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Umanistiche: Nazım Hikmet, il poeta comunista

Opinioni
La poesia è follia! L’unica vera follia degli uomini! Catturare, sedimentare, centellinare parole in libertà, con l’assoluta certezza del dovere e del piacere, pur sapendo che saranno raccolte, come i necrologi, in cuspidi infinitesimali di sapere, nel tempo e nello spazio resistenziale degli uomini cosiddetti letterati. La poesia… cos’altro è se non follia!?

Andare a ritroso, finanche nel tempo bambino, per recuperare strali di memoria in compagnia di luci tenue e sedimenti color fiato; la poesia ha l’elegiaco sapore delle fragole raccolte a nascondino dai ragazzi nell’orto del parroco e deposte nelle ceste dell’innocenza e della meraviglia. Questa, solo questa è poesia. E se poi la parola sognata, e segnata, è dominata dal rosso comunista, diventa ancora più “folle” e inconfondibile. E bella. E anche più preziosa agli occhi degli ignari uomini cosiddetti letterati. Ed in questo tempo di mare e d’azzurro, e di crisi mistica del capitalismo internazionale, vale la pena incontrare un vero poeta e un vero comunista: Nâzım Hikmet-Ran. Definito “comunista romantico” o “rivoluzionario romantico”, Nazim Hikmet è considerato uno dei più importanti poeti turchi dell’epoca moderna. Nacque il 20 novembre del 1901 a Salonicco, città dell’Impero Ottomano fino al 1912 (attualmente in Grecia), da una famiglia aristocratica, il padre, Hikmet Bey, era un diplomatico figlio di Mehmed Nazım Pascià, un console turco di origini adighè, anche autore di poesie e brevi racconti, e di Celile Hanım, nobildonna turca di remote origini tedesche. La madre, Aisha, era una pittrice turca appassionata di poesia francese, specialmente di Lamartine e Baudelaire, nipote di Mustafa Celaleddin Pascià, un politico polacco naturalizzato turco. Hikmet scrisse i suoi primi versi all’età di quattordici anni, la prima pubblicazione avvenne a diciassette anni, su una rivista. Apprese in primi rudimenti di letteratura dal suo insegnante, Yahya Kemal, e da altri poeti turchi, come Tevfik Fikret e Mehmed Emin. Durante la guerra d’indipendenza turca lavorò come insegnante a Bolu, aderendo al partito nazionalista, che lasciò poco dopo. Costretto ad espatriare per motivi politici e per aver denunciato pubblicamente il genocidio del popolo armeno, riparò in Russia. Studiò sociologia presso l’università di Mosca (1921-1928), dove scoprì i testi di Karl Marx e della rivoluzione sovietica, così si “convertì” al comunismo, e diventò ateo e antimilitarista. A Mosca conobbe Lenin (al quale dedicò “Comunista! Voglio dirti due parole”), Esenin e Majakovskij (che ebbe su di lui una grande influenza). Dopo il suo ritorno in Turchia, nel 1928, Hikmet aderì al Partito comunista, scrisse articoli, sceneggiature teatrali e altri testi. Fu condannato alla prigione, nel 1929, per affissione irregolare di manifesti politici e trascorse cinque anni in carcere, ma venne amnistiato nel 1935. Scrisse in questo periodo nove libri di poesie che avrebbero rivoluzionato la lirica moderna turca con l’uso dei versi liberi. Dopo la morte del leader turco Kemal Atatürk (che Hikmet criticava nonostante il suo appoggio giovanile), il quale apprezzava le sue liriche non politiche, e, in qualche modo, lo aveva difeso da una eccessiva repressione, il regime si irrigidì ancora di più nei suoi confronti. Infatti, nel 1938, venne accusato di incitare i marinai alla rivolta, processato, fu condannato a 28 anni e 4 mesi di prigione per le sue attività contro il regime, per le idee comuniste e per le iniziative internazionali anti-naziste e anti-franchiste. Scontò quasi 12 anni in Anatolia, nel carcere