'2015, fine della scuola?' Atti del convegno di Tuttoscuola
Atti del Convegno nazionale promosso da Tuttoscuola
2015, fine della scuola?
Alcune tendenze in atto a livello internazionale e nella società italiana
prefigurano per l’educazione uno scenario, nel volgere di pochi anni, del tutto
inedito, e pongono un interrogativo per certi versi inquietante: la scuola
rischia di essere messa fuori gioco, percepita dagli adolescenti di domani come
un’istituzione inutile?
Genova, 26 novembre 2004 Convegno presso ABCD, il salone sulla scuola promosso
dalla Fiera di Genova
Introduzione:
Giovanni Vinciguerra – Direttore Tuttoscuola
Relatori:
Sebastiano Bagnara - Ordinario di psicologia ed ergonomia cognitiva al
Politecnico di Milano
Paolo Cortigiani - Dirigente Scuola Media Statale "Don Milani - Colombo" di
Genova
Claudia Donati - Responsabile area Scuola del Censis
Silvano Tagliagambe - Ordinario di epistemologia del metodo all'Università di
Sassari
Moderatore:
Raffaello Masci - Giornalista de "La Stampa"
Vinciguerra:
Il titolo che abbiamo scelto per questo convegno "2015, fine della scuola?", è
una domanda dal sapore vagamente provocatorio. Anzi volutamente provocatorio. E
in fondo paradossale. E’ un paradosso pensare che nel breve arco di un decennio
l’istituzione scuola come la conosciamo oggi e come si è sviluppata nell’ultimo
secolo possa "finire".
Del resto tutti noi NON VOGLIAMO che finisca, anche perché chi ci lavora, dal di
dentro o intorno ad essa, crede – nella maggior parte dei casi – in quello che
fa.
Ma questo non può far indulgere a un sereno ottimismo, non implica chiudere gli
occhi e anche le orecchie davanti a fenomeni e tendenze ormai ben visibili e
documentabili, come tenteremo di fare oggi e come abbiamo già fatto nello
speciale del numero di dicembre 2004 di Tuttoscuola.
Si tratta di tendenze per le quali non è difficile pronosticare degli effetti
rilevanti – diretti o indiretti - sul modo di fare scuola, sui compiti che la
società richiederà ad essa in futuro. Sono in atto dei cambiamenti a livello
economico, sociale, geopolitico che metteranno seriamente in discussione
l’istituzione scuola come la conosciamo oggi e il rapporto docente-alunno: un
rapporto che forse non a partire da domani, ma già da oggi è diventato più
complesso. E nuove complessità lo investiranno.
Non ci riferiamo solo, lo dico subito, alle nuove tecnologie, che pure
rappresentano un fattore di cambiamento radicale, ma ormai ben noto. Ci
riferiamo ANCHE ad esse, ma pure ad altri fenomeni, di natura e intensità
diverse, la cui concomitanza fa accendere tante spie rosse, che insieme generano
– immaginiamoci nella cabina di pilotaggio di un aereo - uno stato di
pre-allarme, chiamiamolo così.
Fenomeni in taluni casi meno noti, o comunque non tutti messi in relazione con
il contesto formativo: il tasso di invecchiamento (della società e degli
insegnanti), la multietnicità, la concorrenza di altre agenzie e luoghi
formativi, il malessere e la crescente disaffezione di molti insegnanti, per
citarne alcuni. Li scorreremo velocemente tra poco.
Del resto non siamo i soli a porci degli interrogativi sul futuro: lo scrittore
Pietro Citati scriveva recentemente su "Repubblica" di una tragedia annunciata:
"Dopo il disastro della Parmalat, dell’Alitalia, delle squadre di calcio, il
disastro del liceo e dell’Università avrà presto dimensioni e conseguenze tali
che gli altri sembreranno lievissime carezze di piuma".
Lo stesso ministro dell’istruzione Letizia Moratti alla domanda se può davvero
venir meno la struttura formativa di base garantita dalla scuola italiana, ha
risposto - con disinvoltura - che essa "è già, nei fatti, venuta meno", e che "i
livelli di apprendimento si sono via via abbassati soprattutto per quanto
riguarda le conoscenze fondamentali (italiano, matematica e scienze)". Da qui,
secondo lei, il senso delle sue riforme. Ma non è di questo che vogliamo parlare
oggi.
Ha detto qualche giorno fa il Presidente della Repubblica parlando ad Enna a
degli studenti: "Il primo dei nostri doveri è di dare a voi giovani scuole di
ogni ordine e grado che vi consentano di sviluppare tutto il potenziale della
vostra intelligenza, della vostra voglia di fare". Ecco, il saggio richiamo del
Presidente Ciampi, rischia di arrivare tardi.
Si tratta di un rischio potenziale, assolutamente non di una certezza, e non
saremo certo noi a fare le "cassandre" per la scuola. Ma vale la pena studiare a
fondo il problema, guardarci bene dentro. Prevenire è meglio che curare...
Ecco, far acquisire la consapevolezza che siamo di fronte a tendenze che
imprimeranno nei prossimi anni un cambiamento di intensità inedita è l’obiettivo
principale della nostra inchiesta e di questo convegno. Ciò che auspichiamo è
proprio che sia l’avvio di una riflessione e di un dibattito.
*
* *
Siamo partiti nella nostra analisi da un dato, che ci ha fatto scattare alcune
domande. Si tratta, per meglio dire della contrapposizione tra due dati, che
generano un contrasto stridente:
se si fa una proiezione a dieci anni delle figure del docente e dello studente,
si scopre che circa l’80% dei docenti del 2015 è già in servizio oggi. Degli 820
mila docenti, di ruolo e non, di oggi, circa 635 mila saranno ancora in cattedra
tra 10 anni. Ma lo studente del 2015 sarà profondamente diverso da quello di
oggi, molto più di quanto quest’ultimo non sia rispetto a quello di dieci anni
fa.
Se già oggi il modello del docente tradizionale comincia a "stare stretto" allo
studente curioso, inserito nel proprio tempo, cosa succederà tra dieci anni allo
stesso docente che si troverà di fronte un adolescente ancora diverso, che avrà
interiorizzato sia il progresso tecnologico, sia la società multirazziale e
globalizzata?
Insomma, se la scuola non si adegua rischia di essere tagliata fuori, di "non
servire più" alla società che dovrebbe formare e rispetto alla quale offrirebbe
modelli superati. L’adolescente del 2015 accetterà di dedicare ad essa tanta
parte del suo tempo?
E’ sufficiente che lo studente-tipo guardando un giorno chi sta dietro la
cattedra arrivi a chiedersi: "ma cosa ha da insegnarmi quella signora?". E certo
non aiuteranno l’aula scrostata e il banco rotto, teatro triste del fare scuola.
Il rischio è quello di una nuova frattura generazionale, diversa da quella del
’68, non più a carattere ideologico e politico, ma basata sull’insofferenza
dell’adolescente di domani, sulla perdita di credibilità e di senso
dell’istituzione scuola, sulla sua incapacità di comunicare se stessa, di usare
linguaggi e strumenti diversi.
Se questi sono rischi concreti, cosa può fare la scuola per evitarli? Ci sono i
tempi tecnici per prepararsi?
Il 2015 è una data non così vicina da ancorare le previsioni evolutive agli
assetti esistenti, ma neppure tanto lontana da rendere immaginaria qualunque
ipotesi sui cambiamenti futuri.
Nel giro di un decennio gli scolari nati nel terzo millennio, cresciuti in un
"brodo tecnologico" con computer palmare e videotelefono, connessi a internet
dalla nascita, abituati al compagno di banco straniero, ad essere giovani in una
società sempre più anziana, come guarderanno il loro "prof."?
Cosa si aspetteranno da lui, potendo già contare su potenti strumenti
alternativi di conoscenza e di informazione e su innumerevoli stimoli, quali
avranno a disposizione nell’era, ormai dietro l’angolo, della banda larga e
della piena integrazione TV-telefono-PC?
Le direttrici del cambiamento
La prima è:
• Il gap multimediale: si allarga il divario tra le abilità informatiche di un
cinquantenne e di un 14enne. Tra dieci anni un bambino delle elementari potrebbe
possedere una competenza informatica superiore a quella della maestra. Quale
impatto avrà sul loro rapporto?
L’avvento del computer e di Internet sta scavando un fossato tra la generazione
alla quale appartengono quasi tutti gli attuali genitori e insegnanti e la
generazione del 2000+.
