioni di studenti non studiano a scuola. Sono gli "homeschoolers", il cui numero è cresciuto rapidamente (erano solo 20.000 negli anni settanta) soprattutto da quando le nuove tecnologie hanno consentito di disporre on line di quantità imponenti di informazioni, materiali didattici, sussidi vari, accompagnati da programmi di assistenza individualizzata, forniti da varie imprese e organizzazioni.
La previsione di un centro di ricerca specializzato in materia, il National Home Education Research Institute (www.nheri.org), è che nel 2040 il numero degli homeschoolers supererà negli Usa quello degli studenti che frequentano scuole di tipo tradizionale. La previsione si fonda, oltre che sulle crescenti opportunità offerte dallo sviluppo tecnologico (banda larga, etc), sul fatto che già ora i risultati conseguiti dagli homeschoolers nei test standardizzati sono mediamente migliori di quelli ottenuti dagli studenti delle scuole pubbliche, in una misura variante dal 30 al 37%. Anche se queste analisi non sembrano tener conto del valore "educativo" del gruppo-classe e del "fare squadra".
In Italia il fenomeno è per ora irrilevante, ma lo spostamento dell’accento dai curricoli agli esami e alle certificazioni, e l’eventuale assegnazione di buoni studio alle famiglie che volessero intraprendere questa strada potrebbero creare anche da noi condizioni più favorevoli allo sviluppo del fenomeno, che in pochi anni – lo spazio di 1-2 generazioni – ridurrebbe buona parte dei luoghi fisici nei quali oggi si fa scuola in qualcosa di simile alle fabbriche dismesse per manifesta obsolescenza: luoghi dell’archeologia formativa.


• Gli insegnanti "scoppiati": la categoria degli insegnanti è quella più esposta, tra i lavoratori, a una nuova malattia, nota come "burnout syndrome", o "sindrome dello scoppiato".
Le cifre fornite dallo studio "Golgota" per la Fondazione IARD parlano chiaro: l’analisi delle 3.347 richieste di inabilità al lavoro presentate alla ASL di Milano dal gennaio 1992 al dicembre 2003 mostra che l’incidenza delle patologie psichiatriche sul totale è del 49.8% per la categoria degli insegnanti, del 37.6% per gli impiegati, del 28.3% per gli operatori sanitari e solo del 16.9% per gli operai. Segno che il mestiere dei maestri e dei professori è oggi il più usurante, almeno dal punto di vista psicologico-psichiatrico, tra quelli presi in considerazione.
Anche i dati relativi all’incidenza nel tempo del burnout sul totale delle patologie psichiatriche vedono salire la percentuale degli insegnanti dal 44.5% del 1992-1994 al 56.9% del 2001-2003.
Un quadro preoccupante toccato con mano con sempre maggior frequenza da chi frequenta le scuole italiane.
Non è allora un caso che il 32% dei ragazzi tra i 14 e i 16 anni ritiene che gli insegnanti siano disaffezionati alla propria classe, mentre il 26% degli studenti considera i propri professori distaccati da quello che insegnano. Sono i risultati di una recente inchiesta condotta dall'Osservatorio sui Diritti dei Minori.
Il rischio concreto è che una parte della classe docente in questo stato non stimoli adeguatamente i giovani, non rappresenti un modello credibile e ne deluda le aspettative.


• Il tasso di invecchiamento: oggi in Italia ci sono più ultrasessantenni che ventenni. È la prima volta che accade nella storia dell’umanità. Per ogni 100 giovanissimi (età 0-14 anni), vi sono 130 anziani (65 anni e più). Nel 2015 vi saranno 153 anziani (182 al nord) ogni 100 giovanissimi. Solo 25 anni fa, nel 1980, il rapporto era capovolto: 58 anziani ogni 100 giovanissimi.
Il peso del divario generazionale e la conseguente trasformazione degli assetti sociali ed economici potrebbero da un lato spostare una quota ulteriore della spesa pubblica sul mantenimento degli anziani con possibile danno per l’investimento nella formazione dei giovani, dall’altro richiedere ai giovani di accelerare i tempi in cui diventare produttivi.
Una società che invecchia pone anche dunque problemi di ordine sociale ed economico, a cominciare, ad esempio, dai maggiori oneri finanziari ed organizzativi che gli Enti locali sono chiamati ad impegnare per offrire più ampi e differenziati servizi sociali ai cittadini anziani.
Quegli stessi Enti locali che, per effetto dei decentramenti amministrativi e dell’attivazione dei principi di sussidiarietà, dovranno sostenere maggiori impegni finanziari anche per la scuola, tra dieci anni saranno obbligati a destinare crescenti risorse finanziarie ai servizi sociali per anziani, con il possibile effetto di limitare o ridurre quelle per l’istruzione.

E in una società che diviene sempre più anziana, il microcosmo dei docenti è particolarmente anziano: quasi un docente su due ha più di 50 anni. La percentuale di docenti di età superiore al mezzo secolo ha raggiunto infatti nell’ultimo anno il 45%. Solo sei anni fa i docenti ultracinquantenni erano circa il 27% del totale.
L’età media di un insegnante di ruolo è oggi di 48 anni e mezzo. Sei anni fa era di circa tre anni inferiore.
E il processo di invecchiamento della classe docente italiana, cui corrisponde una crescente femminilizzazione, non si ferma qui. Un lento turn over e assunzioni a singhiozzo fanno prevedere per i prossimi anni un ulteriore innalzamento dell’età media. Nel 2015 il gap generazionale, e quindi anche culturale con gli studenti si sarà ulteriormente ampliato.
L’invecchiamento, viste le situazioni analoghe di docenti e dirigenti scolastici, è dunque un elemento caratteristico della scuola statale italiana che mette in risalto il fortissimo divario generazionale con gli allievi.


Genitori "giovani", docenti "vecchi"

A marcare un potenziale ulteriore distacco tra discenti e docenti, oggi e forse ancor più tra dieci anni, è l’allungamento del ciclo della vita. Come può impattare questo fenomeno sul rapporto tra ragazzi e scuola? L’allungamento dell’esistenza ha dilatato il concetto di giovinezza, con possibili ripercussioni rilevanti. Già oggi il genitore trentenne o quarantenne è considerato ancora giovane (fa sport, vacanze, conserva gli interessi che aveva prima). E’ spesso il primo "amico" dei figli (con effetti educativi in molti casi distorcenti).
Ora, con una classe docente sempre più anziana, come abbiamo visto, la vicinanza generazionale tra genitori e figli può far risaltare negativamente la distanza generazionale – e quindi anche culturale e mentale – con gli insegnanti.


