Sul
partigiano calabrese Dante Castellucci, detto Facio, nato a Sant'Agata
di Esaro in provincia di Cosenza il 6 agosto 1920 e ucciso
proditoriamente dai suoi stessi compagni di lotta (meglio chiamarli
subito "traditori"), ad Adelano di Zeri in provincia di Apuania (oggi
Massa-Carrara) la sera del 21 luglio 1944, non sono mancate nel corso
degli anni le ricostruzioni biografiche e le interpretazioni della sua
morte da parte di alcuni studiosi e cronisti locali e nazionali con
esiti diseguali e non sempre soddisfacenti. La mia rievocazione si
aggiunge adesso alle altre, anche se del caso mi ero occupato già in
tempi non sospetti, quando non si poteva ancora parlare di "assassinio"
e di "tradimento"; e non ho mai avuto difficoltà ad
evidenziare la verità di quel fatto increscioso e clamoroso, un
tragico incidente nella storia travagliata e non sempre lineare della
Resistenza italiana. Solo il saggio di Carlo Spartaco Capogreco, Il piombo e l'argento, edito da
Donzelli nel 2007, è un pregevole testo di storiografia e una dignitosa
ricostruzione storica che fa vera luce sul caso perché mette
opportunamente in campo tutte le risorse critiche e tutte le
testimonianze possibili, e non ha paura di approdare onestamente alle
orribili conclusioni dopo aver seguito ed inseguito le varie piste con
ampia libertà di giudizio. In seguito ad un tale pregevole esito, ed in
epoca decisamente più tranquilla, è venuto alla luce il saggio molto
raffinato e largamente meritorio di Luca Madrignani, Il caso Facio. Eroi e traditori della
Resistenza, pubblicato dal Mulino nell'ottobre 2014.
Dopo la pubblicazione del libro di Capogreco si sono fatti vivi alcuni
testimoni che forse sono stati colpiti da tanta lealtà storiografica e
non hanno voluto più navigare in una zona d'ombra di opportunistica
copertura, loro che erano stati protagonisti e attori e non semplici
comparse vaganti e contemplanti da lontano le terribili vicende della
guerra, degli eccidi nazifascisti e del massacro di un partigiano
autentico ad opera di coloro che avrebbero dovuto proteggerlo. Così si
è presentato finalmente alla ribalta un sacerdote ultranovantenne, don
Agostino Orsi, già parroco di Adelano, che aveva redatto il certificato
di morte di Facio miracolosamente ritrovato, dal quale si evince
chiaramente che la sua uccisione è avvenuta la sera del 21 e non
all'alba del 22 luglio 1944 e che la sua soppressione si è verificata a
seguito di un terribile agguato tesogli dai "patrioti". E tale
circostanza viene confermata da una postilla scritta a margine del
certificato di morte e da un testimone residente nel paese, un tale
Settimio Rossi di Adelano, che dichiara: "Ricordo benissimo Facio e
Laura [la fidanzata]. Il giorno che l'hanno ucciso, il 21 luglio 1944,
ricordo di averlo visto passare in un gruppo formato da una quindicina
di partigiani. Poche ore dopo abbiamo sentito delle raffiche e un colpo
di pistola .Quella sera tutti in paese sapevano che era stato ucciso
Facio" (Luca Borghini, Un sacerdote
rivela, in "Il tirreno" del 23 luglio 2011). Dunque, Facio
sarebbe stato attirato in un agguato da un certo Antonio Cabrelli e dai
suoi uomini e ucciso a tradimento anziché a seguito di un regolare
processo intentato da un tribunale di guerra partigiano per ragioni che
sarebbero semplicemente ridicole ed alle quali la più antica
storiografia filo-stalinista faceva riferimento per tentare una
giustificazione dell'assassinio, compiuto invece per ragioni di dominio
e di potere da uomini che si facevano chiamare partigiani comunisti e
garibaldini, ma che erano in realtà degli autentici avventurieri devoti
soltanto al machiavellismo più spregiudicato.