Pensiamo al nuovo servizio che ha annunciato solo pochi giorni fa il motore di
ricerca Google: si chiama "Google Scholar" e permette di ricercare parole-chiave
dentro intere biblioteche, paper di congressi scientifici, database e in tutto
ciò che sia conoscenza accademica e sia stato inserito nel web. In pochi secondi
si può avere a disposizione l’informazione selezionata sul meglio che l’umanità
ha prodotto su un certo argomento.
Solo fino a pochi anni fa sarebbe stato impensabile. E proviamo a immaginare
cosa sarà disponibile tra qualche anno. Secondo Federico Faggin, scienziato
italiano trapiantato negli Usa dove ha realizzato il primo microprocessore della
storia, nel 2050 l’informazione contenuta in 100 milioni di libri tradizionali
entrerà nelle tasche dei nostri blue jeans. E non bisognerà aspettare quella
data per avere facilmente a disposizione, su qualsiasi argomento, documentazione
in grado di annichilire il confronto con qualsiasi libro di testo.
Si calcola che il gap tecnologico che esiste oggi tra una persona anziana e il
proprio nipote, è molto più consistente di quello che c’era una volta tra un
anziano completamente analfabeta e il nipote che andava a scuola.
E andando molto più indietro nel tempo, se tra noi e gli antichi romani ci
separano circa cinquanta nonni, si può sostenere che non ci sia mai stato in
tutto questo arco di storia un potenziale gap tanto ampio tra un nonno e un
nipote come quello di oggi e dei prossimi anni.
Quale l’origine di questo gap? La scuola ha finora educato all’analiticità,
avvalendosi massicciamente dei libri di testo. E la stragrande maggioranza degli
attuali insegnanti (che saranno in servizio anche nel 2015) si è formata sui
libri. I giovani, i giovanissimi e ancor più le prossime generazioni,
cresceranno invece in una realtà sempre più multimediale, orizzontale,
reticolare, iconica.
Il mondo della scuola riuscirà a colmare il gap che già oggi si nota tra il
modello culturale (e pedagogico) monomediale del suo passato-presente e quello
multimediale richiesto dall’evoluzione tecnologica e sociale del nostro tempo?
Se non si saprà adattare, non solo, ma reinterpretare in chiave critica e
propositiva i nuovi modelli, potrebbe finire per perdere gradualmente la sua
ragione sociale.
• Studiare a casa e non a scuola? Già oggi negli Usa, società per molti versi
proiettata nel futuro, 2 milioni di studenti non studiano a scuola. Sono gli "homeschoolers",
il cui numero è cresciuto rapidamente (erano solo 20.000 negli anni settanta)
soprattutto da quando le nuove tecnologie hanno consentito di disporre on line
di quantità imponenti di informazioni, materiali didattici, sussidi vari,
accompagnati da programmi di assistenza individualizzata, forniti da varie
imprese e organizzazioni.
La previsione di un centro di ricerca specializzato in materia, il National Home
Education Research Institute (www.nheri.org), è che nel 2040 il numero degli
homeschoolers supererà negli Usa quello degli studenti che frequentano scuole di
tipo tradizionale. La previsione si fonda, oltre che sulle crescenti opportunità
offerte dallo sviluppo tecnologico (banda larga, etc), sul fatto che già ora i
risultati conseguiti dagli homeschoolers nei test standardizzati sono mediamente
migliori di quelli ottenuti dagli studenti delle scuole pubbliche, in una misura
variante dal 30 al 37%. Anche se queste analisi non sembrano tener conto del
valore "educativo" del gruppo-classe e del "fare squadra".
In Italia il fenomeno è per ora irrilevante, ma lo spostamento dell’accento dai
curricoli agli esami e alle certificazioni, e l’eventuale assegnazione di buoni
studio alle famiglie che volessero intraprendere questa strada potrebbero creare
anche da noi condizioni più favorevoli allo sviluppo del fenomeno, che in pochi
anni – lo spazio di 1-2 generazioni – ridurrebbe buona parte dei luoghi fisici
nei quali oggi si fa scuola in qualcosa di simile alle fabbriche dismesse per
manifesta obsolescenza: luoghi dell’archeologia formativa.
• Gli insegnanti "scoppiati": la categoria degli insegnanti è quella più
esposta, tra i lavoratori, a una nuova malattia, nota come "burnout syndrome", o
"sindrome dello scoppiato".
Le cifre fornite dallo studio "Golgota" per la Fondazione IARD parlano chiaro:
l’analisi delle 3.347 richieste di inabilità al lavoro presentate alla ASL di
Milano dal gennaio 1992 al dicembre 2003 mostra che l’incidenza delle patologie
psichiatriche sul totale è del 49.8% per la categoria degli insegnanti, del
37.6% per gli impiegati, del 28.3% per gli operatori sanitari e solo del 16.9%
per gli operai. Segno che il mestiere dei maestri e dei professori è oggi il più
usurante, almeno dal punto di vista psicologico-psichiatrico, tra quelli presi
in considerazione.
Anche i dati relativi all’incidenza nel tempo del burnout sul totale delle
patologie psichiatriche vedono salire la percentuale degli insegnanti dal 44.5%
del 1992-1994 al 56.9% del 2001-2003.
Un quadro preoccupante toccato con mano con sempre maggior frequenza da chi
frequenta le scuole italiane.
Non è allora un caso che il 32% dei ragazzi tra i 14 e i 16 anni ritiene che gli
insegnanti siano disaffezionati alla propria classe, mentre il 26% degli
studenti considera i propri professori distaccati da quello che insegnano. Sono
i risultati di una recente inchiesta condotta dall'Osservatorio sui Diritti dei
Minori.
Il rischio concreto è che una parte della classe docente in questo stato non
stimoli adeguatamente i giovani, non rappresenti un modello credibile e ne
deluda le aspettative.
• Il tasso di invecchiamento: oggi in Italia ci sono più ultrasessantenni che
ventenni. È la prima volta che accade nella storia dell’umanità. Per ogni 100
giovanissimi (età 0-14 anni), vi sono 130 anziani (65 anni e più). Nel 2015 vi
saranno 153 anziani (182 al nord) ogni 100 giovanissimi. Solo 25 anni fa, nel
1980, il rapporto era capovolto: 58 anziani ogni 100 giovanissimi.
Il peso del divario generazionale e la conseguente trasformazione degli assetti
sociali ed economici potrebbero da un lato spostare una quota ulteriore della
spesa pubblica sul mantenimento degli anziani con possibile danno per
l’investimento nella formazione dei giovani, dall’altro richiedere ai giovani di
accelerare i tempi in cui diventare produttivi.
Una società che invecchia pone anche dunque problemi di ordine sociale ed
economico, a cominciare, ad esempio, dai maggiori oneri finanziari ed
organizzativi che gli Enti locali sono chiamati ad impegnare per offrire più
ampi e differenziati servizi sociali ai cittadini anziani.
Quegli stessi Enti locali che, per effetto dei decentramenti amministrativi e
dell’attivazione dei principi di sussidiarietà, dovranno sostenere maggiori
impegni finanziari anche per la scuola, tra dieci anni saranno obbligati a
destinare crescenti risorse finanziarie ai servizi sociali per anziani, con il
possibile effetto di limitare o ridurre quelle per l’istruzione.
E in una società che diviene sempre più anziana, il microcosmo dei docenti è
particolarmente anziano: quasi un docente su due ha più di 50 anni. La
percentuale di docenti di età superiore al mezzo secolo ha raggiunto infatti
nell’ultimo anno il 45%. Solo sei anni fa i docenti ultracinquantenni erano
circa il 27% del totale.
L’età media di un insegnante di ruolo è oggi di 48 anni e mezzo. Sei anni fa era
di circa tre anni inferiore.
E il processo di invecchiamento della classe docente italiana, cui corrisponde
una crescente femminilizzazione, non si ferma qui. Un lento turn over e
assunzioni a singhiozzo fanno prevedere per i prossimi anni un ulteriore
innalzamento dell’età media. Nel 2015 il gap generazionale, e quindi anche
culturale con gli studenti si sarà ulteriormente ampliato.
L’invecchiamento, viste le situazioni analoghe di docenti e dirigenti
scolastici, è dunque un elemento caratteristico della scuola statale italiana
che mette in risalto il fortissimo divario generazionale con gli allievi.