• La multietnicità: cinque anni fa gli alunni stranieri nella scuola italiana erano 85 mila (1% del totale alunni), nel 2015 saranno 617 mila (oltre il 6%, al nord il 12-13%), più di un terzo dei quali di religione musulmana.
Nelle aule italiane si parlano ormai 113 lingue e si professano 16 diverse religioni. Culture e religioni diverse cominciano a integrarsi sui banchi di scuola.
Già oggi fanno discutere le iniziative di classi per soli musulmani o l’opportunità del crocifisso dietro la cattedra. E poi, come si potrà garantire un livello di apprendimento uniforme, e che non tenda verso il basso? Certamente la scuola dovrà nei prossimi anni raccogliere ancora molte sfide nel campo dell’integrazione interculturale.


• Mancano tecnici intermedi e laureati in scienze: molte aziende, non solo del Nord, lamentano l’insufficienza di laureati nelle materie tecnico-scientifiche, ma soprattutto la grave carenza di tecnici diplomati e postdiplomati (non laureati) in possesso delle competenze tecniche necessarie per sostenere la competitività.
Un recente documento MIUR-Confindustria-Consiglio delle Scienze ha evidenziato la forte flessione verificatasi tra il 1989 e il 2000 nelle iscrizioni ai corsi universitari di Chimica (-43.1%), Fisica (-55.6%) e Matematica (-63.3%), a fronte di una accresciuta richiesta del mondo produttivo, alla quale si potrebbe aggiungere presto anche un fabbisogno di insegnanti di queste discipline.
E’ un sintomo che la scuola non è in grado in questo momento di offrire ciò che richiede la società (in particolare la parte più avvertita del mondo produttivo).
Quali possibili conseguenze se il sistema di istruzione non si attrezzerà in tempo per offrire quanto richiesto dal mercato? Il mondo dell’impresa farà da solo, creando proprie agenzie di formazione? I tecnici verranno cercati all’estero, in India, in Cina o magari in alcuni dei paesi entrati ora in Europa?


Gli scenari OCSE per il 2020

Passate in rassegna alcune delle principali "direttrici del cambiamento" che possono mettere in crisi il modello di scuola tradizionale, può essere interessante riportare in sintesi gli scenari a quindici anni previsti da un importante osservatorio internazionale.
L’OCSE, l’organizzazione internazionale per la cooperazione e lo sviluppo dell’educazione, ha svolto uno studio che presenta una serie di ipotesi sulle trasformazioni che i sistemi scolastici subiranno nei prossimi anni, in particolare per il 2020: un periodo quindi molto vicino a quel 2015 che abbiamo preso a riferimento per la nostra riflessione.
Lo studio delinea tre possibili scenari. Il primo è quello della conferma dello status quo: mantenimento di un forte "controllo burocratico" sul sistema (curricoli, formazione e accesso alla professione, finanziamento) da parte di autorità pubbliche, con conseguente stabilità, accompagnata però da una possibile carenza di docenti.
Il secondo scenario è quello della riscolarizzazione, cioè di un forte sviluppo del ruolo dei sistemi scolastici in termini strategici, sostenuto da adeguati investimenti. Il terzo scenario è quello invece della descolarizzazione, cioè dello smantellamento dei sistemi formali di istruzione e formazione, sostituiti da reti cooperative ("learning networks") gestite dalle comunità locali, o da una forte competizione tra agenzie formative e altri soggetti operanti in una logica di puro mercato. Questo terzo scenario potrebbe portare a "smantellare" la scuola, in particolare quella pubblica, così come la conosciamo oggi, approdando a modelli mai sperimentati e di cui non sarebbero conoscibili in anticipo gli effetti a livello sociale e culturale.

E’ evidente che l’assetto che avrà il nostro sistema di istruzione e formazione tra 10-15 anni dipende strettamente dalle scelte e dagli investimenti che si compiono e si pianificano ora.

*
* *
Un difficile crinale

Insomma sono tanti i segnali che portano, chi vuole ascoltarli, a pensare che la scuola si trovi su un difficile crinale, forse senza saperlo.
In una società in via di invecchiamento che avrà meno risorse da dedicare ai giovani, che si apre al sapere "non formale" e all’"informale", con un insegnante anziano e meno motivato, in un ambiente sempre più tecnologico e multirazziale, la scuola di oggi rischia di essere percepita come un luogo obsoleto e inadatto a soddisfare le esigenze di quelli che abbiamo chiamato i ragazzi del 2000+.
Ecco allora la scommessa dell’educazione che si giocherà nei prossimi anni. In gioco c’è la credibilità e l’esistenza stessa della scuola come istituzione di riferimento per la crescita e lo sviluppo della società.
Gli allarmismi non servono, ma l’invito a riflettere su una questione strategica per il nostro Paese è doveroso, e vale per tutti: operatori scolastici, genitori, decision e opinion makers, università, imprese. E mondo della politica.


Masci. Richiamo per punti le cose dette dal Dr. Vinciguerra: il gap multimediale; il fenomeno degli homeschoolers, cioè le persone che preferiscono studiare per conto loro piuttosto che rivolgersi alla scuola; gli insegnanti scoppiati, cioè il loro disagio psicologico; la multietnicità; il fatto che nella società si possa determinare una priorità sugli anziani piuttosto che sulle giovani generazioni a motivo dell’invecchiamento della popolazione; e infine lo scollamento tra la scuola, cioè i processi formativi, e il mondo produttivo per cui stiamo sfornando molte persone preparate in discipline umanistiche e poche in discipline scientifiche.
Passerei quindi la parola a Claudia Donati: il CENSIS da 37 anni osserva con particolare attenzione il mondo della scuola e dei processi formativi. Ovviamente lei potrebbe raccontarci tutto su quello che è successo nella scuola negli ultimi 37 anni e soprattutto negli ultimi anni, da quando se ne sta occupando direttamente. Di fronte agli scenari che il dr. Vinciguerra ha ipotizzato è possibile enucleare i fenomeni portatori di un trend? Esiste cioè in definitiva un pericolo di disgregazione della scuola?

Donati: il rischio del declino?

Masci: sì, il rischio del declino e anche un po’ di questo scollamento complessivo, che la scuola non sia più la scuola a cui siamo abituati, cioè la grande agenzia di formazione che soprattutto dà una formazione di base comune a tutti i cittadini e fa crescere tutta la società, ma semplicemente quella che dà una verniciatura uniforme minima essenziale sulla quale poi si innescano processi formativi che possono essere molto diversificati a seconda delle iniziative del singolo. Io faccio l’homeschooler e mi formo per conto mio, io ho i mezzi e vado a studiare non so dove, io azienda mi creo altri percorsi formativi magari alternativi e la scuola è un prodotto residuale o comunque semplicemente di base.