Dante Castellucci è un vero partigiano, un uomo che ha maturato una
solida coscienza democratica e antifascista, un intellettuale dal
cuore puro con un ideale ed una prospettiva di liberazione individuale
e nazionale. Egli ha solo 24 anni nel luglio 1944, ma è ormai formato
intellettualmente e moralmente e non adopera le armi, il cui uso ha
imparato durante il servizio militare di leva e la partecipazione alla
spedizione in Russia, per fare carriera o per imporsi sui compagni e
sulla popolazione locale. Egli parla perfettamente la lingua
francese, essendo vissuto in Francia per l'emigrazione della famiglia
dal 1922 al 1939, è amante della scrittura creativa, della pittura,
della musica e della buona letteratura.. Stringe amicizia con la
famiglia Cervi attraverso l'amico Otello Sarzi, e subito dopo il 25
luglio 1943, ancor prima che sia reso pubblico il famoso armistizio
dell'8 settembre, decide di abbandonare l'esercito e di diventare il
compagno e collaboratore di Aldo Cervi nel momento in cui
sull'Appennino Emiliano si costituisce la prima banda partigiana. La
sua militanza ideologica da questo momento si identifica con quella dei
comunisti libertari e democratici, antistalinisti. Con la fucilazione
dei fratelli Cervi e poi con la morte del comandante partigiano Fermo
Ognibene, Castellucci prende il comando dell'intera banda
"Picelli", affronta i nazifascisti nella battaglia memorabile e
vittoriosa del Lago Santo sotto il Monte Orsaro e, ricoperto di gloria
e di fama, si trasferisce in Alta Lunigiana., precisamente nell'area
dello Zerasco. Qui ha la sfortuna di imbattersi in un gruppo di
partigiani stalinisti e, più che altro, poveri filibustieri poco
raccomandabili, che hanno però dalla loro parte la conoscenza dei
luoghi e degli uomini e il controllo delle concrete relazioni sociali.
Sono uomini che hanno come loro capo e punto di riferimento il
camaleontico, astuto e violento Antonio Cabrelli, fedele prima al
duce e poi a Stalin, e ormai divenuto divulgatore eclettico della
dottrina comunista nella versione personalizzata e da lui
praticata con incisività. pragmatica. Con il senno del poi si può dire
che costui è molto lontano dal campo della Resistenza, anche se si
presenta come uomo fortemente resistenziale capace di inventarsi una
collocazione politica ed un posto di rilievo nella gerarchia partitica.
Sta di fatto che egli ottiene rispetto nel suo ambiente naturale e
omertà e collaborazione quando uccide Facio e fa circolare con
successo la notizia della sua necessaria soppressione per disturbo ed
ostacolo sistematico dell'azione partigiana.
La verità è che senza la collaborazione di tanti amici a lui molto
vicini, Antonio Cabrelli non avrebbe potuto tendere l'agguato a
Castellucci, né tanto meno avrebbe potuto giustificarne l'uccisione,
accreditandola persino nei confronti della futura memoria storica degli
anni Cinquanta e Sessanta mossa da puntuale giustificazionismo.
Processo politico o semplice assassinio che fosse, certo è che la
documentazione è carente o inesistente e parlano soltanto quei
testimoni che sentono il grido di dolore della loro
coscienza trattenuto per parecchi anni, e dicono cose spaventose. Tra
loro il capo partigiano sarzanese Franco Franchini, che ricorda
l'evento in un libro di memorie del 2005, e il giovane ispettore
politico Paolino Ranieri, anche lui di Sarzana, incaricato dal partito
comunista di accertare i fatti e valutare il comportamento di Cabrelli
e dei suoi amici autoproclamatisi membri del tribunale di guerra ed
esecutori di giustizia Costui riprende immediatamente la via del
ritorno con qualche disappunto e soprattutto con la paura di imbattersi
tra le montagne più che nei nazifascisti nei "patrioti" del gruppo di
Cabrelli. Insomma, l'ex parroco di Adelano don Agostino Orsi, Settimio
Rossi, nato e vissuto nello stesso luogo, ed altre persone del paese
che
hanno visto o udito oggi insistono perché si faccia giustizia,
soprattutto rispetto alla lapide commemorativa del 1963 assai
imbarazzante: "Castellucci Dante. Nato a Sant'Agata d'Esaro ed ivi
residente. Partigiano dall'1 ottobre 1943 al 22 luglio 1944 Brig.
Garibaldi-Emilia. Decorato di medaglia d'argento con la seguente
motivazione: <Valoroso organizzatore della lotta partigiana,
incurante di ogni pericolo, partecipava da prode a numerose cruente
azioni. Scoperto dal nemico, si difendeva strenuamente; sopraffatto e
avendo rifiutato di arrendersi,veniva ucciso sul posto. Esempio fulgido
del più puro eroismo. Pontremoli, 22 luglio 1944>".
L'evidente falsità della lapide commemorativa ha creato imbarazzo.