Genitori "giovani", docenti "vecchi"
A marcare un potenziale ulteriore distacco tra discenti e docenti, oggi e forse
ancor più tra dieci anni, è l’allungamento del ciclo della vita. Come può
impattare questo fenomeno sul rapporto tra ragazzi e scuola? L’allungamento
dell’esistenza ha dilatato il concetto di giovinezza, con possibili
ripercussioni rilevanti. Già oggi il genitore trentenne o quarantenne è
considerato ancora giovane (fa sport, vacanze, conserva gli interessi che aveva
prima). E’ spesso il primo "amico" dei figli (con effetti educativi in molti
casi distorcenti).
Ora, con una classe docente sempre più anziana, come abbiamo visto, la vicinanza
generazionale tra genitori e figli può far risaltare negativamente la distanza
generazionale – e quindi anche culturale e mentale – con gli insegnanti.
• La multietnicità: cinque anni fa gli alunni stranieri nella scuola italiana
erano 85 mila (1% del totale alunni), nel 2015 saranno 617 mila (oltre il 6%, al
nord il 12-13%), più di un terzo dei quali di religione musulmana.
Nelle aule italiane si parlano ormai 113 lingue e si professano 16 diverse
religioni. Culture e religioni diverse cominciano a integrarsi sui banchi di
scuola.
Già oggi fanno discutere le iniziative di classi per soli musulmani o
l’opportunità del crocifisso dietro la cattedra. E poi, come si potrà garantire
un livello di apprendimento uniforme, e che non tenda verso il basso? Certamente
la scuola dovrà nei prossimi anni raccogliere ancora molte sfide nel campo
dell’integrazione interculturale.
• Mancano tecnici intermedi e laureati in scienze: molte aziende, non solo del
Nord, lamentano l’insufficienza di laureati nelle materie tecnico-scientifiche,
ma soprattutto la grave carenza di tecnici diplomati e postdiplomati (non
laureati) in possesso delle competenze tecniche necessarie per sostenere la
competitività.
Un recente documento MIUR-Confindustria-Consiglio delle Scienze ha evidenziato
la forte flessione verificatasi tra il 1989 e il 2000 nelle iscrizioni ai corsi
universitari di Chimica (-43.1%), Fisica (-55.6%) e Matematica (-63.3%), a
fronte di una accresciuta richiesta del mondo produttivo, alla quale si potrebbe
aggiungere presto anche un fabbisogno di insegnanti di queste discipline.
E’ un sintomo che la scuola non è in grado in questo momento di offrire ciò che
richiede la società (in particolare la parte più avvertita del mondo
produttivo).
Quali possibili conseguenze se il sistema di istruzione non si attrezzerà in
tempo per offrire quanto richiesto dal mercato? Il mondo dell’impresa farà da
solo, creando proprie agenzie di formazione? I tecnici verranno cercati
all’estero, in India, in Cina o magari in alcuni dei paesi entrati ora in
Europa?
Gli scenari OCSE per il 2020
Passate in rassegna alcune delle principali "direttrici del cambiamento" che
possono mettere in crisi il modello di scuola tradizionale, può essere
interessante riportare in sintesi gli scenari a quindici anni previsti da un
importante osservatorio internazionale.
L’OCSE, l’organizzazione internazionale per la cooperazione e lo sviluppo
dell’educazione, ha svolto uno studio che presenta una serie di ipotesi sulle
trasformazioni che i sistemi scolastici subiranno nei prossimi anni, in
particolare per il 2020: un periodo quindi molto vicino a quel 2015 che abbiamo
preso a riferimento per la nostra riflessione.
Lo studio delinea tre possibili scenari. Il primo è quello della conferma dello
status quo: mantenimento di un forte "controllo burocratico" sul sistema
(curricoli, formazione e accesso alla professione, finanziamento) da parte di
autorità pubbliche, con conseguente stabilità, accompagnata però da una
possibile carenza di docenti.
Il secondo scenario è quello della riscolarizzazione, cioè di un forte sviluppo
del ruolo dei sistemi scolastici in termini strategici, sostenuto da adeguati
investimenti. Il terzo scenario è quello invece della descolarizzazione, cioè
dello smantellamento dei sistemi formali di istruzione e formazione, sostituiti
da reti cooperative ("learning networks") gestite dalle comunità locali, o da
una forte competizione tra agenzie formative e altri soggetti operanti in una
logica di puro mercato. Questo terzo scenario potrebbe portare a "smantellare"
la scuola, in particolare quella pubblica, così come la conosciamo oggi,
approdando a modelli mai sperimentati e di cui non sarebbero conoscibili in
anticipo gli effetti a livello sociale e culturale.
E’ evidente che l’assetto che avrà il nostro sistema di istruzione e formazione
tra 10-15 anni dipende strettamente dalle scelte e dagli investimenti che si
compiono e si pianificano ora.
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* *
Un difficile crinale
Insomma sono tanti i segnali che portano, chi vuole ascoltarli, a pensare che la
scuola si trovi su un difficile crinale, forse senza saperlo.
In una società in via di invecchiamento che avrà meno risorse da dedicare ai
giovani, che si apre al sapere "non formale" e all’"informale", con un
insegnante anziano e meno motivato, in un ambiente sempre più tecnologico e
multirazziale, la scuola di oggi rischia di essere percepita come un luogo
obsoleto e inadatto a soddisfare le esigenze di quelli che abbiamo chiamato i
ragazzi del 2000+.
Ecco allora la scommessa dell’educazione che si giocherà nei prossimi anni. In
gioco c’è la credibilità e l’esistenza stessa della scuola come istituzione di
riferimento per la crescita e lo sviluppo della società.
Gli allarmismi non servono, ma l’invito a riflettere su una questione strategica
per il nostro Paese è doveroso, e vale per tutti: operatori scolastici,
genitori, decision e opinion makers, università, imprese. E mondo della
politica.
Masci. Richiamo per punti le cose dette dal Dr. Vinciguerra: il gap
multimediale; il fenomeno degli homeschoolers, cioè le persone che preferiscono
studiare per conto loro piuttosto che rivolgersi alla scuola; gli insegnanti
scoppiati, cioè il loro disagio psicologico; la multietnicità; il fatto che
nella società si possa determinare una priorità sugli anziani piuttosto che
sulle giovani generazioni a motivo dell’invecchiamento della popolazione; e
infine lo scollamento tra la scuola, cioè i processi formativi, e il mondo
produttivo per cui stiamo sfornando molte persone preparate in discipline
umanistiche e poche in discipline scientifiche.
Passerei quindi la parola a Claudia Donati: il CENSIS da 37 anni osserva con
particolare attenzione il mondo della scuola e dei processi formativi.
Ovviamente lei potrebbe raccontarci tutto su quello che è successo nella scuola
negli ultimi 37 anni e soprattutto negli ultimi anni, da quando se ne sta
occupando direttamente. Di fronte agli scenari che il dr. Vinciguerra ha
ipotizzato è possibile enucleare i fenomeni portatori di un trend? Esiste cioè
in definitiva un pericolo di disgregazione della scuola?
Donati: il rischio del declino?
Masci: sì, il rischio del declino e anche un po’ di questo scollamento
complessivo, che la scuola non sia più la scuola a cui siamo abituati, cioè la
grande agenzia di formazione che soprattutto dà una formazione di base comune a
tutti i cittadini e fa crescere tutta la società, ma semplicemente quella che dà
una verniciatura uniforme minima essenziale sulla quale poi si innescano
processi formativi che possono essere molto diversificati a seconda delle
iniziative del singolo. Io faccio l’homeschooler e mi formo per conto mio, io ho
i mezzi e vado a studiare non so dove, io azienda mi creo altri percorsi
formativi magari alternativi e la scuola è un prodotto residuale o comunque
semplicemente di base.
Donati: diciamo che il rischio del declino c’è, e che questi fattori sono quelli
più nuovi rispetto ad un elenco che in realtà si sta precostituendo a partire da
quando si è cominciato a dire che la scuola va riformata perché è
auto-referenziale. La prima accusa da parte della società all’offerta scolastica
era quella di non tener conto di una società che era in cambiamento. Da quel
momento la scuola non ha fatto altro che cercare di inseguire quel cambiamento,
ma nonostante le molte parole dette, essa è stata lasciata sostanzialmente sola
a ragionare sul problema.
