La
lotta ventennale contro la cosiddetta partitocrazia, condotta dai
radicali, da Berlusconi da Grillo e ora dallo stesso governo, nel
nome e per conto della restituzione ai cittadini dei diritti di
cittadinanza di cui sarebbero stati espropriati, ha creato un'opinione
pubblica ostile ai partiti come strumento di elaborazione e di
rappresentazione dei vari interessi della società, alla loro
organizzazione e alla loro classe dirigente. Nel periodo che va dalla
caduta del muro di Berlino al rapido disfacimento della cosiddetta
Seconda Repubblica dallo scenario politico italiano sono scomparsi
tutti i partiti che hanno condizionato la buona e la cattiva sorte dei
primi quarant'anni della storia repubblicana e che hanno dato alla
nazione la sua costituzione. E' una situazione che condividiamo con le
nazioni uscite dal sistema del socialismo reale di stampo
sovietico, ma che non ha alcuna somiglianza con i paesi di antica e
consolidata democrazia. Tutto questo, però, non è il segno della
forza delle nuove culture politiche, ma quello dell'estrema debolezza
degli ultimi protagonisti delle vecchie culture
politiche. La sommatoria dei tatticismi, degli stratagemmi,
dell'inconsistenza individuale di quei leaders, unita all'incapacità di
affrontare i problemi della società ha reso possibile la liquidazione
di un ricco patrimonio di idee e di esperienze.
In Italia si è arrivati al punto di non utilizzare più lo stesso
termine di partito per denominare le molteplici formazioni politiche
che si presentano alle elezioni e sono rappresentate nelle istituzioni,
quasi fosse un delitto pronunciarlo. Solo il PD per ora continua a
utilizzarlo. La profondità della crisi e l'incertezza del futuro
democratico spingono a fare qualche riflessione sulla situazione che si
è venuta a creare. La corruzione nei pubblici affari, gli sprechi
nell'amministrazione, i privilegi grandi ed ostentati dei detentori di
cariche istituzionali accompagnati da frequenti manifestazioni di
arroganza, le violazioni della legalità nell'esercizio del potere,
l'invadenza della politica in ogni settore della società,
l'inettitudine di molti dirigenti politici a compiti ad alto contenuto
culturale o tecnico avevano segnato le vicende pubbliche delle
istituzioni a partire dagli anni '80 e determinato la fine alla Prima
Repubblica.
Ma nel ventennio del nostro gridato bipolarismo non se ne è tratto il
dovuto insegnamento. Anzi la riproduzione allargata degli stessi fatti
ha dato il colpo definitivo alla credibilità non solo dei partiti ma
anche della stessa politica; ha fatto venir meno nei loro confronti
quel rispetto che consente una regolare vita delle istituzioni e ha
reso forte il desiderio di fare piazza pulita. La vastità, la
profondità e la durata dello scandalo di un ceto politico rapace e
sprezzante del bene pubblico e della dignità delle istituzioni è stato
uno dei motivi certi del rapido ed esteso successo di Grillo.
L'autoritarismo dell'organizzazione del Movimento 5Stelle,
l'indecifrabilità delle proprie procedure, l'assenza di visibili luoghi
di confronto, la ripetuta aggressione verbale e morale contro tutte le
altre forze politiche hanno creato le condizioni del suo isolamento e
gli impediscono di dare quel contributo al miglioramento delle
condizioni della società, che molti si aspettavano anche tra quelli che
non l'avevano votato. E proprio quello che si sta osservando in questo
primo anno della legislatura,in uno dei passaggi più difficili e
delicati per la società italiana: ha scelto di fatto una posizione di
stampo aventiniano, molto sterile sul piano dei risultati. Sarà
difficile che nel futuro (e prima che arrivi al 100% dei consensi..)
trovi interlocutori più attenti e interessati di Bersani al contenuto
delle sue principali richieste. Una buona occasione persa, di cui si
pentiranno per molto tempo.
Credo che per comprendere qualcosa di più di quello che è successo e
sta succedendo non bisognerebbe fermarsi a interpretazioni di
tipo moralistico. E' possibile cercare altre, ma non esclusive
spiegazioni nelle trasformazioni della società italiana avvenute a
partire dalla metà degli anni '80, quando hanno cominciato a richiedere
spazio e visibilità sociali un insieme di ceti emergenti per i quali le
regole e i vincoli di legalità e di solidarietà venivano sentiti come
costrizioni insopportabili; ceti sociali animati da forme esacerbate di
individualismo e per i quali la formula ironica di edonismo reganiano o
quella più truce della Tatcher secondo cui non esiste società sono in
grado di dirci qualcosa di loro. Sono i gruppi e gli strati sociali del
mondo della comunicazione, dello spettacolo ,del divertimento, dei
servizi, delle professioni vecchie e nuove, delle consulenze,
dell'informatica della microimprenditorialità, del piccolo e del grande
commercio,della piccola e grande proprietà agricola.