Molti si sono accorti dell'amara incongruenza e uno studioso locale,
Giulivo Ricci di Aulla, nella sua Storia
della Brigata Matteotti-Picelli del 1978, a pag. 1, poteva
parlare per enigmi, non senza difficoltà e titubanza , di una sentenza
di condanna emessa contro Facio dal collegio giudicante: "La sentenza,
in sostanza, riconosceva Dante Castellucci <reo di atti di
sabotaggio all'azione patriottica e di avere con questo
favoreggiato il nemico>. Il Facio avrebbe infine ammesso di avere
sbagliato, ma in buona fede; buona fede che il tribunale dichiara di
non poter prendere in considerazione, pronunciando la condanna alla
pena capitale. La sentenza veniva eseguita il giorno seguente, 22
luglio 1944, all'alba". E in appendice allo stesso libro, a pag.
275, lo studioso poteva inserire un testo mutilato della motivazione
della medaglia d'argento attribuita alla memoria di Facio, che aveva
partecipato "da prode a numerose azioni", ben sapendo che non era
stato il "nemico" ad ucciderlo, bensì colui che si dichiarava amico e
compagno, assieme ad altri amici e compagni.
La storiografia ha risentito nel caso Facio del clima psicologico
e sociologico non perfettamente adeguato alla ricerca ed alla
esposizione della verità fino agli anni Ottanta ed oltre, poi si è
fatta strada lentamente la ricerca della verità a tutti i costi, con
sacrifici personali e perdite di amicizie, e l'esigenza di non potere
più coprire piccole o grandi vergogne resistenziali ha preso il
sopravvento tra i testimoni oculari di un tempo divenuti ormai anziani
e tra gli storici che non potevano essere superati dai testimoni
nell'esposizione e ricostruzione del vero. E così oggi si avverte tutto
il fastidio nei confronti delle pagine 317-318 dello storico spezzino
Antonio Bianchi nella sua Storia del
movimento operaio di La Spezia e Lunigiana pubblicata dagli
Editori Riuniti nel 1975: "Oggi, a distanza di tempo, si può dire che
Facio cadde vittima di un grave errore dovuto ad una valutazione dei
fatti eseguita in modo errato, in particolare da Antonio Cabrelli,
commissario politico che non tenne conto della figura del combattente,
del suo passato e delle circostanze che non giustificavano
assolutamente tale grave decisione".
La verità storica non poteva essere taciuta in tutta la sua
gravità, e non è stata taciuta né dai primi testimoni allo stato
"puro" come Franco Franchini, Paolino Ranieri , Nello Quartieri e
Laura Seghettini, né dagli storici "revisionisti" a partire da Carlo
Spartaco Capogreco e dal suo Il
piombo e l'argento, che abbandona definitivamente le ragioni di
opportunità ed i condizionamenti localistici ed entra direttamente in
medias res, attribuendo a ciascuno i propri meriti o demeriti in
base alle azioni effettivamente compiute ed alla documentazione
reperita in tutti i luoghi, senza nulla escludere. Se questo è
revisionismo, bisogna dichiarare subito che esso è il modo più
corretto ed onesto di fare storiografia, ed è anche il più
adeguato alla realizzazione sensata e razionale del lavoro storico.
Pare finalmente che siamo approdati all'unica conclusione possibile
nell'intendere la storiografia della Resistenza metodologicamente non
diversa dalla scienza e da tutta la storiografia per le sue
caratteristiche ricostruttive operate alla luce della certezza, senza
darsi alle invenzioni o subire le imposizioni ambientali ed i
condizionamenti di vario tipo. La storiografia ha il solo compito di
ricostruire la realtà effettuale e di darne la giusta interpretazione,
senza cadere nell'esaltazione acritica dell'oggetto studiato o nella
sua demolizione insensata. Il tempo poi sana ogni omertà e le false
posizioni e giustificazioni di storici e memorialisti, che sono
costretti a ricredersi ed a rivedere con vergogna il loro lavoro. La
memorialistica resistenziale ha giocato un ruolo nefasto, togliendo
terreno al rigore storiografico e usando le ricostruzioni in modo
autoreferenziale ed esaltatorio o demolitorio, secondo l'interesse
personale o di gruppo. Per queste ragioni si può accettare la
raccomandazione di Santo Peli (La
Resistenza in Italia. Storia critica, Einaudi 2004, p.
267), quando dice che è ormai inevitabile una riflessione "sui limiti e
le difficoltà interne al progetto ed alle realizzazioni della
Resistenza". Non dico perciò nulla di strano se aggiungo che è finito
il tempo dei memorialisti e della produzione storiografica
autoreferenziale che ha messo in crisi l'uso credibile della storia
resistenziale.
prof. Salvatore Ragonesi
salvatoreragonesi@hotmail.com