Mi sembra che quello che manca sia soprattutto un patto sociale nuovo rispetto
alla mission generale della scuola. In realtà non è che la scuola non abbia più
una sua funzione: semplicemente non svolge più la sua funzione tradizionale
perché il pubblico è diverso. Si deve adattare a questo: quindi c’e bisogno in
qualche modo di mettere nuovi paletti, di capire. Se ne parla molto, ma non si
arriva ad una mediazione.
Masci: Lei ha la percezione che in qualche modo qualcuno - ma non mettiamo
nessuno sul banco degli imputati - dica: ma che senso ha investirci se poi le
aziende si fanno la loro formazione, se poi i ragazzi si hanno internet, se poi
vanno a fare il master non so dove? E’ un po’ questo?
Donati: è anche un po’ questo, ma poi non si spiega perché invece Confindustria
confidi molto in una scuola che mantenga ad esempio una forte impostazione
tecnologica e dia una buona formazione di base. Anche se è giusto chiedersi che
cosa si deve intendere oggi per formazione di base. Certo non una accumulazione
di nozioni e di materie che devono "esserci per forza". Dovremmo in qualche modo
stabilire che cosa si intende per formazione solida di base da qui al 2015-2020,
e riferirci non solo ai contenuti ma anche ai metodi e all’utilizzo, cioè alla
conoscenza "agita". La competenza che si richiede oggi è diversa: non si tratta
solo di trasferire il sapere, ma anche il "saper fare e saper essere": su questo
dobbiamo lavorare di più.
Masci: ma in concreto chi deve lavorare? Tutte queste varie agenzie di
formazione a cui abbiamo fatto riferimento, siano appunto le aziende, siano le
famiglie di loro iniziativa, possono essere queste a cambiare i processi
formativi o secondo lei è la scuola che deve l’impostazione di fondo e la base?
Donati: l’impostazione di base spetta alla scuola o comunque a quella agenzia o
gruppo di agenzie che la società riterrà dover fornire questo servizio.
Masci: (al Prof. Cortigiani, dirigente scolastico). La scuola e le generazioni
stanno cambiando, ma gli insegnanti hanno la possibilità di adeguarsi al nuovo,
e in qualche modo di interagire? Che cosa sta avvenendo?
Cortigiani: Vorrei passare da un piano di previsione, che sicuramente compete
più al CENSIS o ai ricercatori, ad un piano di intenzioni di azione, anche
perché mi sembra poco produttivo dividersi tra pessimisti apocalittici e
ottimisti. E’ sempre un buon metodo quello gramsciano del pessimismo
dell’intelligenza: analisi sempre prudenti e tendenzialmente pessimistiche ma
poi accompagnate dall’ottimismo della volontà.
Intanto va detto che in questi ultimi anni qualcosa sta cambiando perché stanno
iniziando ad entrare nella scuola i "missini". E poi se è vero che
l’invecchiamento produce il burn-out, ci sono anche altri elementi su cui
possiamo agire, per esempio il modello di professionalità. Io credo che
l’insegnante che rischia di più lo scoppiamento sia l’insegnante impiegato,
l’insegnante esecutore, l’insegnante che non studia più, non si aggiorna più,
non autoapprende più da anni, se non da decenni. Per usare la metafora del
professionista riflessivo, sicuramente l’insegnante che riesce è quello che ha
gli strumenti culturali per affrontare i problemi, reimpostarli, e affrontare
anche i conflitti perché nella scuola di valori, progetti e punti di vista ce ne
sono tanti, e anche conflittuali. Un insegnante che agisce come professionista
riflessivo sicuramente non è a rischio di burn-out. L’insegnante che ripete, che
esegue, l’insegnante impiegato di fronte a tutto quello che sta succedendo nel
mondo e nella scuola, alla società dell’incertezza, invece rischia.
Bisogna pensare, o ripensare, alla scuola come ambiente di apprendimento non
solo per gli alunni ma anche per i docenti. Una scuola che è un ambiente di
auto-apprendimento continuo per i docenti può essere una scuola che fa
prevenzione del burn-out.
Accanto all’auto-apprendimento e all’auto-formazione, l’altro elemento di forza
per combattere il burn-out è il gruppo: cioè la capacità del docente di lavorare
con i colleghi in modo cooperativo, di stare nel gruppo, di vivere il gruppo
come risorsa. Risorsa sul piano cognitivo perché sa cogliere dal gruppo idee
esperienze ma anche risorsa emotiva, sostegno emotivo nei momenti di difficoltà.
Masci: Prof. Tagliagambe, di fronte ai fenomeni che abbiamo qui accennato,
richiamati anche nell’analisi di Tuttoscuola, come si è posto lei, insieme ai
suoi colleghi che hanno collaborato in questi ultimi anni ai progetti di
riforma?
Tagliagambe: Il documento contiene molte verità, e quindi è una base di
consapevolezza dalla quale partire. Ma questa base di consapevolezza non
riguarda, tengo a sottolinearlo, soltanto la scuola italiana. E’ un problema che
riguarda la scuola in tutti i sistemi complessi delle società contemporanee.
Un economista di fama, Bauman, aveva coniato una metafora, secondo me
bellissima, per sottolineare il rapporto difficile, necessariamente difficile,
costitutivamente difficile tra le tecnologie, l’innovazione tecnologica e i
processi formativi. La metafora era quella di Mozart e il clavicembalo. Bauman
diceva che se noi prendiamo il sistema Mozart-clavicembalo, nella loro epoca, e
lo rapportiamo alla situazione attuale, studiando l’incidenza che lo sviluppo
tecnologico ha avuto sull’uno e sull’altro, ci accorgiamo che la tecnologia ha
inciso sul clavicembalo fortemente, velocizzando i tempi di produzione in
maniera vertiginosa e quindi abbattendo in maniera altrettanto radicale i costi.
Oggi la costruzione del clavicembalo costa molto, molto meno, grazie alle
tecnologie, rispetto al tempo di Mozart. Se guardiamo invece alla formazione di
un Mozart, cioè di uno specialista, di una persona competente nel settore
musicale, vediamo invece che essa non si è modificata per quanto riguarda i
tempi necessari. La tecnologia potrà avere inciso per quanto riguarda
l’efficacia dei processi formativi, ma non ha inciso in maniera considerevole
nella velocizzazione, perché la formazione, l’education, sono rimasti settori ad
alta intensità di lavoro umano, dove la macchina non incide più di tanto.
Dunque nei confronti della tecnologia dobbiamo tenere conto di un duplice
aspetto. I sistemi formativi non possono fare a meno delle tecnologie, e le
tecnologie costano, ma d’altra parte le tecnologie applicate ai sistemi
formativi non comportano un abbattimento dei costi, perché questi rimangono
praticamente inalterati rispetto al passato. Questo è un primo problema, una
prima difficoltà che credo debba essere tenuta presente.
Il secondo problema è quello di conciliare quantità e qualità all’interno dei
processi formativi. Mi sembra che analisi come quella di Citati su Repubblica
sono ovviamente rispettabili, ma provinciali, nel senso che circoscrivono
l’attenzione al solo sistema italiano come se quelle difficoltà fossero
"difficili" esclusivamente del nostro paese. Quello di una formazione di massa
quantitativamente estesa che non vada a discapito della qualità, del rigore dei
processi formativi, è il problema dell’Unione Europea nel suo complesso,
sostanzialmente è il problema cardine di Lisbona, quindi non è un problema solo
italiano.
C’è poi un terzo aspetto da considerare, ed è che l’obsolescenza delle
conoscenze non è uno slogan. Un conto era dare una formazione nell’ambito di
biografie in cui prima si studiava e poi si lavorava, e quello che si era
appreso studiando serviva per tutto l’arco della vita. Un conto assai diverso è
ragionare in epoche come la nostra in cui il tasso di obsolescenza media delle
conoscenze è calcolato tra i 10-15 anni, e per settori di punta anche meno.
Ormai escono decreti per cui per continuare a fare il medico o l’operatore
sanitario bisogna costantemente aggiornarsi, e bisogna dimostrare di averlo
fatto pena l’esclusione dalla professione. Un tempo questo era inimmaginabile.
Oggi è corretto che l’apprendimento iniziale sia più leggero, e il fatto che le
conoscenze iniziali siano destinate almeno in parte all’obsolescenza non
costituisce affatto una catastrofe. Costituisce invece una catastrofe il fatto
che questo non si traduca nella capacità di formare e costruire le competenze di
base, quelle che come ci hanno insegnato i grandi pedagogisti come Piaget e
altri, o si imparano in un determinato stadio della vita oppure non si
padroneggeranno compiutamente mai più.