Donati: diciamo che il rischio del declino c’è, e che questi fattori sono quelli più nuovi rispetto ad un elenco che in realtà si sta precostituendo a partire da quando si è cominciato a dire che la scuola va riformata perché è auto-referenziale. La prima accusa da parte della società all’offerta scolastica era quella di non tener conto di una società che era in cambiamento. Da quel momento la scuola non ha fatto altro che cercare di inseguire quel cambiamento, ma nonostante le molte parole dette, essa è stata lasciata sostanzialmente sola a ragionare sul problema.
Mi sembra che quello che manca sia soprattutto un patto sociale nuovo rispetto alla mission generale della scuola. In realtà non è che la scuola non abbia più una sua funzione: semplicemente non svolge più la sua funzione tradizionale perché il pubblico è diverso. Si deve adattare a questo: quindi c’e bisogno in qualche modo di mettere nuovi paletti, di capire. Se ne parla molto, ma non si arriva ad una mediazione.

Masci: Lei ha la percezione che in qualche modo qualcuno - ma non mettiamo nessuno sul banco degli imputati - dica: ma che senso ha investirci se poi le aziende si fanno la loro formazione, se poi i ragazzi si hanno internet, se poi vanno a fare il master non so dove? E’ un po’ questo?

Donati: è anche un po’ questo, ma poi non si spiega perché invece Confindustria confidi molto in una scuola che mantenga ad esempio una forte impostazione tecnologica e dia una buona formazione di base. Anche se è giusto chiedersi che cosa si deve intendere oggi per formazione di base. Certo non una accumulazione di nozioni e di materie che devono "esserci per forza". Dovremmo in qualche modo stabilire che cosa si intende per formazione solida di base da qui al 2015-2020, e riferirci non solo ai contenuti ma anche ai metodi e all’utilizzo, cioè alla conoscenza "agita". La competenza che si richiede oggi è diversa: non si tratta solo di trasferire il sapere, ma anche il "saper fare e saper essere": su questo dobbiamo lavorare di più.

Masci: ma in concreto chi deve lavorare? Tutte queste varie agenzie di formazione a cui abbiamo fatto riferimento, siano appunto le aziende, siano le famiglie di loro iniziativa, possono essere queste a cambiare i processi formativi o secondo lei è la scuola che deve l’impostazione di fondo e la base?

Donati: l’impostazione di base spetta alla scuola o comunque a quella agenzia o gruppo di agenzie che la società riterrà dover fornire questo servizio.

Masci: (al Prof. Cortigiani, dirigente scolastico). La scuola e le generazioni stanno cambiando, ma gli insegnanti hanno la possibilità di adeguarsi al nuovo, e in qualche modo di interagire? Che cosa sta avvenendo?

Cortigiani: Vorrei passare da un piano di previsione, che sicuramente compete più al CENSIS o ai ricercatori, ad un piano di intenzioni di azione, anche perché mi sembra poco produttivo dividersi tra pessimisti apocalittici e ottimisti. E’ sempre un buon metodo quello gramsciano del pessimismo dell’intelligenza: analisi sempre prudenti e tendenzialmente pessimistiche ma poi accompagnate dall’ottimismo della volontà.
Intanto va detto che in questi ultimi anni qualcosa sta cambiando perché stanno iniziando ad entrare nella scuola i "missini". E poi se è vero che l’invecchiamento produce il burn-out, ci sono anche altri elementi su cui possiamo agire, per esempio il modello di professionalità. Io credo che l’insegnante che rischia di più lo scoppiamento sia l’insegnante impiegato, l’insegnante esecutore, l’insegnante che non studia più, non si aggiorna più, non autoapprende più da anni, se non da decenni. Per usare la metafora del professionista riflessivo, sicuramente l’insegnante che riesce è quello che ha gli strumenti culturali per affrontare i problemi, reimpostarli, e affrontare anche i conflitti perché nella scuola di valori, progetti e punti di vista ce ne sono tanti, e anche conflittuali. Un insegnante che agisce come professionista riflessivo sicuramente non è a rischio di burn-out. L’insegnante che ripete, che esegue, l’insegnante impiegato di fronte a tutto quello che sta succedendo nel mondo e nella scuola, alla società dell’incertezza, invece rischia.
Bisogna pensare, o ripensare, alla scuola come ambiente di apprendimento non solo per gli alunni ma anche per i docenti. Una scuola che è un ambiente di auto-apprendimento continuo per i docenti può essere una scuola che fa prevenzione del burn-out.
Accanto all’auto-apprendimento e all’auto-formazione, l’altro elemento di forza per combattere il burn-out è il gruppo: cioè la capacità del docente di lavorare con i colleghi in modo cooperativo, di stare nel gruppo, di vivere il gruppo come risorsa. Risorsa sul piano cognitivo perché sa cogliere dal gruppo idee esperienze ma anche risorsa emotiva, sostegno emotivo nei momenti di difficoltà.

Masci: Prof. Tagliagambe, di fronte ai fenomeni che abbiamo qui accennato, richiamati anche nell’analisi di Tuttoscuola, come si è posto lei, insieme ai suoi colleghi che hanno collaborato in questi ultimi anni ai progetti di riforma?

