Subito dopo
l'annessione territoriale si pone il problema di fare
l'Italia come nazione e gli abitanti degli ex Stati come cittadini di
un unico Stato. Questa non è operazione facile; ma un intellettuale
meridionale sa cosa e come fare: "Fare intendere Hegel all'Italia- dice
Pasquale Villari scrivendo a Bertrando Spaventa - vorrebbe dire
rigenerare l'Italia. Io per me credo che, se tu cominci, vedrai
sorger per via elementi d'una vita che non aspettavi [...] Io credo
che,
superato il primo ostacolo, tu ti vedresti padrone di tutta la
gioventù. Camillo [De Meis] ti potrà dire che entusiasmo producevano le
parole di De Sanctis quando egli spiegava qualche pagina dell'Estetica
di Hegel. Ha fatto lezione per moltissimi anni; i suoi giovani
parlavano solamente di quel tempo in cui si spiegava qualche pagina
dell'Estetica di Hegel. E' un
sistema quello che, una volta inteso, s'impadronisce di tutte le
cognizioni di un uomo, di tutte le azioni, di tutta la vita. In Italia
non si è ancora visto un simile fatto, e ve ne è bisogno; senza
filosofia non si può diventar nazione, e filosofia italica oggi non
v'è,
né vi è speranza, se qualche giovane ardito non si spinge innanzi:
ardisci" (Silvio Spaventa, Dal 1848
al 1861. Lettere Scritti Documenti, a cura di B. Croce,
Laterza, Bari 1923, p.78). La lettera di Villari a B. Spaventa è molto
importante perché attribuisce alla cultura un ruolo decisivo nella
formazione della nuova Italia e ai grandi intellettuali
meridionali, abituati a studiare in modo non libresco ed a vivere una
vita di sofferenze e di miseria, lontani dalle vuote accademie, la
missione di rappresentare tutta la nazione e di far ritrovare agli
italiani la coscienza di sé: "Lascia che gli accademici si beino
della loro grandezza, che nessuno trovi parole per lodare il suo
compagno, si addormentino in questo sogno beato i vecchi filosofi; tu
veglia e trova la via. Quando griderai eureca, si sveglieranno e
seguiranno le tue pedate" (ibidem).
In realtà, la filosofia elaborata e praticata da Bertrando Spaventa,
Francesco De Sanctis, Camillo De Meis, Sebastiano Maturi, Donato
Jaja, Pasquale Villari, Augusto Vera, Francesco Fiorentino, Felice
Tocco, Francesco Acri, Alfonso Asturaro, Andrea Angiulli, Pietro
Siciliani, Antonio Labriola, ecc. ha enorme forza trascinante, tale da
sommergere le vecchie filosofie italiche e lo stesso Gioberti molto
osannato e citato nelle accademie reali e nobiliari, nonostante la viva
repulsione da parte degli intellettuali meridionali d'avanguardia: "Era
più di dieci anni che non leggevo Gioberti. Non mi è mai piaciuto; ma
ora mi sembra un fanfarone. Niente, niente, niente di filosofico.
Nessuna
veduta grande; nessun criterio storico; nessuna intelligenza del suo
tempo e dello spirito umano. Una chiacchiera perpetua, un dommatismo
perpetuo, una fantasticheria perpetua. Povero paese nostro" (Lettera
dell'11 ott. 1857 di Bertrando Spaventa al fratello Silvio, rinchiuso
con Luigi Settembrini ed altri intellettuali napoletani nel
penitenziario di Santo Stefano, in S.
Spaventa, op. cit.,p.244). Così i filosofi del Sud fanno scuola
ai giovani dell'Italia unificata, si pongono a capo delle nuove
correnti, dal neohegelismo al neokantismo, dal positivismo al marxismo,
dal neoplatonismo allo storicismo, e ancor prima dell'apparizione
all'orizzonte di Benedetto Croce e Giovanni Gentile decretano
l'egemonia filosofica e culturale del Meridione.