Dunque lo spostamento dell’attenzione dalle conoscenze alle competenze non è uno
slogan, non è un motto, non è un modo di dire, ma una cosa profondamente
radicata nella situazione attuale. Io oggi effettivamente mi devo preoccupare di
dare agli allievi più che un arco totalizzante di conoscenze, che comunque non
basteranno mai, delle competenze di base, quelle che Bateson chiamava le
metacompetenze, quelle che mi mettono in condizione di saper leggere un libro
autonomamente, di saperlo capire.
Eppure di fronte a questo proposito, che è sacrosanto, di individuare i saperi
essenziali che si traducono in competenze di base che sono irrinunciabili - e
sono irrinunciabili proprio perché se la scuola non li dà tra i 6 e i 15 anni
c’è il pericolo che non vengano più recuperati - si grida allo scandalo, al
minimalismo, al fatto di voler ridurre la scuola a fattori minimi. Questo è
assolutamente non capire come è mutata la dislocazione della scuola, e della
formazione che la scuola dà, nell’ambito del processo formativo generale. Se si
parla di formazione lungo tutto l’arco della vita, questo significa che la
scuola occupa uno spazio ben preciso e ridotto di questo orizzonte formativo, e
questo non può essere considerato uno scandalo.
Vorrei sottolineare un altro elemento, che è quello del rapporto generazionale
di cui si parlava. Qui noi italiani scontiamo una pecca, che è radicata nel
nostro dna, e di cui altri Paesi non soffrono: è il fatto che l’ultima riforma
organica e completa della scuola italiana è stata per noi la riforma Gentile.
Dunque la scuola italiana è una scuola gentiliana, e con tutto il rispetto che
si deve avere per questo grande filosofo, dire che quella italiana è una scuola
gentiliana significa dire che è una scuola di impianto idealistico. Lo vogliamo
dire? Diciamolo, visto che in molti documenti dell’attuale riforma della scuola
si fa ancora una distinzione di impianto idealistico, che più gentiliana non si
può, tra la teoria e la tecne.
Il problema di fondo è che nell’ambito della scuola italiana, per questa sua
matrice di fondo, le tecnologie sono confinate all’uso: le tecnologie sono
qualcosa da usare e consumare, non sono qualcosa che appartiene alla sfera degli
stili percettibili di pensiero e che concorre a formare stili percettivi e di
pensiero. Gli stili percettivi e di pensiero si formano con il latino, con il
greco, con la matematica, con la filosofia, con l’italiano, una volta che sono
stati acquisiti questi stili percettivi e di pensiero questi stili vanno
applicati a contesti, vanno usati, ed ecco che subentra la tecnologia, l’angolo
tecnologico in cui "si applica". Ora se c’è una cosa che le nuove generazioni, i
bambini del 2000+, invece esprimono nel loro modo di essere culturale e
intellettuale, è il fatto che sono bambini profondamente segnati nei loro stili
percettivi e cognitivi dalla familiarità con le tecnologie. La familiarità con
le tecnologie li mette di fronte a forme di realtà "aumentata", frutto della
interazione forte tra spazio fisico e spazio virtuale che modifica, incide sui
loro stili percettivi e cognitivi: il divario tra le generazioni si manifesta
soprattutto sotto questo aspetto.
Occorre preoccuparsi del fatto che molti docenti pensano che la tecnologia sia
applicazione e uso, e quindi tendono a sottovalutarla in modo abbastanza
radicale per quanto riguarda gli stili cognitivi e i percorsi di apprendimento.
Se non si supera alla radice l’idea che la tecnologia sia soltanto applicazione,
e non ci si abitua attraverso la formazione a far entrare la tecnologia nei
processi di apprendimento e nei processi di insegnamento come matrice
costitutiva fondamentale, allora sì che il gap tra le generazioni rischia di
diventare un evento drammatico.
Masci: Prof. Bagnara, il prof. Tagliagambe ha posto grande enfasi sul dato
tecnologico e sul gap generazionale, ma non si è esagerato un po’ attribuendo
alle tecnologie un ruolo forse eccessivo?
Bagnara: vorrei partire dall’esperienza che ho conosciuto negli ultimi anni,
perché mi sembra che tocchi il problema di cui stiamo discutendo oggi. Io sono
passato dall’insegnare psicologia cognitiva a Scienze della Comunicazione a
Siena ad insegnare la stessa materia al Politecnico di Milano nella facoltà di
Design. In fondo insegno le stesse cose, dal punto di vista del contenuto. Io
insegno come si vede, come si percepisce, come si sposta l’attenzione, come si
ricorda, come si traduce una decisione in una azione sull’ambiente. I contenuti
sono esattamente identici, però dopo una lezione ho scoperto una cosa
stravagante, che è questa: a Siena i ragazzi prendevano appunti, mentre a Milano
facevano schizzi, facevano un disegno.
Se un insegnante si trova di fronte a un problema di questo tipo, può chiedersi
per esempio se le intelligenze siano tutte uguali: può darsi che il modo di
ricordare di alcuni sia diverso dal modo di ricordare di altri. Uno si ricorda
parole e un altro si ricorda immagini. Ricollegandomi all’ultima parte
dell’intervento di Tagliagambe, posso dire che in realtà noi abbiamo sempre
avuto di fronte ragazzi con intelligenze diverse, abbiamo sempre avuto ragazzi
con pensiero eminentemente visivo e altri ragazzi con pensiero eminentemente
verbale. Io, per esempio, non ho un grande pensiero dal punto di vista visivo, e
ho difficoltà a fare schizzi, preferisco mettere parole. Invece altre persone
no. Quindi già il fatto che la scuola privilegi l’impianto idealistico, fondato
sul primato del verbum, è la dimostrazione che c’è qualcosa di sbagliato. Il
verbo è una tecnologia: basta leggere il passaggio dalla manualità alla
scrittura di Walter J. Ong, che dimostra chiaramente che il pensiero dell’uomo è
cambiato una volta che è stata introdotta la scrittura. La scrittura è una
tecnologia e la nostra scuola da sempre è stata costruita su questa tecnologia
che si traduce in libri, in scrittura. Però 2500 anni fa la gran parte
dell’insegnamento e dell’apprendimento erano basati su una cosa diversa, e non
sulla scrittura, erano basati sul ricordo di cose profondamente metaforiche e
fondamentalmente immaginative.
Questa esperienza mi porta a dire che il problema vero che abbiamo di fronte è
che questo tipo di scuola, fondato sulla parola, sul libro che sta nella testa
dell’insegnante, che lo vuole ficcare in testa allo studente, anche quando non
vuole e non lo capirà mai, questo tipo di scuola finirà certamente nel 2015. Ma
questo non vuol dire che il fare scuola sia finito. Bisogna innanzitutto che il
sistema scolastico divenga flessibile, che tenga conto che ci sono tante
intelligenze diverse, e che impari a parlare il linguaggio dell’intelligenza di
chi ascolta. Quindi grande flessibilità, e fine dell’idealismo inteso come
verbum.
Ma c’è un’altra cosa importante da dire: a me ha molto colpito sentire i dati
portati prima sul problema dei homeschoolers, li ho visti come la spia di un
problema. Un problema colossale dato dal fatto che il sistema scolastico, specie
negli Stati Uniti, è diventato sinonimo di violenza, non è un fenomeno
educativo, è un luogo di incontro-scontro con la violenza. Ora, si capisce che
dal punto di vista dei genitori ci sia un riflesso condizionato: se il luogo
dell’educazione è diventato il luogo della violenza, mio figlio lì non lo mando.
Quindi in gran parte il fenomeno degli homeschoolers è simile a quello che
vediamo in Italia con le scuole private, che sono percepite come luoghi sicuri
di insegnamento, al riparo dalla violenza.
C’è poi da dire un’altra cosa ancora più importante. Noi generalmente tiriamo su
i figli all’interno di una logica che potremmo definire buonista o
solidaristica. Pensiamo che la scuola non è buona quando non insegna a stare
bene assieme, e che non insegna quando c’è violenza. Invece la cosa più
importante che ho imparato a scuola, e tutti noi credo abbiamo imparato a
scuola, è la capacità di gestire il conflitto. A scuola non abbiamo imparato a
"stare bene assieme", l’insegnamento più importante, la vera competenza
acquisita, è stata la competenza sociale, la capacità di gestire il conflitto.