Tagliagambe: Il documento contiene molte verità, e quindi è una base di consapevolezza dalla quale partire. Ma questa base di consapevolezza non riguarda, tengo a sottolinearlo, soltanto la scuola italiana. E’ un problema che riguarda la scuola in tutti i sistemi complessi delle società contemporanee.
Un economista di fama, Bauman, aveva coniato una metafora, secondo me bellissima, per sottolineare il rapporto difficile, necessariamente difficile, costitutivamente difficile tra le tecnologie, l’innovazione tecnologica e i processi formativi. La metafora era quella di Mozart e il clavicembalo. Bauman diceva che se noi prendiamo il sistema Mozart-clavicembalo, nella loro epoca, e lo rapportiamo alla situazione attuale, studiando l’incidenza che lo sviluppo tecnologico ha avuto sull’uno e sull’altro, ci accorgiamo che la tecnologia ha inciso sul clavicembalo fortemente, velocizzando i tempi di produzione in maniera vertiginosa e quindi abbattendo in maniera altrettanto radicale i costi. Oggi la costruzione del clavicembalo costa molto, molto meno, grazie alle tecnologie, rispetto al tempo di Mozart. Se guardiamo invece alla formazione di un Mozart, cioè di uno specialista, di una persona competente nel settore musicale, vediamo invece che essa non si è modificata per quanto riguarda i tempi necessari. La tecnologia potrà avere inciso per quanto riguarda l’efficacia dei processi formativi, ma non ha inciso in maniera considerevole nella velocizzazione, perché la formazione, l’education, sono rimasti settori ad alta intensità di lavoro umano, dove la macchina non incide più di tanto.
Dunque nei confronti della tecnologia dobbiamo tenere conto di un duplice aspetto. I sistemi formativi non possono fare a meno delle tecnologie, e le tecnologie costano, ma d’altra parte le tecnologie applicate ai sistemi formativi non comportano un abbattimento dei costi, perché questi rimangono praticamente inalterati rispetto al passato. Questo è un primo problema, una prima difficoltà che credo debba essere tenuta presente.
Il secondo problema è quello di conciliare quantità e qualità all’interno dei processi formativi. Mi sembra che analisi come quella di Citati su Repubblica sono ovviamente rispettabili, ma provinciali, nel senso che circoscrivono l’attenzione al solo sistema italiano come se quelle difficoltà fossero "difficili" esclusivamente del nostro paese. Quello di una formazione di massa quantitativamente estesa che non vada a discapito della qualità, del rigore dei processi formativi, è il problema dell’Unione Europea nel suo complesso, sostanzialmente è il problema cardine di Lisbona, quindi non è un problema solo italiano.
C’è poi un terzo aspetto da considerare, ed è che l’obsolescenza delle conoscenze non è uno slogan. Un conto era dare una formazione nell’ambito di biografie in cui prima si studiava e poi si lavorava, e quello che si era appreso studiando serviva per tutto l’arco della vita. Un conto assai diverso è ragionare in epoche come la nostra in cui il tasso di obsolescenza media delle conoscenze è calcolato tra i 10-15 anni, e per settori di punta anche meno. Ormai escono decreti per cui per continuare a fare il medico o l’operatore sanitario bisogna costantemente aggiornarsi, e bisogna dimostrare di averlo fatto pena l’esclusione dalla professione. Un tempo questo era inimmaginabile. Oggi è corretto che l’apprendimento iniziale sia più leggero, e il fatto che le conoscenze iniziali siano destinate almeno in parte all’obsolescenza non costituisce affatto una catastrofe. Costituisce invece una catastrofe il fatto che questo non si traduca nella capacità di formare e costruire le competenze di base, quelle che come ci hanno insegnato i grandi pedagogisti come Piaget e altri, o si imparano in un determinato stadio della vita oppure non si padroneggeranno compiutamente mai più.
Dunque lo spostamento dell’attenzione dalle conoscenze alle competenze non è uno slogan, non è un motto, non è un modo di dire, ma una cosa profondamente radicata nella situazione attuale. Io oggi effettivamente mi devo preoccupare di dare agli allievi più che un arco totalizzante di conoscenze, che comunque non basteranno mai, delle competenze di base, quelle che Bateson chiamava le metacompetenze, quelle che mi mettono in condizione di saper leggere un libro autonomamente, di saperlo capire.
Eppure di fronte a questo proposito, che è sacrosanto, di individuare i saperi essenziali che si traducono in competenze di base che sono irrinunciabili - e sono irrinunciabili proprio perché se la scuola non li dà tra i 6 e i 15 anni c’è il pericolo che non vengano più recuperati - si grida allo scandalo, al minimalismo, al fatto di voler ridurre la scuola a fattori minimi. Questo è assolutamente non capire come è mutata la dislocazione della scuola, e della formazione che la scuola dà, nell’ambito del processo formativo generale. Se si parla di formazione lungo tutto l’arco della vita, questo significa che la scuola occupa uno spazio ben preciso e ridotto di questo orizzonte formativo, e questo non può essere considerato uno scandalo.
Vorrei sottolineare un altro elemento, che è quello del rapporto generazionale di cui si parlava. Qui noi italiani scontiamo una pecca, che è radicata nel nostro dna, e di cui altri Paesi non soffrono: è il fatto che l’ultima riforma organica e completa della scuola italiana è stata per noi la riforma Gentile. Dunque la scuola italiana è una scuola gentiliana, e con tutto il rispetto che si deve avere per questo grande filosofo, dire che quella italiana è una scuola gentiliana significa dire che è una scuola di impianto idealistico. Lo vogliamo dire? Diciamolo, visto che in molti documenti dell’attuale riforma della scuola si fa ancora una distinzione di impianto idealistico, che più gentiliana non si può, tra la teoria e la tecne.
Il problema di fondo è che nell’ambito della scuola italiana, per questa sua matrice di fondo, le tecnologie sono confinate all’uso: le tecnologie sono qualcosa da usare e consumare, non sono qualcosa che appartiene alla sfera degli stili percettibili di pensiero e che concorre a formare stili percettivi e di pensiero. Gli stili percettivi e di pensiero si formano con il latino, con il greco, con la matematica, con la filosofia, con l’italiano, una volta che sono stati acquisiti questi stili percettivi e di pensiero questi stili vanno applicati a contesti, vanno usati, ed ecco che subentra la tecnologia, l’angolo tecnologico in cui "si applica". Ora se c’è una cosa che le nuove generazioni, i bambini del 2000+, invece esprimono nel loro modo di essere culturale e intellettuale, è il fatto che sono bambini profondamente segnati nei loro stili percettivi e cognitivi dalla familiarità con le tecnologie. La familiarità con le tecnologie li mette di fronte a forme di realtà "aumentata", frutto della interazione forte tra spazio fisico e spazio virtuale che modifica, incide sui loro stili percettivi e cognitivi: il divario tra le generazioni si manifesta soprattutto sotto questo aspetto.
Occorre preoccuparsi del fatto che molti docenti pensano che la tecnologia sia applicazione e uso, e quindi tendono a sottovalutarla in modo abbastanza radicale per quanto riguarda gli stili cognitivi e i percorsi di apprendimento. Se non si supera alla radice l’idea che la tecnologia sia soltanto applicazione, e non ci si abitua attraverso la formazione a far entrare la tecnologia nei processi di apprendimento e nei processi di insegnamento come matrice costitutiva fondamentale, allora sì che il gap tra le generazioni rischia di diventare un evento drammatico.



Masci: Prof. Bagnara, il prof. Tagliagambe ha posto grande enfasi sul dato tecnologico e sul gap generazionale, ma non si è esagerato un po’ attribuendo alle tecnologie un ruolo forse eccessivo?