Accanto a questa profonda innovazione della struttura sociale
nello stesso periodo incominciava a realizzarsi
un riassetto complessivo della struttura economica della società, che
ha creato nuovi e inediti rapporti tra i vari settori della produzione
e dei servizi e che ha dato inizio ad un processo che sembra
irreversibile di contrazione delle dimensioni aziendali,compensato in
parte dalla rete di connessioni tra unità produttive e di
servizio dislocate nel territorio. Le aziende non si concentrano;
si diffondono, si ramificano nel territorio specializzandosi su settori
limitati di prodotto o su produzioni di nicchia; le
aziende, inoltre, de localizzano alla ricerca di condizioni più
favorevoli del costo del lavoro. Più piccola e in ambiti territoriali
di limitata estensione o con la prospettiva di un trasferimento in
altro territorio l'azienda si presta più facilmente ad essere luogo di
controllo sociale della forza lavoro, di flessibilità produttiva e
gestionale; ma comincia a diventare anche,in questo
periodo, luogo di formazione di un nuovo ceto
imprenditoriale,proveniente per lo più dalla costola della classe
operaria o del lavoro dipendente.
La tragedia italiana è che al problema dei ceti emergenti,
così sommariamente delineato, nè Berlusconi e la Lega
prima, nè Grillo, né Renzi, oggi, verso cui si sono prevalentemente
indirizzati, sono stati e sono ancora capaci di dare un linguaggio
politico civile e una adeguata rappresentanza pubblica delle loro
legittime esigenze. Per quanto riguarda il secondo problema la sinistra
e i sindacati non sono riusciti a comprendere quello che avveniva nel
mondo delle fabbriche e nell'insieme del lavoro dipendente, ponendosi
in un ottica di mera difesa dell'esistente che ha finito per tutelare i
tutelati e per rendere marginali o indifese le nuove leve del mondo del
lavoro. Per un verso, quindi, una parte significativa della
società, che non è stata presa in considerazione tra
l'altro nemmeno dalle esistenti, molteplici organizzazioni sociali di
categoria, non riesce a trovare ancora il modo di
dare un vero sbocco politico ai propri interessi. Per un altro
verso le grande trasformazioni del tessuto economico-aziendale
non hanno avuto adeguata comprensione e di conseguenza adeguate
politiche economiche di sostegno e di orientamento degne di questo
nome. E'mancata per i ceti emergenti una proposta che prendesse in
seria considerazione loro la legittima esigenza di tutela sociale e di
sviluppo, che li collegasse e li mettesse in sintonia con il
resto della nazione, la sua storia, la sua cultura e le sue
tradizioni politiche-istituzionali. E' mancata per tutta la società un
progetto di sviluppo economico che salvaguardandone le più
spiccate caratteristiche e gli equilibri sociali
consolidati, la lanciasse sulle orme dei nuovi settori di
produzione e dei mercati.
La classe dirigente (nelle sue varie articolazioni) non si è sforzata
di comprendere il significato del passaggio storico che si stava
compiendo nella società italiana e fatto ancora più grave ha
sottovalutato gli ammonimenti di chi parlava proprio in quegli anni di
crisi fiscale dello Stato e dell'impossibilità di mantenere
l'impalcatura dello stato sociale come si era venuta a costituire
a partire dagli anni '60 e i livelli di spessa pubblica,comunque
indirizzata.
In Italia, a pensarci bene, si è costruito uno stato sociale che
ha messo insieme il più elevato debito pubblico europeo e
l'allargamento della stratificazione sociale, delle distanze sociali
delle classi; uno stato sociale che ha creato una crescita esponenziale
del pubblico impiego e non della qualità delle prestazioni dei
servizi. Si è così avuta un'espansione della spesa pubblica per
assecondare un accrescimento delle articolazioni delle istituzioni, che
è sembrato per molti aspetti una specie di nazionalizzazione della
società e che non ci ha dato un vero guadagno di partecipazione
democratica. Ne è derivato un aumento incontrollabile della spesa
regionale e degli enti locali, seguito a partire dagli anni
2000 da un' esplosione dei costi delle cariche pubbliche e del
finanziamento dei partiti.
Tutto si è tenuto fino alla caduta del muro di Berlino, fino a quando,
cioè, la logica delle appartenenze internazionali
consigliava alle grandi istituzioni finanziarie di
soprassedere sul debito pubblico italiano e sull'allegra gestione
delle finanze dello stato. La caduta del muro di Berlino, che avrebbe
dovuto chiudere la stagione dell'anticomunismo, sicuramente ha chiuso
la stagione di tolleranza verso le condizioni finanziarie dello
stato italiano. La finanziaria di 90 mila Miliardi di
lire di Giuliano Amato è proprio del '92
ed è stato il primo doloroso passo per il riassetto dei conti
dello Stato: operazione che continua ancora oggi con scarsa
efficacia.