Ecco: se c’è una cosa che mi fa molta impressione, e ritengo pericolosa
dell’atteggiamento degli homeschoolers, è proprio il fatto che esso priva i
ragazzi di una competenza di base del vivere sociale. Il senso di protezione, la
paura della violenza, portano di fatto a una deprivazione sociale e cognitiva da
parte degli studenti. Conosco i test americani, e so che per esempio uno può
essere bravissimo dal punto di vista matematico ma, scusate il termine, un
perfetto cretino sociale che non può stare assieme agli altri: la percentuale
più alta in matematica o in inglese non è rilevante socialmente. La scuola è
anche un luogo che insegna a gestire le frustrazioni, dove puoi prendere un
brutto voto, dove impari che il momento migliore per imparare è quando sei
fallito. Ci sono ricerche bellissime fatte fra l’altro da fonti insospettabili,
gli israeliani, che dimostrano che il momento più importante del tuo
apprendimento è quando stai sotto scacco: è allora che scatta qualcosa di molto
importante. La scuola quindi deve diventare un luogo, come si dice, dove sai
gestire conflitto e frustrazioni, dove ti metti a confronto.
C’è poi un’ultima cosa che fa a pugni con il modello idealista, ed ha a che fare
con il lavoro. Il lavoro dei nostri giorni è un lavoro strano, non il lavoro di
tutti ma il lavoro di quel 15-20% della società che impone i suoi modelli agli
altri. 50 anni fa il modello imposto a tutta la società era il modello
industriale, il modello dell’uomo industriale, ma attualmente chi pensa che la
società sia ancora fatta sul modello dell’uomo industriale? E qual è il nuovo
modello che sta venendo fuori, quale è il gruppo sociale che sta imponendo, non
politicamente, i propri comportamenti al tessuto sociale? E’ il gruppo che
Richard Florida, in un libro uscito l’anno scorso, descrive come la "classe
creativa", la classe cioè che non produce prodotti ma produce idee. Un prodotto
si consuma nel tempo che occorre per consumarlo, l’idea si consuma
immediatamente, appena detta ce l’hanno tutti e non vale più, è quindi una
classe che è costretta a proporre immediatamente nuove idee, pena la sua morte.
E’ la vera classe nuova.
Quali sono le caratteristiche di questa classe? Innanzitutto non ha tempi di
lavoro, nel senso che non può produrre idee dalle 8 di mattina alle 5 di
pomeriggio. E poi le idee possono venire durante tutta la giornata, è finito il
tempo come misura del lavoro. Per questa classe sociale la misura del lavoro è
la capacità di produrre una cosa nuova. In una città organizzata attorno a
questo gruppo sociale, i ritmi sono diversi da quelli della città industriale,
la notte e il giorno non si distinguono un granché. Questo gruppo sociale ha
un’altra caratteristica, va dove ha occasione di lavorare. Pensate che c’è
sempre stato questo gruppo sociale, la cosiddetta classe creativa - per esempio
il gruppo degli attori, dei registi, di quella grande industria mondiale che è
il cinema (infatti si parla di modello organizzativo Hollywood). Ma una volta
esso era descritto come un gruppo sociale particolare, stravagante, e non veniva
mai assimilato dagli altri: i suoi componenti erano i "diversi".
Questo gruppo sociale ha anche un’altra caratteristica interessante per il
nostro discorso: è un gruppo che impara sempre, quindi con il sistema scolastico
ha un rapporto molto flessibile, che dura per tutta la vita. Ecco: un sistema
scolastico adatto a questo gruppo sociale cambia completamente i suoi tempi.
Un’altra caratteristica, che forse è la più importante di tutte, è che questo
gruppo sociale non può sopravvivere se non ha alcune condizioni di vita: siccome
cambia posto di lavoro, luogo di lavoro in funzione delle opportunità del
progetto che sta seguendo, esso non può pretendere, ogni volta che cambia città,
di trovare un posto di lavoro diverso tecnologicamente. Io posso spostarmi da
NewYork a Houston in Texas, da Houston a Singapore e lavorare bene soltanto se
ho la stessa infrastruttura tecnologica che mi consente di esprimere le mie idee
e di produrre idee. Sostanzialmente, e questa è la cosa più rilevante, è la
tecnologia che diventa una condizione di vita e di lavoro per queste persone, e
questa tecnologia deve essere identica: devo trovare la stessa tecnologia sia a
Seattle sia quando vado a lavorare a Tokio. Questo vale non solo per i
cinematografari ma anche per un grande medico: un chirurgo non è più un grande
medico se lo sposto da Houston a Palermo perché non trova le stesse
infrastrutture che sono parte essenziale della sua competenza professionale.
Allora vedete che non è che alla scuola basti avere l’aula di informatica, anzi,
avere l’aula di informatica e basta è un suicidio. L’informatica deve essere
strutturale a tutto perché è strutturale a tutto, a qualsiasi lavoro io faccio,
quindi mi è essenziale sia quando faccio latino, o greco, o matematica, o
disegno. Quindi la tecnologia non è una materia in più, e neppure una
sottomateria, come spiegava prima il professor Tagliagambe, è la pre-materia,
quella che sta alla base di tutto, sostanzialmente è la nuova penna. Non posso
pensare di scrivere se non ho la penna, così non posso pensare di lavorare nel
mondo moderno se non ho la tecnologia.
Allora nel 2015 morirà la scuola? Quella del passato sì, deve morire, ma una
scuola nuova, un sistema scolastico più flessibile e più completo, può vivere.
Problema: cosa faranno gli insegnanti attuali? È il vero problema della
praticabilità politica della questione. Faccio solo un esempio, chiudete gli
occhi, e immaginate un ufficio postale di 20 anni fa: era sporco, venivate
trattati come pezze da piedi, e gli impiegati non si accorgevano che eravate lì,
andavano a prendersi il caffè quando volevano. Andateci adesso, confrontate i
due ambienti, ma non solo gli ambienti, confrontate il modo di comportamento, le
capacità d’uso delle tecnologie che hanno le persone dietro lo sportello, che
non c’è neanche più. Possibile che i postini siano stati capaci di questa grande
trasformazione e gli insegnanti no? Non possiamo pensarlo.
Masci. Posso coinvolgere il Prof. Niceforo, consulente del Miur e collaboratore
di Tuttoscuola, che vedo tra il pubblico? So che Lei ha studiato e conosce bene
questo fenomeno degli homeschoolers. Venga a raccontarcelo.
Niceforo. Ci sono arrivato quasi per caso a studiare questo problema. Lo avevo
visto segnalato in articoli su giornali americani, e ho cercato come molti oggi
fanno in Google. La prima volta ho trovato ben 1milione e 200mila citazioni. Ma
nei giorni scorsi le citazioni avevano superato i 2 milioni. E’ un fenomeno di
massa, ci sono almeno 10-15 reti che organizzano servizi alle famiglie, a
sostegno di coloro che preferiscono togliere gli allievi dalle scuole e gestire
direttamente i processi formativi. La cosa che trovo più interessante è che
questo fenomeno non è più soltanto legato al desiderio di alcune famiglie di
togliere gli allievi dalla violenza delle scuole pubbliche, di proteggerli dalla
decadenza morale, dalla mancanza di valori della scuola pubblica che peraltro in
America, contrariamente da quanto si ritiene, è frequentata dal 90% degli
studenti.
Trovo che l’aspetto più interessante delle tendenze in atto, è che anche alcune
scuole, per esempio quelle della California, si stanno accostando ad un tipo di
gestione del rapporto docente-allievi e scuola-allievi che prende dal fenomeno
degli homeschoolers alcuni elementi. Anche in Francia, dove ci sono
sperimentazioni sulla scuola corta di 4 giorni alla settimana, si ritiene che
una parte del lavoro di apprendimento che si faceva tradizionalmente in aula,
tra le mura fisiche di un’aula, si possa gestire a distanza.
Ecco, questa è la cosa probabilmente più interessante, che potrebbe portare nel
giro di 10-15 anni, forse anche da noi, non a un fenomeno di homeschooling come
negli Stati Uniti, ma a un diverso rapporto tra attività fatte dentro e fuori
della scuola: questa è una prospettiva interessante, perché si avvarrebbe di
quelle tecnologie che stanno diventando ormai la pre-condizione
dell’apprendimento del nostro tempo. Per questo credo che ci possa aiutare
studiare questi fenomeni.