Bagnara: vorrei partire dall’esperienza che ho conosciuto negli ultimi anni, perché mi sembra che tocchi il problema di cui stiamo discutendo oggi. Io sono passato dall’insegnare psicologia cognitiva a Scienze della Comunicazione a Siena ad insegnare la stessa materia al Politecnico di Milano nella facoltà di Design. In fondo insegno le stesse cose, dal punto di vista del contenuto. Io insegno come si vede, come si percepisce, come si sposta l’attenzione, come si ricorda, come si traduce una decisione in una azione sull’ambiente. I contenuti sono esattamente identici, però dopo una lezione ho scoperto una cosa stravagante, che è questa: a Siena i ragazzi prendevano appunti, mentre a Milano facevano schizzi, facevano un disegno.
Se un insegnante si trova di fronte a un problema di questo tipo, può chiedersi per esempio se le intelligenze siano tutte uguali: può darsi che il modo di ricordare di alcuni sia diverso dal modo di ricordare di altri. Uno si ricorda parole e un altro si ricorda immagini. Ricollegandomi all’ultima parte dell’intervento di Tagliagambe, posso dire che in realtà noi abbiamo sempre avuto di fronte ragazzi con intelligenze diverse, abbiamo sempre avuto ragazzi con pensiero eminentemente visivo e altri ragazzi con pensiero eminentemente verbale. Io, per esempio, non ho un grande pensiero dal punto di vista visivo, e ho difficoltà a fare schizzi, preferisco mettere parole. Invece altre persone no. Quindi già il fatto che la scuola privilegi l’impianto idealistico, fondato sul primato del verbum, è la dimostrazione che c’è qualcosa di sbagliato. Il verbo è una tecnologia: basta leggere il passaggio dalla manualità alla scrittura di Walter J. Ong, che dimostra chiaramente che il pensiero dell’uomo è cambiato una volta che è stata introdotta la scrittura. La scrittura è una tecnologia e la nostra scuola da sempre è stata costruita su questa tecnologia che si traduce in libri, in scrittura. Però 2500 anni fa la gran parte dell’insegnamento e dell’apprendimento erano basati su una cosa diversa, e non sulla scrittura, erano basati sul ricordo di cose profondamente metaforiche e fondamentalmente immaginative.
Questa esperienza mi porta a dire che il problema vero che abbiamo di fronte è che questo tipo di scuola, fondato sulla parola, sul libro che sta nella testa dell’insegnante, che lo vuole ficcare in testa allo studente, anche quando non vuole e non lo capirà mai, questo tipo di scuola finirà certamente nel 2015. Ma questo non vuol dire che il fare scuola sia finito. Bisogna innanzitutto che il sistema scolastico divenga flessibile, che tenga conto che ci sono tante intelligenze diverse, e che impari a parlare il linguaggio dell’intelligenza di chi ascolta. Quindi grande flessibilità, e fine dell’idealismo inteso come verbum.
Ma c’è un’altra cosa importante da dire: a me ha molto colpito sentire i dati portati prima sul problema dei homeschoolers, li ho visti come la spia di un problema. Un problema colossale dato dal fatto che il sistema scolastico, specie negli Stati Uniti, è diventato sinonimo di violenza, non è un fenomeno educativo, è un luogo di incontro-scontro con la violenza. Ora, si capisce che dal punto di vista dei genitori ci sia un riflesso condizionato: se il luogo dell’educazione è diventato il luogo della violenza, mio figlio lì non lo mando. Quindi in gran parte il fenomeno degli homeschoolers è simile a quello che vediamo in Italia con le scuole private, che sono percepite come luoghi sicuri di insegnamento, al riparo dalla violenza.
C’è poi da dire un’altra cosa ancora più importante. Noi generalmente tiriamo su i figli all’interno di una logica che potremmo definire buonista o solidaristica. Pensiamo che la scuola non è buona quando non insegna a stare bene assieme, e che non insegna quando c’è violenza. Invece la cosa più importante che ho imparato a scuola, e tutti noi credo abbiamo imparato a scuola, è la capacità di gestire il conflitto. A scuola non abbiamo imparato a "stare bene assieme", l’insegnamento più importante, la vera competenza acquisita, è stata la competenza sociale, la capacità di gestire il conflitto.
Ecco: se c’è una cosa che mi fa molta impressione, e ritengo pericolosa dell’atteggiamento degli homeschoolers, è proprio il fatto che esso priva i ragazzi di una competenza di base del vivere sociale. Il senso di protezione, la paura della violenza, portano di fatto a una deprivazione sociale e cognitiva da parte degli studenti. Conosco i test americani, e so che per esempio uno può essere bravissimo dal punto di vista matematico ma, scusate il termine, un perfetto cretino sociale che non può stare assieme agli altri: la percentuale più alta in matematica o in inglese non è rilevante socialmente. La scuola è anche un luogo che insegna a gestire le frustrazioni, dove puoi prendere un brutto voto, dove impari che il momento migliore per imparare è quando sei fallito. Ci sono ricerche bellissime fatte fra l’altro da fonti insospettabili, gli israeliani, che dimostrano che il momento più importante del tuo apprendimento è quando stai sotto scacco: è allora che scatta qualcosa di molto importante. La scuola quindi deve diventare un luogo, come si dice, dove sai gestire conflitto e frustrazioni, dove ti metti a confronto.
C’è poi un’ultima cosa che fa a pugni con il modello idealista, ed ha a che fare con il lavoro. Il lavoro dei nostri giorni è un lavoro strano, non il lavoro di tutti ma il lavoro di quel 15-20% della società che impone i suoi modelli agli altri. 50 anni fa il modello imposto a tutta la società era il modello industriale, il modello dell’uomo industriale, ma attualmente chi pensa che la società sia ancora fatta sul modello dell’uomo industriale? E qual è il nuovo modello che sta venendo fuori, quale è il gruppo sociale che sta imponendo, non politicamente, i propri comportamenti al tessuto sociale? E’ il gruppo che Richard Florida, in un libro uscito l’anno scorso, descrive come la "classe creativa", la classe cioè che non produce prodotti ma produce idee. Un prodotto si consuma nel tempo che occorre per consumarlo, l’idea si consuma immediatamente, appena detta ce l’hanno tutti e non vale più, è quindi una classe che è costretta a proporre immediatamente nuove idee, pena la sua morte. E’ la vera classe nuova.
Quali sono le caratteristiche di questa classe? Innanzitutto non ha tempi di lavoro, nel senso che non può produrre idee dalle 8 di mattina alle 5 di pomeriggio. E poi le idee possono venire durante tutta la giornata, è finito il tempo come misura del lavoro. Per questa classe sociale la misura del lavoro è la capacità di produrre una cosa nuova. In una città organizzata attorno a questo gruppo sociale, i ritmi sono diversi da quelli della città industriale, la notte e il giorno non si distinguono un granché. Questo gruppo sociale ha un’altra caratteristica, va dove ha occasione di lavorare. Pensate che c’è sempre stato questo gruppo sociale, la cosiddetta classe creativa - per esempio il gruppo degli attori, dei registi, di quella grande industria mondiale che è il cinema (infatti si parla di modello organizzativo Hollywood). Ma una volta esso era descritto come un gruppo sociale particolare, stravagante, e non veniva mai assimilato dagli altri: i suoi componenti erano i "diversi".
Questo gruppo sociale ha anche un’altra caratteristica interessante per il nostro discorso: è un gruppo che impara sempre, quindi con il sistema scolastico ha un rapporto molto flessibile, che dura per tutta la vita. Ecco: un sistema scolastico adatto a questo gruppo sociale cambia completamente i suoi tempi.
Un’altra caratteristica, che forse è la più importante di tutte, è che questo gruppo sociale non può sopravvivere se non ha alcune condizioni di vita: siccome cambia posto di lavoro, luogo di lavoro in funzione delle opportunità del progetto che sta seguendo, esso non può pretendere, ogni volta che cambia città, di trovare un posto di lavoro diverso tecnologicamente. Io posso spostarmi da NewYork a Houston in Texas, da Houston a Singapore e lavorare bene soltanto se ho la stessa infrastruttura tecnologica che mi consente di esprimere le mie idee e di produrre idee. Sostanzialmente, e questa è la cosa più rilevante, è la tecnologia che diventa una condizione di vita e di lavoro per queste persone, e questa tecnologia deve essere identica: devo trovare la stessa tecnologia sia a Seattle sia quando vado a lavorare a Tokio. Questo vale non solo per i cinematografari ma anche per un grande medico: un chirurgo non è più un grande medico se lo sposto da Houston a Palermo perché non trova le stesse infrastrutture che sono parte essenziale della sua competenza professionale.
Allora vedete che non è che alla scuola basti avere l’aula di informatica, anzi, avere l’aula di informatica e basta è un suicidio. L’informatica deve essere strutturale a tutto perché è strutturale a tutto, a qualsiasi lavoro io faccio, quindi mi è essenziale sia quando faccio latino, o greco, o matematica, o disegno. Quindi la tecnologia non è una materia in più, e neppure una sottomateria, come spiegava prima il professor Tagliagambe, è la pre-materia, quella che sta alla base di tutto, sostanzialmente è la nuova penna. Non posso pensare di scrivere se non ho la penna, così non posso pensare di lavorare nel mondo moderno se non ho la tecnologia.
Allora nel 2015 morirà la scuola? Quella del passato sì, deve morire, ma una scuola nuova, un sistema scolastico più flessibile e più completo, può vivere. Problema: cosa faranno gli insegnanti attuali? È il vero problema della praticabilità politica della questione. Faccio solo un esempio, chiudete gli occhi, e immaginate un ufficio postale di 20 anni fa: era sporco, venivate trattati come pezze da piedi, e gli impiegati non si accorgevano che eravate lì, andavano a prendersi il caffè quando volevano. Andateci adesso, confrontate i due ambienti, ma non solo gli ambienti, confrontate il modo di comportamento, le capacità d’uso delle tecnologie che hanno le persone dietro lo sportello, che non c’è neanche più. Possibile che i postini siano stati capaci di questa grande trasformazione e gli insegnanti no? Non possiamo pensarlo.