La soluzione del problema fiscale è il nodo da sciogliere da qualche
decennio perché in esso si intrecciano il ridimensionamento delle
patologie dello stato sociale, la riqualificazione della spesa
pubblica, la riduzione del costo della politica, l'attenzione ai nuovi
ceti emergenti,la possibilità di liberare risorse per nuove politiche
di sviluppo. L'insensibilità e l'incapacità dei partiti e dei governi
ad affrontare questo problema hanno creato le condizioni della guerra
aperta dei nuovi ceti emergenti contro i partiti, la politica e le
istituzioni del passato per potersi liberare del peso fiscale che
impedisce, secondo loro, di crescere e di svilupparsi e non
arreca alcun guadagno sociale collettivo. Questa ribellione
nelle condizioni del sistema maggioritario, instaurato agli inizi degli
anni '90, ha determinato negativamente le vicende politiche della
nazione e alimentato un continuo stato di tensione e di
insoddisfazione che sta mettendo in crisi definitivamente gli equilibri
sociali e politici della nazione. La lontananza della politica da
questi problemi, oltreché i suoi costi e i suoi eccessi sono
all'origine del ventennale processo di decomposizione del sistema
politico-istituzionale e della difficoltà di trovare la via d'uscita
con sicure e affidabili prospettive di rinnovamento.
Il modo in cui si è usciti dalla Prima repubblica condiiziona ancora
oggi le sorti della convivenza civile. I partiti dovevano alleggerirsi
di personale stabile, di costi, di competenze, di peso politico e
caricarsi di vincoli relativi a regole di funzionamento, finanziamento,
partecipazione degli iscritti, costituzione degli organi di
direzione,processi decisionali; dovevano ridiscutere da cima a fondo le
ragioni storiche della loro esistenza e le prospettive di rinnovamento.
E tutto questo per mantenere il profilo di soggetti indispensabili del
funzionamento della società, del dinamismo delle relazioni
politiche e sociali, di protagonisti della partecipazione e del
controllo democratico delle istituzioni;e tutto questo per non ridursi
a mero esercito di complemento del leader o dell'oligarchia padroni
della sigla di una formazione politica, causa principale dello
scollegamento tra politica e società. Dopo la traumatica crisi di
tangentopoli si doveva procedere ad una revisione profonda dei principi
etico-politici propri ad ogni formazione politica, al rinnovo del patto
di convivenza delle varie culture politiche presenti nella società, ad
un nuovo patto costituzionale tra istituzioni e società e non solo ad
un nuovo sistema elettorale, che senza adeguati contrappesi è stato un
moltiplicatore degli elementi di disgregazione politica.
La crescente autonomia dei padroni dei partiti rispetto alla propria
organizzazione è stata speculare all'autonomia degli eletti rispetto al
proprio elettorato e tutte e due sono state speculari all'autonomia dei
vertici delle istituzioni rispetto agli organi consiliari: fatti che
hanno prodotto l'avvitamento delle istituzioni su se stesse, prive allo
stesso tempo del sostegno dei partiti e della partecipazione popolare.
Iscritti ed elettori fuori dalle scelte dei partiti; partiti fuori
dalle scelte delle istituzioni; ridimensionamento del ruolo civico
della partecipazione e del controllo popolari hanno creato le
condizioni della separatezza della politica e reso incolmabile
la sua distanza dai problemi reali della società; hanno
creato le condizioni della permeabilità delle istituzioni agli
interessi illegali e alle pressioni lobbistiche, della
dilatazione della spesa per il funzionamento delle istituzioni, degli
sprechi, dei privilegi (emolumenti faraonici, indennità fantasiose,
consulenze stravaganti etc ,etc,)
Per uscire dall'intricato garbuglio sociale e politico in cui si è
cacciata la società italiana non sono assolutamente indicati il
menù ricco dell'antipolitica, la promessa dello smantellamento della
stato di diritto, della legalità e anche della Costituzione,
l'accarezzamento dei vizi congeniti di parte del mondo imprenditoriale
e dello scarso civismo di parte consistente della società o
l'innalzamento del debito pubblico per mantenere ad oltranza uno stato
sociale dispendioso, inefficiente e sempre più avaro di servizi e
prestazioni.