Masci. C’è qualche domanda dal pubblico ai nostri relatori? Ecco si presenti e
faccia la domanda.
Mi chiamo Luca Corti, sono insegnante, ringrazio i relatori. Ho insegnato
diversi anni negli Stati Uniti. Il fenomeno homeschooling di cui abbiamo parlato
secondo me più che essere legato alla violenza - che è un problema ma non è "il"
problema degli Stati Uniti – va visto in maniera articolata, perché se parliamo
per esempio del Massachusset, non parliamo dell’Arizona e non parliamo nemmeno
della Nuova California, gli Stati Uniti sono un grandissimo Paese. Per esempio
io ho abitato nella costa dell’Est, e devo dire che lì ci sono norme restrittive
sulle armi a fuoco che sono molto più restrittive delle nostre. Quindi bisogna
fare notevoli differenziazioni.
Il problema degli home-schoolers è legato, per quello che è la mia percezione,
alla rinascita di un certo tipo di new-age di destra, confessionale, legata ai
predicatori, che non crede più nella scuola pubblica, come è stato detto poco fa
dal professore, perché in realtà non crede più nella società civile e non crede
più nemmeno nella Costituzione americana. Quindi quei 2 milioni di persone io
credo che per l’80% siano persone che non si riconoscono più nemmeno in quella
società civile. Il problema casomai è la rivincita di un certo tipo di destra
che poi ha visto la rivincita delle elezioni da parte di Bush.
Non ho da fare una domanda specifica, però secondo me nel 2015 - il problema che
stiamo dibattendo – quella che si prospetta è la fine della scuola pubblica, e
non la "fine della scuola" e basta. La fine della scuola pubblica, su questo
concordo con il prof. Tagliagambe, coincide con la scomparsa dei saperi
essenziali, che è un problema fondamentale. A scuola, io che sono insegnante e
sono tornato dall’estero, vedo che si fa di tutto tranne che insegnare e
apprendere questi saperi essenziali. C’è una bellissima frase di Pascal che
diceva, e qui concludo, "vorrei insegnare ai miei bambini di tutto tranne ad
essere disonesti". Il problema è che bisognerebbe ricominciare a insegnare quei
saperi essenziali e non infarcire la scuola di educazione alla pace eccetera:
cose importanti ma che devono entrare attraverso i saperi cognitivi, i saperi
affettivi e i saperi razionali.
Masci: raccoglierei qualche altra domanda.
Sono Canepa, insegnante irrequieto, come mi hanno definito, su vari ordini di
scuola.
Masci: è un insegnante scoppiato?
Canepa. No, faccio scoppiare perché mi piace uscire dalle regole ed essere
propositivo: le regole uccidono la fantasia, con le dovute eccezioni. Concordo
con quanto diceva il collega circa i saperi essenziali, i ragazzi oggi
effettivamente sono bombardati da mille informazioni, hanno un sapere
tecnologico, cioè di approccio alla tecnologia, superiore a quello che potevo
aver avuto io, diciamo 40 anni fa. Hanno sicuramente un approccio facile, ma non
la padronanza della tecnologia. Il problema è che non sanno ascoltare.
Tagliagambe
Tra i problemi fondamentali della scuola italiana c’era quello della difficoltà
di passaggio da un ciclo all’altro. In una scuola articolata in cicli che sono
stati riformati, o non riformati, in tempi diversi e con obiettivi diversi, è
assolutamente normale e fisiologico, e non patologico, che il passaggio dalle
elementari alle medie sia un problema, e che il passaggio dalle medie inferiori
o dalle scuole secondarie di primo grado, come si dice oggi, alle scuole
secondarie di secondo grado, costituisca uno scoglio per molti studenti
difficilmente superabile.
A questo si aggiunge oggi un altro fatto di cui non possiamo non tenere conto,
cioè il fatto che anche il passaggio dalla scuola secondaria superiore
all’università è diventato uno scoglio se è vero, come è vero, che i test di
prove di ammissione ai corsi di laurea e di possesso dei requisiti da parte
degli studenti che si iscrivono ai diversi corsi di laurea, danno per i diversi
corsi di laurea, e in maniera abbastanza omogenea per le diverse aree del paese,
una media di studenti che possiedono questi requisiti non superiore al 35% .
Questo vuol dire che non più di uno studente su 3, che esce dalla scuola
secondaria superiore, è attualmente preparato per affrontare i corsi di laurea
universitari ai quali si iscrive, tanto è vero che tutti i corsi di laurea che
non hanno il numero chiuso sono costretti come sappiamo a fare nei primi 2-3
mesi della loro attività i cosiddetti "corsi di riallineamento". Questo, in un
corso di laurea che ormai almeno per quanto riguarda la prima fase ha una durata
di 3 anni, diventa un peso notevole che incide sulla qualità dell’istruzione
dell’Università.
Allora, se questo è il problema, è evidente che la soluzione immediata che viene
in mente è la progettazione il più possibile verticale della progressione dello
studio, e l’abbattimento, la riduzione, la maggiore possibile, degli
scollamenti, e quindi del numero dei cicli. Andare nell’accorpamento del ciclo
della scuola elementare e della scuola media inferiore, secondo me è giusta la
diagnosi che abbiamo fatto, costituiva la giusta risposta a un problema
determinato in questa misura. E’ per questo che non posso condividere il fatto
che si torni invece a differenziare profondamente il ciclo delle elementari dal
ciclo delle medie, mettendo nel dimenticatoio tra l’altro il fatto che nel
frattempo in Italia negli ultimi 10 anni è stata avviata l’esperienza degli
istituti comprensivi, e che questi istituti a progressione verticale, elementare
e media, hanno dato risultati altamente positivi.
Allora, noi facciamo questa diagnosi, e a sostegno di questa diagnosi citiamo
l’esperienza positiva degli istituti comprensivi, e cosa ti fa il ministro?
Ritorna alla separazione dei cicli tra l’elementare e la media. Non mi sembra
una risposta geniale, ed è evidente che rispetto a questa risposta io mi devo,
come autore del primo rapporto, dissociare, altrimenti ci sarebbe una discrasia
tra il tipo di diagnosi che noi abbiamo fatto e la risposta che viene fornita.
L’altro aspetto da considerare era proprio il tentativo di dire: ma insomma,
oggi c’è un’esperienza pedagogica che parte da Piaget, attraversa Vigotsky e
arriva quanto meno a Bateson, che dice che la cosa più importante che la scuola
dovrebbe fare, almeno nel primo ciclo (io continuo a parlare del primo ciclo
come di qualcosa di indifferenziato), è di insegnare ad apprendere. Bateson
sottolinea il fatto che l’obiettivo che io devo perseguire è di mettere lo
studente in condizione di formarsi, e questo io non lo faccio attraverso le
conoscenze.
Vi faccio un esempio, perché voglio calarmi il più possibile nell’empiria: in
Sardegna è partito proprio a settembre di quest’anno un progetto di cui sono il
responsabile scientifico (tra le altre cose ne ha parlato Tuttoscuola per 2
numeri, e li ringrazio per questo). Il progetto propone all’attenzione degli
insegnanti dei materiali didattici innovativi di carattere multimediale, che
sono tra l’altro semilavorati, che cercano cioè di rompere, a proposito della
frustrazione dei docenti, il circolo autore-editore per cui ai docenti vengono
proposti materiali didattici di cui non sono minimamente coautori e
corresponsabili, ma sono semplicemente fruitori e destinatari passivi. Noi
invece proponiamo dei semilavorati, dei frames che vanno poi completati nel
lavoro didattico quotidiano in classe dai docenti e dai loro studenti.
Programmaticamente abbiamo scelto tre tipologie di materiali didattici.
La prima è un manuale, un semilavorato disciplinare di fisica curato da Tullio
Regge con annesso un laboratorio virtuale di fisica. Poi un manuale
interdisciplinare sempre semilavorato, e abbiamo scelto la bioetica come
interfaccia tra le discipline biologico-mediche da una parte e le discipline
umanistico-filosofiche dall’altra. Lo abbiamo fatto anche per dare contenuti
concreti all’esercizio della cittadinanza, oggi si discute dei problemi di
bioetica ma se ne discute senza avere alle spalle una conoscenza
sufficientemente solida. La terza tipologia è un manuale tipicamente
trans-disciplinare, orientato a formare competenze e non conoscenze, ed è un
manuale di competenza linguistica. La caratteristica di questi manuali è che
hanno tutti progressione verticale, cioè partono dalle materne, sempre lo stesso
manuale, e arrivano alle secondarie: così il bambino, il ragazzo, lo studente
hanno la possibilità di andare avanti e indietro attraverso i manuali.