Masci. Posso coinvolgere il Prof. Niceforo, consulente del Miur e collaboratore di Tuttoscuola, che vedo tra il pubblico? So che Lei ha studiato e conosce bene questo fenomeno degli homeschoolers. Venga a raccontarcelo.

Niceforo. Ci sono arrivato quasi per caso a studiare questo problema. Lo avevo visto segnalato in articoli su giornali americani, e ho cercato come molti oggi fanno in Google. La prima volta ho trovato ben 1milione e 200mila citazioni. Ma nei giorni scorsi le citazioni avevano superato i 2 milioni. E’ un fenomeno di massa, ci sono almeno 10-15 reti che organizzano servizi alle famiglie, a sostegno di coloro che preferiscono togliere gli allievi dalle scuole e gestire direttamente i processi formativi. La cosa che trovo più interessante è che questo fenomeno non è più soltanto legato al desiderio di alcune famiglie di togliere gli allievi dalla violenza delle scuole pubbliche, di proteggerli dalla decadenza morale, dalla mancanza di valori della scuola pubblica che peraltro in America, contrariamente da quanto si ritiene, è frequentata dal 90% degli studenti.
Trovo che l’aspetto più interessante delle tendenze in atto, è che anche alcune scuole, per esempio quelle della California, si stanno accostando ad un tipo di gestione del rapporto docente-allievi e scuola-allievi che prende dal fenomeno degli homeschoolers alcuni elementi. Anche in Francia, dove ci sono sperimentazioni sulla scuola corta di 4 giorni alla settimana, si ritiene che una parte del lavoro di apprendimento che si faceva tradizionalmente in aula, tra le mura fisiche di un’aula, si possa gestire a distanza.
Ecco, questa è la cosa probabilmente più interessante, che potrebbe portare nel giro di 10-15 anni, forse anche da noi, non a un fenomeno di homeschooling come negli Stati Uniti, ma a un diverso rapporto tra attività fatte dentro e fuori della scuola: questa è una prospettiva interessante, perché si avvarrebbe di quelle tecnologie che stanno diventando ormai la pre-condizione dell’apprendimento del nostro tempo. Per questo credo che ci possa aiutare studiare questi fenomeni.


Masci. C’è qualche domanda dal pubblico ai nostri relatori? Ecco si presenti e faccia la domanda.

Mi chiamo Luca Corti, sono insegnante, ringrazio i relatori. Ho insegnato diversi anni negli Stati Uniti. Il fenomeno homeschooling di cui abbiamo parlato secondo me più che essere legato alla violenza - che è un problema ma non è "il" problema degli Stati Uniti – va visto in maniera articolata, perché se parliamo per esempio del Massachusset, non parliamo dell’Arizona e non parliamo nemmeno della Nuova California, gli Stati Uniti sono un grandissimo Paese. Per esempio io ho abitato nella costa dell’Est, e devo dire che lì ci sono norme restrittive sulle armi a fuoco che sono molto più restrittive delle nostre. Quindi bisogna fare notevoli differenziazioni.
Il problema degli home-schoolers è legato, per quello che è la mia percezione, alla rinascita di un certo tipo di new-age di destra, confessionale, legata ai predicatori, che non crede più nella scuola pubblica, come è stato detto poco fa dal professore, perché in realtà non crede più nella società civile e non crede più nemmeno nella Costituzione americana. Quindi quei 2 milioni di persone io credo che per l’80% siano persone che non si riconoscono più nemmeno in quella società civile. Il problema casomai è la rivincita di un certo tipo di destra che poi ha visto la rivincita delle elezioni da parte di Bush.
Non ho da fare una domanda specifica, però secondo me nel 2015 - il problema che stiamo dibattendo – quella che si prospetta è la fine della scuola pubblica, e non la "fine della scuola" e basta. La fine della scuola pubblica, su questo concordo con il prof. Tagliagambe, coincide con la scomparsa dei saperi essenziali, che è un problema fondamentale. A scuola, io che sono insegnante e sono tornato dall’estero, vedo che si fa di tutto tranne che insegnare e apprendere questi saperi essenziali. C’è una bellissima frase di Pascal che diceva, e qui concludo, "vorrei insegnare ai miei bambini di tutto tranne ad essere disonesti". Il problema è che bisognerebbe ricominciare a insegnare quei saperi essenziali e non infarcire la scuola di educazione alla pace eccetera: cose importanti ma che devono entrare attraverso i saperi cognitivi, i saperi affettivi e i saperi razionali.

Masci: raccoglierei qualche altra domanda.

Sono Canepa, insegnante irrequieto, come mi hanno definito, su vari ordini di scuola.

Masci: è un insegnante scoppiato?