Di tale egemonia s'accorge per primo un eccellente intellettuale
bresciano, Giambattista Passerini di Casto in Valsabbia, il quale nel
1864 scrive al critico napoletano Vittorio Imbriani a proposito del Sud
e della sua filosofia: "Io ritengo sempre che il vostro Paese è quello
che ha più disposizione agli studi di filosofia, come, per seguire la
vostra critica, è quello che in Italia è meno disposto alla Politica"
(V. Imbriani, Carteggi di Vittorio
Imbriani, a cura di Nunzio Coppola, Istituto per la Storia del
Risorgimento Italiano, Roma 1964, p.18). Grande studioso della
letteratura filosofica europea, il Passerini viaggia per l'Europa,
conosce personalmente De Sanctis, Raumer, Neander, Cousin, Hegel
e Schleiermacher ed è in grado di comprendere la natura e la
qualità sia della filosofia che dei filosofi meridionali e della
cultura suo tempo. Il suo merito maggiore consiste nella
traduzione della Filosofia della
storia di Hegel, con un suo lungo saggio introduttivo contenente
uno schizzo storico di questa disciplina ed una valutazione critica dei
filosofi che ne trattano prima di Hegel, nell'aver compreso
l'importanza della Scienza della
logica e nell'aver criticato la pretesa hegeliana dell'immediato
passaggio dall'idea al mondo reale. Egli rivolge la sua attenzione ai
filosofi meridionali ed agli studi che fioriscono nelle loro regioni,
giacché è attento alla costruzione della cultura nel nuovo Stato
nazionale, del quale la buona filosofia può diventare l'elemento
decisivo. Ma l'importanza dei filosofi deriverebbe soprattutto dalla
loro collocazione nella storia della filosofia e nella vita
spirituale della nazione. Essi non sono di scarso valore speculativo,
anche se non godono della fama adeguata e dell'attenzione scolastica,
spesso neppure nelle città in cui sono nati. Il loro spessore
teoretico, come riconosce giustamente il Passerini, è indubbiamente
superiore alla loro fama. Si può osservare peraltro che il Pese in cui
fiorisce la filosofia si trova economicamente e socialmente indietro
rispetto all'altra parte d'Italia ed ai Paesi europei come la Francia,
l'Inghilterra, l'Austria, la Germania, la Svizzera. Ma nessuno di
questi può togliere il primato speculativo al Meridione d'Italia
subito dopo l'unificazione, nonostante la sua deficienza
socio-economica, che del resto viene segnalata a chiare lettere, senza
ambiguità, da uno dei più grandi intellettuali napoletani, Pasquale
Villari. "Intanto - egli dice - è utile illuminare la pubblica opinione
rivelando le nostre piaghe e le nostre vergogne, senza paura del
ridicolo o del discredito, che si cercherà di gettare su quelli che
oseranno parlare. La libera stampa e la scienza hanno da lungo tempo
imparato ad affrontare questi pericoli negli altri paesi, e debbono
affrontarli anche fra noi" (Pasquale Villari, Lettere meridionali, Le Monnier,
Firenze 1878, p.71). Egli è il maestro di Gaetano Salvemini ed il
teorico di un positivismo critico moderno e produttivo, come appare a
chi legge attentamente la sua produzione, e non può essere mescolato
con le grettezze materialistiche e sensistiche di altri positivisti.
Il problema che si pongono i grandi pensatori meridionali dopo il
1861 è quello di fare della buona filosofia e di applicarla
possibilmente ai vari campi della ricerca scientifica. Esemplare è in
questo senso la fatica storiografica di Bertrando Spaventa, Pasquale
Villari, Antonio Labriola e Francesco De Sanctis, che nella sua Storia della letteratura italiana
(1872-73) riassume egregiamente la necessità di combattere
l'arretratezza ideologica dell'Italia presentando e commentando i
migliori prodotti letterari, il meglio dei contenuti e delle opere
della cultura nazionale. E così non solo i poeti siciliani e la poesia
di Dante, Petrarca, Ariosto, Tasso, Parini, Foscolo e Leopardi o la
prosa di Boccacio, Machiavelli e Manzoni, ma anche le opere filosofiche
di Telesio, Bruno Campanella e Vico, la scienza di Galilei, la storia
di Sarpi, la commedia di Goldoni, la tragedia di Alfieri, la critica
letteraria di Baretti, Algarotti e Bettinellli, ecc. escono dall'ombra,
s'impongono per la loro tensione estetica, morale e intellettuale e
s'imprimono energicamente nell'intelligenza degli studiosi e dei
lettori della nuova Italia. Tutta la Storia
desanctisiana è costruita secondo la concezione di una vita
letteraria "totale", che abbraccia tutte le manifestazioni più efficaci
dello spirito e della cultura, perché al centro dell'arte, della grande
arte, vi è l'incontro della facoltà immaginativa, della "cosa" divenuta
"forma", con la visione morale e storiografica. E l'arte non è
destinata a morire sotto i colpi della filosofia, come vorrebbe Hegel,
ma a vivere per sempre: " Certo, ci sono dei tempi nei quali il
pensiero
puro sottentra all'arte, ma l'arte e la religione sono immortali, e
vivono contemporaneamente presso popoli più giovani e rinascono dalle
ceneri della filosofia. L'arte, la religione e il pensiero puro non
sono
tre contenuti, ma lo stesso contenuto sotto tre forme che nascono,
crescono, periscono per dar luogo all'altra, insino a che il contenuto
si esaurisce. Da un nuovo contenuto ripullulano da capo le forme:
eternità di contenuto, eternità di forme. Il contenuto non ritorna,
progredisce sempre; le forme soggiacciono alla legge di ritorno del
Vico. Hegel confonde le due cose e fa finire l'umanità con lui"
(Francesco De Sanctis, Lettere a
Pasquale Villari, Einaudi, Torino 1955, p.45). Anche la Storia desanctisiana,
nel suo genere, è opera d'arte che non può morire per la sua bellezza
formale, la sua intensità etica e contenutistica, la sua lingua
asciutta ed efficacissima, che è anch'essa una straordinaria
invenzione artistica.