Cosa significa un manuale di competenza linguistica? Lo dico per rispondere
almeno a tre delle domande: significa che io spiego già al bambino delle
elementari che cosa è il codice, che significato ha all’interno del codice il
segno, che differenza c’è tra significante e significato, tra significato e
referente, gli spiego altresì che se vuole passare da un codice ad un calcolo ha
bisogno di una struttura che si chiama sintassi, e gli spiego che cosa è la
sintassi, che se ha bisogno di passare dal calcolo alla lingua naturale, sia
inglese o francese o italiano, ha bisogno di una semantica, e quindi di modelli
interpretativi. Ecco, queste non sono conoscenze incasellabili all’interno di
nessuna singola disciplina, però io sfido chiunque a dire che siano competenze
che non servono, visto che danno al ragazzo la familiarità con tutti i linguaggi
che si troveranno all’interno della loro carriera scolastica.
Bene, viene un ispettore ministeriale a visionare i materiali, e mi dice
testualmente - e questo è agli atti - che sì, capisce l’utilità del manuale di
fisica e al limite, molto al limite, di quello di bioetica, ma non capisce
proprio che significato abbia un manuale di competenza linguistica posto che non
è incasellabile all’interno di nessuna disciplina e non si capisce quale sia il
docente che lo deve adottare e che lo deve insegnare. Ecco, è evidente che se io
mi trovo di fronte ad una impalcatura di questo genere, tutti i discorsi
relativi al passaggio al "deuteroapprendimento", al possesso di strumenti che mi
mettano in condizioni di capire e di formarmi anche autonomamente conoscenze e
competenze, vanno a farsi benedire. Questo è un aspetto molto importante, e
concordo assolutamente con Sebastiano Bagnara quando dice che la competenza
fondamentale, anche questa sottovalutata, che la scuola dovrebbe concorrere a
formare, è quella di carattere emotivo, che si esprime nella capacità di gestire
i conflitti.
Insomma le ricerche dei neuroscienziati ci dicono ormai che, contrariamente a
quello che si pensava prima, studiando il cervello è emerso che c’è un intreccio
sempre più profondo tra la sfera cognitiva e la sfera emotiva. Damasio inizia il
suo libro con il caso di un suo paziente che proprio perché era stato colpito
nella sfera emotiva aveva un disinteresse e un distacco tale nei confronti di
qualunque contenuto gli venisse proposto che pur mantenendo un quoziente di
intelligenza altissimo, la sua capacità di apprendere era crollata.
Insomma, un contenuto che ha forte valenza emotiva ha capacità di radicamento
nel tessuto cognitivo molto superiore rispetto a un contenuto che si presenta in
un ambiente emotivamente neutro: è evidente che se noi teniamo presenti questi
aspetti la competenza emotiva diventa un elemento fondamentale anche della
stessa formazione cognitiva. Ecco, di fronte ad uno spettro di questo genere,
devo dire – e dobbiamo abituarci a fare nomi e cognomi - che subito dopo che
uscì il documento sulle competenze essenziali uscì un libro, che poi divenne il
libro manifesto di una nuova associazione costituita ad hoc, che si intitolava
"Segmenti e bastoncini" in cui si diceva che i promotori di questo documento
intendevano rimbambinire la scuola ed eliminare il valore di qualunque
apprendimento di carattere cognitivo basato sulle conoscenze perché erano dei
poveri di spirito per i quali chiamare i segmenti "bastoncini", magari
bastoncini di pesce, era esattamente la stessa cosa.
Ecco, forse non riflettiamo abbastanza sul fatto che il 90% delle conoscenze
attualmente disponibili è ultracontemporaneo - sono conoscenze che si sono
formate e sono maturate dal 1910 in poi - e che l’80% dei ricercatori viventi
dall’inizio della rivoluzione scientifica moderna ad oggi è vivente, e che
quindi la progressione delle conoscenze è tale per cui è evidente che nessun
contenitore scolastico, anche quello meglio confezionato, che punti sulle
conoscenze può darsi un orizzonte di vita che superi i 15 o 20 anni. A meno che,
come dicevo, non punti sulle competenze fondamentali, cioè su quelle che
rimangono per tutto l’arco della vita. Non ci sono oggi conoscenze che rimangono
per tutto l’arco della vita, se non in numero abbastanza ridotto: quelle che
rimangono per tutto l’arco della vita, se le andiamo ad esplorare bene, sono
competenze, competenze logiche, competenze linguistiche, e non contenuti
conoscitivi.
Cortigiani. Si sono dette molte cose che condivido, alcune riguardanti il
curricolo: la centralità delle competenze, la pluralità delle intelligenze, la
creatività. Dirigo una scuola che ha fatto 25 anni di sperimentazione, puntando
anche sull’espansione dei linguaggi non verbali, ma oggi occorre guardare più
avanti, perché credo non si possa non dire che le riforme incidono forse anche
oltre il 2015. In fondo 10 anni per una riforma scolastica, per il dispiegamento
dei risultati di una riforma scolastica, sono perfino pochi: quello che sta
succedendo oggi inciderà sul 2015, e probabilmente anche oltre.
E qui devo constatare che le discipline, i linguaggi non verbali, nel segmento
di scuola in cui lavoro - la scuola media - sono stati fortemente ridotti. 60
ore in meno, nell’arco di un anno scolastico, dedicate ad arte, musica e fisica
sono oltre il 10% in meno rispetto a prima. Quindi da un lato si parla della
pluralità delle intelligenze, della creatività e della centralità delle
competenze, ma dall’altro si agisce credo in una direzione contraria.
L’altra dimensione che volevo riprendere è quella dei poteri. Concordo, per
quello che so, con quello che ha detto l’insegnante sul fenomeno degli
homeschoolers. Credo che questo fenomeno possa essere considerato come un
aspetto rivelatore di una tendenza di fondo, che punta a spostare l’asse dei
poteri dall’offerta formativa pubblica, quindi dal corpo professionale della
scuola, docenti e dirigenti come interpreti e mediatori della cultura da
trasmettere, alla cosiddetta società civile. Con l’abolizione del vincolo
territoriale del bacino di utenza, forse è iniziato anche da noi un percorso
liberistico, o comunque di deregolamentazione del sistema scolastico.
L’autonomia delle scuole, nata come autonomia dallo stato centralistico e
burocratico, rischia nei prossimi anni, ma già da adesso, di dover affrontare un
problema opposto: quello della difesa dell’autonomia professionale delle scuole
e del loro piano dell’offerta formativa dal rischio di subalternità rispetto
agli interessi egoisti, e spesso forti, che si esprimono sul versante delle
famiglie e degli interessi forti della società civile.
Vinciguerra. Colgo l’occasione, per ringraziare sia i relatori che il pubblico
che ci ha seguito. Vorrei di nuovo tornare su un punto: che è opportuno porsi
questi problemi non in chiave catastrofica o allarmistica ma certamente per non
farsi trovare impreparati di fronte alla prospettiva che tra 10 anni un
ragazzino o un adolescente possa alzare gli occhi verso la cattedra e dire: "ma
quella signora cosa ha da insegnarmi?".
Un docente ha fatto un intervento interessante, sostenendo che si dovrebbe
parlare di fine della scuola pubblica, e non della scuola tout court. Ma in
effetti quanto abbiamo dibattuto tocca la scuola in generale, pubblica e
privata: è in generale la scuola come istituzione, al di là che sia pubblica o
privata, ad entrare in crisi. La scommessa dell’educazione che si giocherà nei
prossimi anni è proprio quella della credibilità e dell’esistenza stessa della
scuola come istituzione. Allora, se questo è "il paese che non amava la scuola"
- consentitemi la citazione di un volume di Alfredo Vinciguerra, fondatore di
Tuttoscuola – forse noi non abbiamo ricette da dare, però sentiamo il dovere
preciso di promuovere una riflessione a tutti i livelli. Gli allarmismi non
servono, serve riflettere su una questione strategica per il paese che dovrebbe
entrare nell’agenda politica dei prossimi anni, possibilmente non solo in tempo
di elezioni ma anche nell’operatività.