Canepa. No, faccio scoppiare perché mi piace uscire dalle regole ed essere propositivo: le regole uccidono la fantasia, con le dovute eccezioni. Concordo con quanto diceva il collega circa i saperi essenziali, i ragazzi oggi effettivamente sono bombardati da mille informazioni, hanno un sapere tecnologico, cioè di approccio alla tecnologia, superiore a quello che potevo aver avuto io, diciamo 40 anni fa. Hanno sicuramente un approccio facile, ma non la padronanza della tecnologia. Il problema è che non sanno ascoltare.

Tagliagambe
Tra i problemi fondamentali della scuola italiana c’era quello della difficoltà di passaggio da un ciclo all’altro. In una scuola articolata in cicli che sono stati riformati, o non riformati, in tempi diversi e con obiettivi diversi, è assolutamente normale e fisiologico, e non patologico, che il passaggio dalle elementari alle medie sia un problema, e che il passaggio dalle medie inferiori o dalle scuole secondarie di primo grado, come si dice oggi, alle scuole secondarie di secondo grado, costituisca uno scoglio per molti studenti difficilmente superabile.
A questo si aggiunge oggi un altro fatto di cui non possiamo non tenere conto, cioè il fatto che anche il passaggio dalla scuola secondaria superiore all’università è diventato uno scoglio se è vero, come è vero, che i test di prove di ammissione ai corsi di laurea e di possesso dei requisiti da parte degli studenti che si iscrivono ai diversi corsi di laurea, danno per i diversi corsi di laurea, e in maniera abbastanza omogenea per le diverse aree del paese, una media di studenti che possiedono questi requisiti non superiore al 35% . Questo vuol dire che non più di uno studente su 3, che esce dalla scuola secondaria superiore, è attualmente preparato per affrontare i corsi di laurea universitari ai quali si iscrive, tanto è vero che tutti i corsi di laurea che non hanno il numero chiuso sono costretti come sappiamo a fare nei primi 2-3 mesi della loro attività i cosiddetti "corsi di riallineamento". Questo, in un corso di laurea che ormai almeno per quanto riguarda la prima fase ha una durata di 3 anni, diventa un peso notevole che incide sulla qualità dell’istruzione dell’Università.
Allora, se questo è il problema, è evidente che la soluzione immediata che viene in mente è la progettazione il più possibile verticale della progressione dello studio, e l’abbattimento, la riduzione, la maggiore possibile, degli scollamenti, e quindi del numero dei cicli. Andare nell’accorpamento del ciclo della scuola elementare e della scuola media inferiore, secondo me è giusta la diagnosi che abbiamo fatto, costituiva la giusta risposta a un problema determinato in questa misura. E’ per questo che non posso condividere il fatto che si torni invece a differenziare profondamente il ciclo delle elementari dal ciclo delle medie, mettendo nel dimenticatoio tra l’altro il fatto che nel frattempo in Italia negli ultimi 10 anni è stata avviata l’esperienza degli istituti comprensivi, e che questi istituti a progressione verticale, elementare e media, hanno dato risultati altamente positivi.
Allora, noi facciamo questa diagnosi, e a sostegno di questa diagnosi citiamo l’esperienza positiva degli istituti comprensivi, e cosa ti fa il ministro? Ritorna alla separazione dei cicli tra l’elementare e la media. Non mi sembra una risposta geniale, ed è evidente che rispetto a questa risposta io mi devo, come autore del primo rapporto, dissociare, altrimenti ci sarebbe una discrasia tra il tipo di diagnosi che noi abbiamo fatto e la risposta che viene fornita.
L’altro aspetto da considerare era proprio il tentativo di dire: ma insomma, oggi c’è un’esperienza pedagogica che parte da Piaget, attraversa Vigotsky e arriva quanto meno a Bateson, che dice che la cosa più importante che la scuola dovrebbe fare, almeno nel primo ciclo (io continuo a parlare del primo ciclo come di qualcosa di indifferenziato), è di insegnare ad apprendere. Bateson sottolinea il fatto che l’obiettivo che io devo perseguire è di mettere lo studente in condizione di formarsi, e questo io non lo faccio attraverso le conoscenze.
Vi faccio un esempio, perché voglio calarmi il più possibile nell’empiria: in Sardegna è partito proprio a settembre di quest’anno un progetto di cui sono il responsabile scientifico (tra le altre cose ne ha parlato Tuttoscuola per 2 numeri, e li ringrazio per questo). Il progetto propone all’attenzione degli insegnanti dei materiali didattici innovativi di carattere multimediale, che sono tra l’altro semilavorati, che cercano cioè di rompere, a proposito della frustrazione dei docenti, il circolo autore-editore per cui ai docenti vengono proposti materiali didattici di cui non sono minimamente coautori e corresponsabili, ma sono semplicemente fruitori e destinatari passivi. Noi invece proponiamo dei semilavorati, dei frames che vanno poi completati nel lavoro didattico quotidiano in classe dai docenti e dai loro studenti. Programmaticamente abbiamo scelto tre tipologie di materiali didattici.
La prima è un manuale, un semilavorato disciplinare di fisica curato da Tullio Regge con annesso un laboratorio virtuale di fisica. Poi un manuale interdisciplinare sempre semilavorato, e abbiamo scelto la bioetica come interfaccia tra le discipline biologico-mediche da una parte e le discipline umanistico-filosofiche dall’altra. Lo abbiamo fatto anche per dare contenuti concreti all’esercizio della cittadinanza, oggi si discute dei problemi di bioetica ma se ne discute senza avere alle spalle una conoscenza sufficientemente solida. La terza tipologia è un manuale tipicamente trans-disciplinare, orientato a formare competenze e non conoscenze, ed è un manuale di competenza linguistica. La caratteristica di questi manuali è che hanno tutti progressione verticale, cioè partono dalle materne, sempre lo stesso manuale, e arrivano alle secondarie: così il bambino, il ragazzo, lo studente hanno la possibilità di andare avanti e indietro attraverso i manuali.
Cosa significa un manuale di competenza linguistica? Lo dico per rispondere almeno a tre delle domande: significa che io spiego già al bambino delle elementari che cosa è il codice, che significato ha all’interno del codice il segno, che differenza c’è tra significante e significato, tra significato e referente, gli spiego altresì che se vuole passare da un codice ad un calcolo ha bisogno di una struttura che si chiama sintassi, e gli spiego che cosa è la sintassi, che se ha bisogno di passare dal calcolo alla lingua naturale, sia inglese o francese o italiano, ha bisogno di una semantica, e quindi di modelli interpretativi. Ecco, queste non sono conoscenze incasellabili all’interno di nessuna singola disciplina, però io sfido chiunque a dire che siano competenze che non servono, visto che danno al ragazzo la familiarità con tutti i linguaggi che si troveranno all’interno della loro carriera scolastica.
Bene, viene un ispettore ministeriale a visionare i materiali, e mi dice testualmente - e questo è agli atti - che sì, capisce l’utilità del manuale di fisica e al limite, molto al limite, di quello di bioetica, ma non capisce proprio che significato abbia un manuale di competenza linguistica posto che non è incasellabile all’interno di nessuna disciplina e non si capisce quale sia il docente che lo deve adottare e che lo deve insegnare. Ecco, è evidente che se io mi trovo di fronte ad una impalcatura di questo genere, tutti i discorsi relativi al passaggio al "deuteroapprendimento", al possesso di strumenti che mi mettano in condizioni di capire e di formarmi anche autonomamente conoscenze e competenze, vanno a farsi benedire. Questo è un aspetto molto importante, e concordo assolutamente con Sebastiano Bagnara quando dice che la competenza fondamentale, anche questa sottovalutata, che la scuola dovrebbe concorrere a formare, è quella di carattere emotivo, che si esprime nella capacità di gestire i conflitti.
Insomma le ricerche dei neuroscienziati ci dicono ormai che, contrariamente a quello che si pensava prima, studiando il cervello è emerso che c’è un intreccio sempre più profondo tra la sfera cognitiva e la sfera emotiva. Damasio inizia il suo libro con il caso di un suo paziente che proprio perché era stato colpito nella sfera emotiva aveva un disinteresse e un distacco tale nei confronti di qualunque contenuto gli venisse proposto che pur mantenendo un quoziente di intelligenza altissimo, la sua capacità di apprendere era crollata.
Insomma, un contenuto che ha forte valenza emotiva ha capacità di radicamento nel tessuto cognitivo molto superiore rispetto a un contenuto che si presenta in un ambiente emotivamente neutro: è evidente che se noi teniamo presenti questi aspetti la competenza emotiva diventa un elemento fondamentale anche della stessa formazione cognitiva. Ecco, di fronte ad uno spettro di questo genere, devo dire – e dobbiamo abituarci a fare nomi e cognomi - che subito dopo che uscì il documento sulle competenze essenziali uscì un libro, che poi divenne il libro manifesto di una nuova associazione costituita ad hoc, che si intitolava "Segmenti e bastoncini" in cui si diceva che i promotori di questo documento intendevano rimbambinire la scuola ed eliminare il valore di qualunque apprendimento di carattere cognitivo basato sulle conoscenze perché erano dei poveri di spirito per i quali chiamare i segmenti "bastoncini", magari bastoncini di pesce, era esattamente la stessa cosa.
Ecco, forse non riflettiamo abbastanza sul fatto che il 90% delle conoscenze attualmente disponibili è ultracontemporaneo - sono conoscenze che si sono formate e sono maturate dal 1910 in poi - e che l’80% dei ricercatori viventi dall’inizio della rivoluzione scientifica moderna ad oggi è vivente, e che quindi la progressione delle conoscenze è tale per cui è evidente che nessun contenitore scolastico, anche quello meglio confezionato, che punti sulle conoscenze può darsi un orizzonte di vita che superi i 15 o 20 anni. A meno che, come dicevo, non punti sulle competenze fondamentali, cioè su quelle che rimangono per tutto l’arco della vita. Non ci sono oggi conoscenze che rimangono per tutto l’arco della vita, se non in numero abbastanza ridotto: quelle che rimangono per tutto l’arco della vita, se le andiamo ad esplorare bene, sono competenze, competenze logiche, competenze linguistiche, e non contenuti conoscitivi.

