Da un Paese che
ogni anno discute sulle disparità dei criteri di valutazione degli
studenti nelle diverse regioni italiane (con un Sud più di “manica
larga”, ma poi indietro, rispetto al Nord, nelle prove oggettive in
italiano e matematica) ci si aspetterebbe un potenziamento dei test
Invalsi.
E invece nell’Italia “dell’istruzione a testa in giù” si rischia di
imboccare la direzione opposta: in parlamento infatti una larga fetta
di Pd e maggioranza, nell’esaminare il Dlgs attuativo della «Buona
Scuola» di riforma degli esami di Stato, starebbe pensando di eliminare
qualsiasi attestazione dell’esito dei test Invalsi al termine di medie
e superiori.
Una scelta che si fa fatica a comprendere, e che – se sarà avallata
dalla ministra Valeria Fedeli – comporterà un netto passo indietro
rispetto alla normativa attuale, voluta da Beppe Fioroni, che viceversa
proiettava i test Invalsi all’esame di Stato, valorizzando il punteggio
ottenuto dagli alunni.
Già l’attuale versione del decreto attuativo della legge 107 è stata un
compromesso: si prevede infatti che i test nazionali in italiano,
matematica e inglese entrino in quinta superiore, e la partecipazione
(attenzione, non il loro superamento) diventa, per i ragazzi, requisito
d’ammissione alla Maturità. In terza media, poi, l’Invalsi addirittura
non farà più parte, come accade adesso, dell’esame di licenza, ma si
svolgerà ad aprile.
Due frenate, quindi, a cui ora se ne potrebbe aggiungere una terza:
l’eliminazione di ogni traccia del punteggio conseguito, dicendo così
«addio» agli unici dati comparabili sui livelli di competenza raggiunti
da ciascun studente.
In una sola mossa, insomma, si finirebbe per penalizzare famiglie e
ragazzi; ridando legittimazione alla parte più sindacalizzata del mondo
della scuola (oggi in minoranza). Pur con tutti i limiti legati a prove
standardizzate, la comunicazione a genitori e agli stessi studenti dei
punteggi aiuta a capire la qualità dell’apprendimento. Sull’inglese,
poi, una certificazione ad hoc della scuola evita la frequenza di corsi
a pagamento (che potrebbero permettersi solo nuclei agiati). Per non
parlare della futura possibile semplificazione dei test di accesso
all’università (una volta che si dispone delle prove Invalsi).
E senza considerare, inoltre, che rendere questi test “formalmente
obbligatori”, ma senza conservarne tracce, rafforzerà l’atteggiamento
di disinteresse. In altre parole, se a contare è la sola
partecipazione, ogni ragazzo sarà tentato di “farli tanto per farli”
per adempiere a un fastidioso obbligo. Sbagliando approccio, certo; ma
con il risultato di darla vinta a quel pugno di docenti, da sempre
ideologicamente contrari a merito e pagelle.
Claudio Tucci
Il Sole 24 Ore