Il sistema dei partiti tradizionali, di cui sono rimaste pochissime
reliquie, sicuramente nel tempo si è caricato di molti vizi e
difetti, ma ha garantito non solo ai propri iscritti, ma
all'intero corpo della nazione un variegato intreccio di appartenenze
comunitarie, che assicurava la possibilità di interpretare esigenze e
bisogni personali alla luce di un'idea positiva e complessa di società,
che legava insieme passato, presente, e futuro. I partiti
rappresentavano interessi, legittimavano aspettative, mediavano
conflitti, proponevano soluzioni. Erano nel loro insieme un elemento
importante di coesione, perche le diverse opzioni politiche si
riconoscevano ugualmente valide e legittime nel rispetto della legalità
repubblicana della costituzione. Questo patrimonio non doveva
essere buttato al macero, ma corretto profondamente e salvaguardato,
perchè sarebbe stato ancora di aiuto alla soluzione dei
problemi della società soprattutto nei suoi momenti più difficili..
Non si può dimenticare che per impulso dei partiti di massa
e popolari nel tempo, anche se con i limiti che sono stati
indicati, si è costruito un sistema di tutele sociali che ha reso
sopportabili e superabili a parti cospicue della società gli stati di
necessità;che ha cercato di dare ad ognuno la possibilità di sperare in
una vita libera da diverse forme di angherie e di costrizioni e
l'opportunità di una vita dignitosa.
Lo smantellamento puro e semplice del sistema dei partiti ,da tanti
cercato e desiderato, indebolisce le possibilità di una revisione equa
e razionale dello stato sociale, cosa che era ed è opportuno fare, con
la conseguenza di rendere quella parte della società, che vi
trova protezione, più sola e più debole. Non l' affranca da
nessuna tirannia e anzi la consegna inerme ai veri poteri
forti (lobbyes professionali, assicurazioni, banche, imprenditori del
settore sociale etc), che non trovano più a contrastarli le buone leggi
e le istituzioni della società civile. Si sta parlando di
quella parte, sempre più estesa della società che non può, certo,
essere consolata e aiutata con le cianfrusaglie ideologiche della
flessibilità,della mobilità, della cultura d'impresa etc, etc, etc.
Anzi l'ossessiva ripetizione di queste giaculatorie nei momenti di
crisi economico-sociale senza volerlo acuisce il senso di disperazione
sociale proprio per la loro irridente vacuità culturale e
politica.
Il declino o il ridimensionamento casuale e indiscriminato dello stato
sociale non sono il rimedio per dare una soluzione ai problemi della
società italiana. E non lo sono come si è dovuto constatare i
partiti personali, oligarchici, che mutano pelle ad ogni tornata
elettorale, che non hanno e non vogliono avere una propria
storia, che seguono i sondaggi ,ma non conoscono i problemi della
società, che parlano alla pancia degli elettori e non scommettono un
centesimo sul senso di responsabilità collettiva per un progetto di
rinnovamento all'insegna della giustizia e della solidarietà tra le
generazioni. Non sono un rimedio ai problemi della nazione le
formazioni politiche che fanno ricorso a strumenti plebiscitari e non
alla riflessione, allo studio, alla ricerca, al dibattito, al
confronto e alla partecipazione per affrontare i problemi e
prendere decisioni. Restare in questa confusa poltiglia politica
significa impedirsi risolutamente la possibilità di indicare alla
nazione e alle nuove generazioni la prospettiva di un comune destino,
di una convivenza civile e solidale.
Una generazione e forse più d'una sono schiacciate dalla propria
irrilevanza sociale, appena compensate dagli ultimi bagliori di
un consumismo vorace e triviale; la parità dei diritti rischia di
scomparire anche come semplice enunciato nel dibattito politico,
anche a causa della evidente sterilità e disarticolazione delle culture
politiche di ispirazione solidaristica,vittime ad un tempo sia di
errori ripetuti sia di tragiche sconfitte storiche.
La società non riesce ad avere risposte credibili ad un
bisogno reale di partecipazione,di politica responsabile, di pulizia e
di sobrietà istituzionali; ad una richiesta di sicurezza, di futuro e
di sviluppo;ad un desiderio di dialogo e di rispetto reciproco. In
quest'ultimo ventennio l'offerta politica è stata lontana mille miglia
da queste aspettative e ha creato strumenti e soluzioni fuorvianti di
cui stiamo pagando il conto: occorre tornare alla politica che unisce,
che sa mediare, che sa discutere e che non ha paura di rinnovarsi e di
mettersi in discussione, di mettersi alla spalle la lunga e infruttuosa
stagione del leaderismo, dei partiti personali, di tutte le forme di
plebiscitarismo. Si ha bisogno di una politica che restituisca a tutti
la dimensione della cittadinanza, che si rivolga ai cittadini non
dimenticando la loro collocazione sociale, i problemi che derivano
dalla disponibilità per ognuno di risorse e di opportunità per
avere una vita dignitosa. Che non si preoccupi solo dello
sviluppo, ma se è necessario anche della redistribuzione delle risorse.
Come si faceva quando i partiti facevano il loro dovere.
Prof. Raimondo Giunta