Cortigiani. Si sono dette molte cose che condivido, alcune riguardanti il curricolo: la centralità delle competenze, la pluralità delle intelligenze, la creatività. Dirigo una scuola che ha fatto 25 anni di sperimentazione, puntando anche sull’espansione dei linguaggi non verbali, ma oggi occorre guardare più avanti, perché credo non si possa non dire che le riforme incidono forse anche oltre il 2015. In fondo 10 anni per una riforma scolastica, per il dispiegamento dei risultati di una riforma scolastica, sono perfino pochi: quello che sta succedendo oggi inciderà sul 2015, e probabilmente anche oltre.
E qui devo constatare che le discipline, i linguaggi non verbali, nel segmento di scuola in cui lavoro - la scuola media - sono stati fortemente ridotti. 60 ore in meno, nell’arco di un anno scolastico, dedicate ad arte, musica e fisica sono oltre il 10% in meno rispetto a prima. Quindi da un lato si parla della pluralità delle intelligenze, della creatività e della centralità delle competenze, ma dall’altro si agisce credo in una direzione contraria.
L’altra dimensione che volevo riprendere è quella dei poteri. Concordo, per quello che so, con quello che ha detto l’insegnante sul fenomeno degli homeschoolers. Credo che questo fenomeno possa essere considerato come un aspetto rivelatore di una tendenza di fondo, che punta a spostare l’asse dei poteri dall’offerta formativa pubblica, quindi dal corpo professionale della scuola, docenti e dirigenti come interpreti e mediatori della cultura da trasmettere, alla cosiddetta società civile. Con l’abolizione del vincolo territoriale del bacino di utenza, forse è iniziato anche da noi un percorso liberistico, o comunque di deregolamentazione del sistema scolastico. L’autonomia delle scuole, nata come autonomia dallo stato centralistico e burocratico, rischia nei prossimi anni, ma già da adesso, di dover affrontare un problema opposto: quello della difesa dell’autonomia professionale delle scuole e del loro piano dell’offerta formativa dal rischio di subalternità rispetto agli interessi egoisti, e spesso forti, che si esprimono sul versante delle famiglie e degli interessi forti della società civile.

Vinciguerra. Colgo l’occasione, per ringraziare sia i relatori che il pubblico che ci ha seguito. Vorrei di nuovo tornare su un punto: che è opportuno porsi questi problemi non in chiave catastrofica o allarmistica ma certamente per non farsi trovare impreparati di fronte alla prospettiva che tra 10 anni un ragazzino o un adolescente possa alzare gli occhi verso la cattedra e dire: "ma quella signora cosa ha da insegnarmi?".
Un docente ha fatto un intervento interessante, sostenendo che si dovrebbe parlare di fine della scuola pubblica, e non della scuola tout court. Ma in effetti quanto abbiamo dibattuto tocca la scuola in generale, pubblica e privata: è in generale la scuola come istituzione, al di là che sia pubblica o privata, ad entrare in crisi. La scommessa dell’educazione che si giocherà nei prossimi anni è proprio quella della credibilità e dell’esistenza stessa della scuola come istituzione. Allora, se questo è "il paese che non amava la scuola" - consentitemi la citazione di un volume di Alfredo Vinciguerra, fondatore di Tuttoscuola – forse noi non abbiamo ricette da dare, però sentiamo il dovere preciso di promuovere una riflessione a tutti i livelli. Gli allarmismi non servono, serve riflettere su una questione strategica per il paese che dovrebbe entrare nell’agenda politica dei prossimi anni, possibilmente non solo in tempo di elezioni ma anche nell’operatività.

 









Postato il Domenica, 25 dicembre 2005 ore 21:39:27 CET di Salvatore Indelicato
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