La contraddizione tra le condizioni di arretratezza socio-economica del
Sud e la singolare qualità della sua cultura filosofica e della sua
letteratura (come dimostrano in modo indiscutibile Luigi Capuana,
Giovanni Verga, Federico De Roberto, Elio Vittorini, Giuseppe Tomasi di
Lampedusa, ecc. che in epoca positivistica e neorealistica dominano il
paesaggio letterario italiano) è davvero molto stridente, ma è proprio
la debolezza della struttura che, secondo me, consente per esempio ad
un possente uomo del Meridione, Antonio Labriola, di interpretare il
marxismo in modo acutamente antideterministico, di rivedere il
rapporto irrigidito di struttura e sovrastruttura e di integrare la
teoria del materialismo storico con una visione totale e totalmente
dialettica, per la quale le forme della coscienza, come son determinate
dalle condizioni di vita, sono e costituiscono anch'esse la struttura
portante della storia. Questa non è data dalla sola anatomia economica,
ma da tutto quello che tale anatomia riveste e ricopre, fino ai
riflessi multicolori della fantasia. Per dirla con il Labriola, "non
c'è fatto della storia che non ripeta la sua origine dalle condizioni
della sottostante struttura economica, ma non c'è fatto della storia
che non sia preceduto, accompagnato e seguito da determinate forme di
coscienza, sia questa superstiziosa o sperimentata, ingenua o riflessa,
matura o incongrua, impulsiva o ammaestrata, fantastica o ragionante"
(A.Labriola, Del materialismo
storico. Delucidazione preliminare, Newton Compton, Roma 1975,
p.50).
Labriola sa che esiste una stretta connessione tra struttura e
sovrastruttura e che la produzione delle idee non è meno qualificante
della produzione materiale; solo che tra le due produzioni si
stabilisce un rapporto dialettico che esclude il monolitismo ed esalta
la mediazione nell'integralità e nella totalità della ricognizione
cognitiva. Si tratta, è bene dirlo, di una giusta visione della
metodologia marxista che molti altri revisionismi confermeranno e
che serve ad intendere più correttamente le questioni della storia.
Questa visione antieconomicistica è il frutto di una acuta lettura di
Marx e di una contestazione del verbo rozzamente positivista
(affermatosi decisamente nella II Internazionale) che semplifica
la realtà e immiserisce i fatti e gli apparati ideologici e culturali.
Il caso del Verga e di tutti i grandi scrittori e poeti sta lì a
dimostrare che il vero artistico non è un semplice prodotto
sovrastrutturale e che la storia non può non confrontarsi con la
totalità delle strutture e delle sovrastrutture, delle verità di
ragione
e delle verità di fatto. La lezione di Labriola non può essere
facilmente dimenticata, e in effetti essa viene ricordata e ripresa da
Antonio Gramsci soprattutto nei suoi Quaderni
del carcere, che ripresentano il pensiero di Croce e
Gentile in una versione totalmente rinnovata e quasi irriconoscibile.
Antonio Gramsci è un uomo del Sud, come Jovine, Silone, Brancati,
Vittorini, Quasimodo, Tomasi di Lampedusa, Leonardo Sciascia, ecc.;
egli
è un intellettuale che non dimentica la lezione di Marx, ma
soprattutto non perde la memoria della nazione alla quale sente
fortemente di appartenere prima che al marxismo ed al sovietismo. La
cultura storicistica, che egli ha profondamente assimilato da De
Sanctis, Labriola e Croce, non gli consente di andare al di là
del territorio conosciuto e conoscibile, senza correre il rischio di
astrazioni inconcludenti o fuorvianti. Per lui, la storiografia è
il solo territorio praticabile e fruibile con interpretazioni
stringenti e puntuali sotto il profilo filologico. Il resto appartiene
ai teorici privi di storicità, ai filosofi puri incapaci di vedere i
dati di fatto e di diritto e di avere un punto di partenza che non sia
la loro vicenda personale e autocelebrativa. Questa è la
filosofia che scorre nelle vene gramsciane pure all'interno del
carcere e nell'isolamento dai compagni di partito. E la sua
faticosa elaborazione in carcere è uno dei migliori contributi
che il Meridione offre alla costruzione della cultura nazionale.
prof. Salvatore Ragonesi
salvatoreragonesi@hotmail.com