di Bursa, nel corso dei quali venne colpito da un primo infarto. Alcune sue poesie di argomento politico furono proibite poiché considerate sovversive e lesive dell’onore dell’esercito, e per questo fu anche torturato e costretto a una dura detenzione, che culminò in un suo sciopero della fame di 18 giorni, che gli provocò dei gravi problemi cardiaci che l’avrebbero portato alla morte. In carcere scrisse molte altre poesie, tra cui la celebre lirica, “Alla vita”. Dopo l’intervento, nel 1949, di una commissione internazionale, composta tra gli altri da Tristan Tzara, Pablo Picasso, Paul Robeson, Pablo Neruda e Jean-Paul Sartre, venne scarcerato definitivamente nel 1950. Una volta libero il governo “organizzò” due attentati alla sua vita e tentò anche di arruolarlo nell’esercito nonostante i suoi problemi di salute. Venne candidato al premio Nobel per la pace e vinse il “World Peace Council prize”. Nel 1951, a causa delle costanti pressioni, fu costretto a ritornare a Mosca, ma la moglie e il figlio non poterono seguirlo ed egli trascorse il suo esilio viaggiando in tutta Europa. Si racconta che attraversò il Bosforo di notte, su una piccola barca, col mare agitato e rischiò di annegare, fino a che una nave bulgara, avendo ricevuto una sua foto che lo indicava come ex prigioniero politico e simpatizzante comunista gradito a Mosca, lo trasse in salvo. Chiese, quindi, asilo politico in Polonia: perse così, nel 1951, la cittadinanza turca e divenne cittadino polacco nel 1959, facendo valere le origini familiari di sua madre. A Mosca gli venne assegnato un alloggio nella colonia di scrittori di Peredelkino, ma il governo turco rifiutò sempre di concedere alla moglie ed al figlio il permesso di raggiungerlo. Nonostante un secondo infarto, nel 1952, Hikmet viaggiò molto in Europa, Sud America e Africa. Solo gli Stati Uniti gli rifiutarono il visto, a causa dei suoi legami con i sovietici. Con la destalinizzazione ebbe un’ampia autonomia di movimento e di parola e si trasferì definitivamente in Unione Sovietica, a Mosca, dove scrisse, tra l’altro, “Ma è poi esistito Ivan Ivanovic?”, satira contro la burocrazia e la dittatura stalinista, che, secondo lui, avevano corrotto l’ideale socialista. Nel 1960 si innamorò della giovane Vera Tuljakova, e, annullato il precedente matrimonio, la sposò in quarte nozze. Morì prematuramente, a quasi 62 anni, il 3 giugno 1963, in seguito ad una nuova crisi cardiaca, uscendo dalla sua abitazione, in via Pesciànaya, n. 6, a Mosca. Solamente nel 2002 il governo turco gli restituì simbolicamente la cittadinanza toltagli nel 1951. Nazim Hikmet, le cui poesie sono state tradotte in italiano dalla scrittrice e partigiana, Joyce Lussu, è ricordato principalmente per il suo capolavoro, la raccolta “Poesie d’amore”, che testimonia profondamente il suo “essere” vero poeta e vero comunista.

Angelo Battiato
Ti amo come se mangiassi il pane
Ti amo come se mangiassi il pane
spruzzandolo di sale
come se alzandomi la notte bruciante di febbre
bevessi l'acqua con le labbra sul rubinetto
ti amo come guardo il pesante sacco della posta
non so che cosa contenga e da chi pieno di gioia
pieno di sospetto agitato
ti amo come se sorvolassi il mare per la prima volta in aereo
ti amo come qualche cosa che si muove in me quando il crepuscolo scende su Istanbul poco a poco
ti amo come se dicessi Dio sia lodato son vivo


«La vita non è uno scherzo.
Prendila sul serio,
come fa lo scoiattolo, ad esempio,
senza aspettarti nulla
dal di fuori o nell’al di là.
Non avrai altro da fare che vivere».








Postato il Mercoledì, 23 luglio 2014 ore 07:00:00 CEST di Michelangelo Nicotra
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